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By zaystories_

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! TW: violenza, abuso sessuale, morte/omicidio, dipendenze, disturbi psichici, aborto, autolesionismo. «Non m... More

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Informazioni e TW
Playlist
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
EXTRA - La lettera di Nate Cross
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30 (pt. I)
Capitolo 30 (pt. II)
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
EXTRA - Ava
Capitolo 37
Capitolo 38
EXTRA - Nora (pt. I)
EXTRA - Nora (pt. II)
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
EXTRA - Lewis
Capitolo 44
EXTRA - Dom
Capitolo 45
Capitolo 46
EXTRA - Lydia
Capitolo 47
Epilogo
Ringraziamenti
Tematiche trattate
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Capitolo 17

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By zaystories_

Rylee

«Era proprio necessario che piovesse?» sbuffai, la fronte appoggiata al vetro freddo della finestra del locale. All'esterno, la pioggia estiva scrosciava ininterrotta.

Era la sera che avevamo prefissato per il drive-in, evento che aveva suscitato interesse fra gli abitanti di Worcester. Alcuni erano venuti a chiederci a che ora sarebbe iniziata la proiezione, altri volevano sapere quale fosse il film scelto... Il tutto, però, fu rimandato a causa del maltempo.

Io avevo aspettato quel giorno trepidante, e il cielo plumbeo sopra le nostre teste aveva deciso di ostacolare ogni piano. Nemmeno quella sera avremmo visto il Kenmore riprendere vita, rinascere dalle sue stesse ceneri. Il locale era silenzioso, fatta eccezione per il signor Rogers che sedeva in un angolo, intento a consumare la sua solita cena.

Come se non fosse bastato, avevo trascorso quelle ultime ore con la sensazione che tutto fosse nella posizione perfetta per infastidirmi. Ero più nervosa del solito; l'uniforme da cameriera era stretta, l'etichetta mi causava prurito sul retro del collo. Sembrava che i pianeti si fossero allineati per mandarmi al lavoro di malumore. In realtà, non era nulla di così grande a gravare sul modo in cui mi sentivo: erano solo i miei ricorrenti problemi femminili di cui Lewis rideva ogni mese.

«Andiamo, dolcezza, si tratta solo di rimandare la serata alla settimana prossima, viste le previsioni. Non è la fine del mondo» ridacchiò proprio il mio migliore amico.

Allontanandomi dalla finestra, mi voltai e lo vidi impegnato ad asciugare alcuni boccali con un canovaccio e uno stupido sorriso sghembo stampato sul volto. Io misi un broncio e non lo degnai di una risposta; incrociai le braccia al petto e mi appoggiai al bancone. Il freddo della superficie si arrampicò su per le mie braccia, disseminando la pelle d'oca.

«Va tutto bene?» mi chiese, poi, notando la mia espressione. Parevo uno straccio, tra i dolori al basso ventre e i pensieri che si rincorrevano.

Feci spallucce, ignara di come replicare. «Non sono dell'umore e la pioggia non aiuta».

«Vuoi mangiare qualcosa?»

Quella domanda, pronunciata in modo inaspettato, mi strappò un sorriso divertito. Nessuno all'infuori del mio amico era in grado di comprendere quanto un buon piatto mi rasserenasse. Non esisteva problema che il cibo non potesse risolvere.

Quell'accenno di felicità, però, ebbe vita breve. A interromperlo fu un groviglio di sensi di colpa che mi salì dallo stomaco al cervello e si trasformò in uno dei tanti pensieri intrusivi, pronti a smontare ogni mia certezza.

In quel periodo, il mio corpo mi piaceva meno del solito. Ogni pomeriggio assistevo agli allenamenti di Ava prima di ritagliarmi qualche minuto per me, vedevo la perfezione del suo fisico e del suo disco di gara, e mi crogiolavo nel timore di non essere abbastanza per la mia passione e per me stessa. Non mi piacevano le mie cosce quando ero seduta, che chiunque altro avrebbe ritenuto nella norma; detestavo il poco grasso sui fianchi, che ai miei occhi appariva eccessivo. Sebbene non fossi mai stata vittima di meschine prese in giro, ci aveva sempre pensato la mia mente a denigrarmi quando gli altri non lo facevano, a destare quel terribile senso di invidia e inferiorità che mi divorava le viscere.

Mi ero sentita amata una sola volta, nella mia vita: quando erano le sue mani a sfiorare la mia pelle e tracciavano una scia di punti di forza a sostituire le insicurezze.

Il peso di quel ricordo mi schiacciò, premette così tanto che una lacrima, purtroppo, uscì e rotolò giù per la mia guancia.

«Lee, che c'è...» sussurrò Lewis, riportandomi alla realtà. Il suo pollice mi sfiorò il viso e la gocciolina solitaria scomparì in seguito al suo dolce tocco.

Scossi la testa, non volendo parlare del mio cambio d'umore repentino. Indossai un sorriso al quale lui non avrebbe mai creduto e mi allontanai dal bancone, riacquisendo lucidità. Dovevo impegnarmi in una qualsiasi attività che mi tenesse occupata e che non mi facesse sprofondare nei meandri della mia testa, il luogo che più tentavo di aggirare, percorrendo strade secondarie distanti dai pensieri.

Non lo tranquillizzai e non gli diedi una risposta. Semplicemente, decisi di distrarmi e di andare a parlare con il nostro cliente abituale, l'unico che non avrebbe lasciato il Kenmore neanche sotto tortura. Dipinsi sul mio volto un'espressione serena, priva di turbamento, e raggiunsi il tavolo del signor Rogers in pochi passi. Mi sedetti sul divanetto di fronte a lui senza nemmeno chiederglielo, perché sapevo che lo apprezzava.

«Piccola R» sorrise, passando un fazzolettino di carta sulle labbra screpolate sporche di ketchup. «Oggi non avete molto di cui occuparvi, vedo».

«Solo oggi?» ridacchiai, beffandomi della scarsa affluenza. Con i gomiti inchiodati al tavolo e il mento sulle mani, guardai fuori. Il buio del cielo grigio era inquietante; la pioggia aumentava l'umidità soffocante.

«Ti ho vista strana, prima. È tutto okay?» mi domandò.

Il suo quesito non mi stupì. Il signor Rogers, da quando l'avevo conosciuto, si era sempre comportato come un padre. Solo qualche mese dopo venni a sapere che lo faceva perché quello, purtroppo, era un ruolo di cui sentiva la mancanza: anni prima perse sua figlia, una bambina che aveva ancora tutta la vita davanti, a causa di una malattia di cui aveva sofferto fin dalla nascita. Dopo un lungo e tedioso periodo di cui mi parlò a cuore aperto, l'atteggiamento paterno che assumeva nei confronti di me e Lewis stava curando le sue ferite, seppur non del tutto.

«Un po' sopraffatta, ma sto bene», lo rassicurai. «Stanno succedendo delle cose strane e non riesco a non pensarci» confessai. Proferendo quelle parole, realizzai che il signor Rogers conosceva chiunque, a Worcester. Forse anche quella ragazza.

La sua espressione confusa e al contempo curiosa mi indusse a parlarne. «C'è una ragazza che è venuta diverse volte qui e mi ha lasciato dei messaggi inquietanti, anche sullo specchio del bagno... Non faccio altro che chiedermi chi lei sia. In più, ho scoperto che è legata a un mio amico e che anche a lui stanno arrivando dei bigliettini del genere».

«Ti va di descrivermela? È possibile che io l'abbia già vista» ipotizzò, interrompendomi.

«Ha i capelli ricci, la carnagione appena più scura della mia... Sembra una ragazza normale, a dire la verità. Ha sempre il rossetto sulle labbra e tutto quello che so è che le sue iniziali sono N e S».

«E chi è il tuo amico coinvolto nella vicenda?»

«Blake Mitchell, lo conosce?» indagai.

«Oh, certo che conosco i Mitchell. Quella famiglia è sempre stata sulla bocca di tutti, qui».

Curiosa, mi raddrizzai sul divanetto e spostai la mia attenzione sull'uomo di fronte a me. Si guardava intorno, come a catturare ricordi e aneddoti sparsi nell'aria circostante. Il mio silenzio lo invitò a continuare.

«Quando ero più giovane, andavo spesso al loro poligono di tiro per sparare qualche colpo. Connor e Madison erano fantastici» sorrise, rammentando alcuni momenti felici del suo passato. All'udire quei nomi, sul mio viso si dipinse un punto interrogativo che lui notò. «Sono i genitori del tuo amico», mi spiegò.

Ava non mi aveva mai raccontato nulla della sua famiglia. Sapevo che suo fratello aveva un legame indissolubile con lei e sua madre, ma, oltre a quello, ero ignara di tutto. Prima di quella conversazione non conoscevo né i nomi dei loro genitori, né i particolari della storia che il signor Rogers stava narrando. Volevo costringermi a rimanere nel mio, curandomi solo di ciò che mi riguardava personalmente, ma la curiosità ebbe la meglio, così lasciai che il racconto proseguisse.

«Poi, dopo un po', non ho saputo più nulla di loro. Un giorno arrivai al poligono e trovai le porte sbarrate senza un apparente motivo. E nel vedere in quello stato uno dei luoghi più conosciuti in città, la gente iniziò a farsi delle domande». Fece una pausa, e i miei occhi si incollarono al tavolo di legno, pensierosi. «Nessuno vedeva i due gemellini in giro ed era bizzarro, considerato che erano amici di tutti i bambini del quartiere. Io ero solito portare loro delle caramelle ogni volta che andavo là, ma poi sono spariti nel nulla. Ancora oggi non si sa che cosa sia successo in quel posto, ma le persone non ci vanno più perché pensano che quella famiglia sia perseguitata dai pericoli. Ovunque vadano, c'è qualche conto che non torna e accadono cose strane».

Ascoltandolo, ebbi l'impressione che noi due conoscessimo delle persone differenti. Ava e Blake non erano mai stati misteriosi, per me. Erano solo due ragazzi che non volevano discutere del loro passato, e io ero sempre stata d'accordo con quella decisione: nemmeno io avevo avuto il coraggio di menzionare la vicenda di Dom, con loro. Ciononostante, non credevo che mi nascondessero granché. Erano due persone dall'animo buono, due amici che ero contenta di avere.

«Io conosco i gemelli» mi intromisi, «e non trovo niente di male in loro».

«Anch'io. Come ti ho detto, li vedevo spesso quando erano piccoli. Poi loro sono cresciuti, io sono invecchiato... Non credo che si ricordino di me». Appoggiando la schiena al morbido cuscino imbottito del divanetto, intrecciò le dita delle mani davanti a sé. Assunse una postura rilassata, come se quello fosse stato il banale racconto di faccende dimenticate. Era inconsapevole del fatto che stava destando in me un interesse che andava ben oltre la curiosità. «Ma una cosa è certa», riprese. «Tutti, a Worcester, hanno sempre associato il loro cognome al pericolo... Nessuno conosce il motivo, però».

Non ebbi il tempo di replicare, né tantomeno di elaborare quella verità, che il campanello tintinnò alle mie spalle. Alcune risate echeggiarono nel locale mentre la porta d'ingresso si chiuse da sola, sbattendo contro il telaio. Nel momento in cui mi voltai e Ava e Blake comparvero nel mio campo visivo, mi alzai per accoglierli e tutta la storia raccontata dal signor Rogers evase dalla mia mente.

La mia amica era fradicia, con solo una giaccia di pelle a ripararle la testa dalla pioggia. Suo fratello, invece, perdeva goccioline d'acqua dalle ciocche di capelli. Ridevano per la situazione, prendendosi in giro a vicenda, e quella scena mi rasserenò. Per la prima volta nel corso della serata abbozzai un sorriso sincero, salutandoli con un cenno della mano.

«So che vi avevo detto di venire, ma non pensavo che lo faceste in un giorno di pioggia» commentai, ridacchiando e muovendo qualche passo nella loro direzione.

Blake prelevò la giacca scura dalle mani di Ava e la appese all'appendiabiti posto accanto alla porta d'ingresso. Quando il suo sguardo ricadde su di me, mi sorrise raggiante e mi riservò un tacito saluto.

«Quando piove, il luna park è chiuso e non abbiamo alternative» si giustificò la mia amica. «Quindi, eccoci qui».

«Sedetevi pure» li accolsi, indicando la fila di tavoli liberi. «Sapete già che cosa volete?»

«Un cheeseburger e un'insalata vanno più che bene» rispose suo fratello.

Io annuii e sparii dietro al bancone. Non mi sembrava vero di poter lavorare. Conoscevo ristoranti i cui camerieri non avevano un solo minuto per fermarsi a bere un bicchiere d'acqua, soprattutto a New York, e poi c'era il Kenmore: si distingueva, silenzioso e solitario come solo un locale dimenticato dal mondo in una minuscola cittadina poteva essere.

Giunta all'ingresso della cucina, mi appoggiai allo stipite della porta spalancata. Lewis era intento a pulire qualche utensile e a disporlo secondo un ordine preciso; la concentrazione che metteva nello svolgimento delle sue mansioni era invidiabile. Io, d'altro canto, non ero mai stata in grado di evitare le distrazioni.

«Un cheeseburger e un'insalata per i Mitchell, capo» gli comunicai.

«Pensavo che stessero lavorando» commentò.

«Non credo che alla gente piaccia andare al luna park, quando piove».

«Giusta osservazione». Era voltato verso la piastra e scorgevo solo il suo profilo, ma vidi le sue labbra incurvarsi verso l'alto.

Allontanandomi dalla cucina, tornai dietro il bancone e andai verso il frigo delle bevande. Scrutai il contenuto per qualche secondo attraverso il vetro, poi aprii lo sportello.

«Ava, Blake, cosa vi porto da bere?» chiesi ai miei amici, senza girarmi per guardarli.

«Acqua per entrambi» rispose Ava.

Prelevai due bottiglie per loro e una di birra per me. Raggiunsi il loro tavolo velocemente, sfrecciando nel vuoto del locale dove regnava solo lo sfrigolio dell'hamburger sulla piastra della cucina, e appoggiai quanto richiesto sulla superficie lignea davanti a loro. Mi sporsi oltre il bancone per recuperare un cavatappi e stappai la mia bevanda.

«Grazie, tesoro». Il sorriso della mia amica era raggiante. Mandò giù un sorso del liquido trasparente per rinfrescarsi, poi si schiarì la voce. «E così, quando ci sarà il cinema drive-in

Sospirai sconfitta, poi presi una sorsata di birra. Il gusto amarognolo mi rasserenò all'istante, disperdendosi sul fondo della mia lingua, e fu un toccasana per il cattivo umore della serata. «La settimana prossima, viste le previsioni di questi giorni. Mi chiedo come sia possibile avere tutta questa pioggia a luglio».

«Estate 1986, sicuramente una delle più piovose a Worcester» constatò Blake.

«Evviva», esultai con falso entusiasmo.

«Lee, vieni!» Fu la voce di Lewis a chiamarmi dalla cucina. Lo raggiunsi, lasciando la bottiglia di birra sul bancone, e mi porse i due piatti. Li agguantai, reggendoli in equilibrio sui palmi, e tornai in sala. Il pavimento a scacchiera scorreva sotto i miei passi veloci.

«Ecco a voi, ragazzi» dissi, posizionando le pietanze sotto i loro nasi. Conoscendo i gusti di Ava, consegnai il cheeseburger direttamente a lei. Mi ringraziarono e si dedicarono alla loro cena, così tornai alla mia birra.

Contavo i secondi che mancavano per vedere il Kenmore pieno di gente. Il silenzio che aleggiava, interrotto solo dal rumore di cibi croccanti o dei tasti del registratore di cassa, iniziava a essere estenuante. Avevo lavorato come cameriera dal momento in cui mi ero resa conto di avere bisogno di indipendenza, e non mi ero mai annoiata tanto quanto accadeva a Worcester: quando vivevo a Brownsville, perlomeno, quella sporca tavola calda era popolata da un chiacchiericcio confortante e il sottofondo era creato dalla musica emessa dal juke-box funzionante, l'esatto opposto del catorcio che avevamo al Kenmore.

Apprezzavo quel locale di pochi metri quadrati solo perché, lavorando lì, avevo avuto occasione di riavvicinarmi alla persona più importante della mia infanzia e adolescenza.

Mi costrinsi a interrompere i miei pensieri, che, ancora una volta, avevano iniziato a divagare. Per fortuna, Ava alzò lo sguardo verso di me in quel preciso istante, pronta a pormi un quesito.

«Lee, dovrei chiederti un favore...» esordì, mordicchiando la punta di una patatina fritta. I suoi occhi verdi riflettevano le luci al neon appese al soffitto; le lentiggini in bella vista ad adornare il viso di entrambi i gemelli. «Nei prossimi giorni vorrei allenarmi il più possibile per la gara di Boston», mi spiegò. Annuii, invitandola a continuare. «Ti dispiacerebbe lasciarmi la pista dello Skylite libera, per un pomeriggio?»

«No, tranquilla. Va benissimo» sorrisi. «Se quel giorno dovessi sentire la necessità di pattinare, andrò al parco. Non preoccuparti» la rassicurai.

Buttando giù le ultime sorsate di birra, notai che il signor Rogers si stava alzando dal divanetto. Tornai sul retro del bancone non appena notai la banconota stretta fra le sue dita, e aprii il registratore di cassa, aspettando che lui si avvicinasse per pagare. Quando arrivò, mi rivolse un sorriso triste. Accadeva spesso, nei momenti in cui doveva lasciare il locale: l'idea di passare un'altra serata da solo, in balìa dei suoi pensieri e delle sue dilanianti mancanze, lo devastava e sfiniva.

Mi porse i soliti cinque dollari, che io incastrai fra gli altri. Nel farlo, però, un insolito pezzo di carta mi saltò all'occhio. Ero certa che non fosse denaro, ma lo accantonai per qualche secondo per congedare il signor Rogers.

«Passate una bella serata, piccola R» mi augurò, dolce. «E sta' attenta» si raccomandò.

Annuii, chiudendo il cassetto del registratore di cassa che si bloccò con uno scatto. «Farò del mio meglio».

«A domani. Salutami il tuo amico», lo indicò, protendendo un braccio verso la cucina dove Lewis stava sistemando gli utensili prima della chiusura.

«Sarà fatto».

Lui ricambiò il gesto senza abbandonare quel velo di malinconia, e uscì dal locale. Dalla morte di sua figlia, era sempre stato rinchiuso nella sua solitudine: la moglie aveva chiesto il divorzio, perché non se la sentiva di tenere in piedi un matrimonio dove i due non riuscivano a supportarsi a vicenda, troppo presi dal dolore e dall'angoscia, e lui era rimasto isolato nel suo appartamento in quella piccola e sconosciuta cittadina.

Smisi di rifletterci quando sparì dal mio campo visivo, tornando alla realtà. Afferrai il bigliettino piegato in due e, senza nemmeno leggerlo, raggiunsi la cucina. Per arginare l'ennesima fonte di fastidio, con il dorso della mano scacciai via i ciuffi di capelli incollati alla mia fronte imperlata di sudore, e subito dopo mostrai il pezzetto di carta a Lewis.

«Non so che cosa ci sia scritto, ma spero che oggi, a pranzo, non sia tornata quella pazza» dissi subito, il tono sporco di rabbia ed esasperazione.

«Invece sì, l'ho vista, ma di quel bigliettino non so nulla. A questo punto, credo che me l'abbia lasciato con la banconota e che io non me ne sia accorto».

«Dio», sospirai. Non gli diedi neanche il tempo di replicare, perché tornai in sala, i passi che si susseguivano celeri. Mi arrestai solo quando raggiunsi il bancone, rimanendo sul retro, con la superficie fredda che mi sfiorava la pancia lasciata scoperta dalla divisa striminzita.

Con le dita che fremevano per il connubio di nervosismo e irritazione, aprii quel foglietto piegato in quattro. La calligrafia era la stessa che, giorni prima, imbrattava lo specchio del bagno. L'inchiostro nero presentava delle leggere sbavature e la firma, purtroppo, era la stessa che aveva iniziato a perseguitarmi.

"Vicinanza e distanza.
Una è quella a cui punto io, l'altra è quella che devi mantenere tu.
Sta a te indovinare.
– N"

«Blake». Fu l'unica parola che proferii, le sole cinque lettere che uscirono dalla mia bocca. Con le mani che tremavano appena, reggevo il biglietto che avrei voluto strappare all'istante.

Il mio amico alzò lo sguardo verso di me, appena lo chiamai. La sua curiosità, nel vedere il pezzo di carta che fissavo, tramutò in preoccupazione. Aveva già capito, e io lo compresi dal modo in cui mi osservava anche mentre si alzava dal divanetto. Le sue iridi, illuminate dalla potente luce al neon, erano adornate di un luccichio tremulo che lasciava trapelare la sua inquietudine nel vedermi coinvolta in una storia che avrebbe dovuto riguardare solo lui. Mi raggiunse senza staccare gli occhi dall'oggetto della mia attenzione; il bancone divenne il solo ostacolo a dividerci.

Reggendolo tra due dita, girai il biglietto nella sua direzione. Glielo piantai davanti al volto, così che lui potesse vedere che quella situazione non stava avendo una tregua. Era solo l'inizio di qualcosa che non conoscevo e che iniziava a spaventarmi, e da cui lui voleva tenermi distante.

I suoi occhi si ridussero a due fessure, intenti a decifrare le lettere eleganti e precise. Quando vide la N, notai addirittura i brividi arrampicarsi lungo le sue braccia, infilandosi sotto le maniche della maglietta che indossava, e su, fino al collo, intrappolandolo in una stretta morsa di angoscia.

Era pietrificato, sembrava una statua di marmo. I movimenti che compì furono lenti, forse incerti, e me ne resi conto quando la sua mano finì sulla mia per stropicciare il bigliettino all'interno della sua mano. Fu l'unico momento in cui il suo sguardo incontrò il mio.

«Questa non è una persona a cui piace giocare» mormorò, la voce bassa per non rischiare di essere sentito da orecchie indiscrete. «C'è qualcosa dietro a tutto ciò che fa. Per favore, Lee, se continua a scriverti... devi dirmelo, intesi?»

Non fui in grado di sostenere l'intensità del suo sguardo, il modo in cui i suoi occhi verdi mi imploravano di ricevere un "sì". Io che non sapevo niente di quanto stava accadendo, lui che mi studiava con un misto di premurosità e timore, attenzione e insicurezza. Sorsero mille domande, ma non riuscii a porne neanche una. Tentai di parlare, forse balbettai schiudendo appena le labbra, ma nel mio cervello regnava solo una confusione più fitta della pioggia che cadeva all'esterno.

La mano di Blake era ancora chiusa attorno alla mia – attorno al biglietto, perdio. Il cuore pulsava forte, tanto che persi il conto dei battiti; non ero sicura che fosse solo per l'ansia del momento. Non potendo gestire la forza che le sue iridi esercitavano su di me, come calamite troppo forti per stare al mondo, cominciai a concentrarmi sulla sua pelle che sfiorava la mia; un contatto che durò poco perché ritrasse la mano e, con essa, il pezzo di carta.

«Se prova a dirti ancora qualcosa, vieni da me».

E mi lasciò lì, sospesa nel nulla con le sue parole che mi vorticavano nella mente e delle voci che non si zittivano.

Che cosa celi dietro la tua maschera di mistero, Blake?

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