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By zaystories_

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! TW: violenza, abuso sessuale, morte/omicidio, dipendenze, disturbi psichici, aborto, autolesionismo. «Non m... More

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Prologo
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
EXTRA - La lettera di Nate Cross
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30 (pt. I)
Capitolo 30 (pt. II)
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
EXTRA - Ava
Capitolo 37
Capitolo 38
EXTRA - Nora (pt. I)
EXTRA - Nora (pt. II)
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
EXTRA - Lewis
Capitolo 44
EXTRA - Dom
Capitolo 45
Capitolo 46
EXTRA - Lydia
Capitolo 47
Epilogo
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Capitolo 1

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By zaystories_

Rylee – Worcester, Massachusetts, 1986

«Okay, adesso un Axel».

La voce chiara e acuta della mia amica Ava risuonò tra le pareti dello Skylite, creando un'eco contro il soffitto basso. Erano settimane che cercava di insegnarmi il suo disco di gara sotto mia esplicita richiesta, dato che, occasionalmente, lo Skylite le offriva qualche spicciolo in più per ricoprire il ruolo di allenatrice. Glielo chiesi, inoltre, perché ammiravo la sua tecnica e la sua precisione, i suoi salti puliti.

Io ero il suo completo opposto. Ero abbastanza portata per il pattinaggio ma, ogni qualvolta che scendevo in pista, tutto ciò che percepivo chiudendo gli occhi per brevi istanti erano le mani di Dom sui miei fianchi, che mi guidavano in ogni movimento. Poi ritornavo alla realtà e mi accorgevo che lui non era lì.

La concentrazione veniva a mancare e, anche mentre caricavo i salti per eseguirli nel migliore dei modi, mi sentivo cedere sotto il peso di ciò che nascondevo.

Infatti, caddi a terra per un atterraggio mal compiuto. Il tonfo che emisi fece sospirare Ava dal bordo pista, che accorse preoccupata.

«Cazzo!» sbraitai, colpendo il pavimento liscio con le mani. Sembravo una bambina capricciosa.

«Stai bene?» chiese la mia amica, abbassandosi alla mia altezza.

Annuii.

«Dài, Lee, alzati» mi incoraggiò con un sorriso. Arricciò il naso e mise in mostra le sue lentiggini, in contrasto con la pelle diafana. «Ci riproverai».

Tornai in piedi senza proferire parola alcuna. Era una ventina di giorni che provavo a eseguire quel salto, e nemmeno quella volta ebbi l'occasione di riuscirci con successo. Mi pulii le mani sulla stoffa dei miei leggings e raggiunsi il bordo pista in pochi secondi.

«Magari devi solo aspettare i tuoi ventiquattro anni», rise Ava. «È questione di ore, ormai».

La guardai sedersi su una panca di legno a pochi metri da me. Sciolse il fiocco che teneva uniti i lacci dei suoi pattini e se li sfilò, accantonandoli al suo fianco.

Il giorno dopo sarebbe stato il mio compleanno. Il primo a Worcester, perché decisi di trasferirmi lì all'inizio dell'anno. Vivere a Brownsville si stava rivelando troppo pesante da reggere sulle mie spalle, soprattutto dopo il processo e l'arresto di quel criminale.

La piccola cittadina dispersa nel Massachusetts fu il primo luogo a venirmi in mente. Lì conoscevo Lewis, il mio migliore amico sin dall'infanzia con il quale ormai vivevo, e fortunatamente vantavo di una personalità estroversa che non mi limitava alle amicizie secolari.

Ecco perché avvicinarmi ad Ava non fu difficile.

Mi sedetti accanto a lei sulla panca e mi chinai in avanti per togliere i pattini. I capelli lunghi mi carezzarono il viso, la frangetta mi ostruì in parte la vista.

«Andiamo al Rumors, domani sera?» domandai alla ragazza.

Il Rumors era una delle discoteche più centrali e frequentate di Worcester. Non avevo organizzato nessuna festa per il mio compleanno, ma l'idea di passarlo a ballare fino a notte fonda mi allettava più del pensiero di una misera festicciola.

Annuì. «Ho già pensato a una piccola sorpresa per te».

«Ava» la ammonii ridacchiando. «Non devi».

«Oh, sì» obiettò. «È il tuo primo compleanno qui o sbaglio?»

Alzai le mani in segno di resa. «Non ti sbagli» risi. «Posso invitare anche Lewis?»

«Certo» sorrise.

Ero solita a vedere Lewis ogni singola sera. Lavoravamo insieme al Kenmore Diner, una tavola calda che si reggeva in piedi per miracolo, di proprietà della sua famiglia e frequentata perlopiù da lavoratori dopo una lunga giornata. Fare la cameriera, per me, era ormai un'abitudine, avendo lavorato in un fast food quando ancora vivevo nella periferia di New York.

Una volta liberatami dei pattini, indossai le mie scarpe da ginnastica logorate dagli anni.

«Hai bisogno di un passaggio a casa?» domandai ad Ava.

Mi alzai in piedi e raccolsi tutto ciò che mi apparteneva. Infilai i pattini nella loro sacca, poi afferrai il cordino che la teneva chiusa e lo strinsi saldamente fra le dita.

«No, tranquilla» declinò. «Ci vediamo quando sarai più vecchia, allora» mi congedò ridacchiando.

«Sei più vecchia di me, stronza» risi.

«Me lo rinfacci sempre».

«Io non te lo rinfaccio. Al contrario, ti regalo delle certezze».

«Vai a lavorare, altrimenti Lewis ti uccide. Lo sai che si lamenta, se non sei puntuale».

Mi lasciai andare in una risata pensando al mio migliore amico. Era più piccolo di me di due anni, ma tra di noi non insorgevano mai problemi. Era come un fratellino. Sopportava la mia goffaggine, le mie battutine e il mio onnipresente sarcasmo. Non sapevo come ne fosse in grado, ma se fossi stata più dolce, probabilmente, l'avrei abbracciato a ogni minuto del giorno.

«Ci vediamo domani?»

«A domani, Lee» mi confermò sorridendo.

A passo svelto, mi diressi all'uscita dello Skylite. In quelle calde e umide sere di inizio giugno mi sentivo fortunata a poter parcheggiare la mia auto davanti alla struttura, perché quei pochi metri sotto il sole in procinto di tramontare erano micidiali. Spalancai la portiera della macchina e appoggiai la sacca dei pattini sul sedile del passeggero, poi studiai il mio riflesso nello specchietto retrovisore. Alcune ciocche di capelli venivano sparate a destra e a manca e la mia coda alta era ormai distrutta. Decisi, quindi, di rifarla lasciando che la mia frangia mi coprisse a tratti gli occhi, e una volta finito misi in moto l'auto.

Il tragitto dalla pista alla tavola calda non era lungo e la strada, di norma, non era trafficata. Motivo per il quale impiegai meno di dieci minuti a raggiungere il mio posto di lavoro.

Mentre parcheggiavo direttamente davanti al locale, dovetti ammettere che all'esterno era vomitevole. Le pareti sembravano lamiere bianche, le finestre sporche erano intagliate senza la minima precisione e il tetto era segnato dalla forte pioggia che colpiva la zona nel periodo invernale. All'interno, perlomeno, era accogliente.

Scesi dall'auto ed entrai immediatamente. Lì dentro l'afa era insopportabile, e mi capitava spesso di asciugarmi il sudore dalla fronte mentre volavo da un tavolo all'altro.

«Sei in ritardo, Myers» puntualizzò Lewis dal retro del bancone, soffocando una risata.

«Sta' zitto!» gli urlai, dirigendomi verso il bagno.

Mi addentrai nella stanza angusta, palcoscenico di muffa e ragnatele. Mi infilai la divisa: la camicetta era succinta, stretta e fastidiosa, e la gonnellina metteva in risalto le parti del mio corpo di cui più mi vergognavo. Mi sistemai guardandomi allo specchio scheggiato appeso alla parete e uscii, tornando nella sala principale.

Lewis schiaffò sul bancone due porzioni di hamburger e patatine fritte. «Tavolo dodici, dolcezza», mi indicò.

Li afferrai e mi diressi dai clienti interessati – una coppietta tanto dolce quanto nauseante –, lasciando i piatti davanti ai loro nasi e augurandogli una buona cena indossando il mio sorriso più falso.

Dopo essermi accertata che i pochi clienti presenti non avessero bisogno di nulla, tornai al bancone e mi appoggiai su di esso con i gomiti, reggendo il capo tra le mani.

«Ti vedo irrequieta» ridacchiò il mio amico. «Un altro Axel fallito?» ipotizzò.

Alzai un dito tra noi per interromperlo. «Non si parla di sport sul luogo di lavoro».

«Mi scusi», continuò a ridere mettendo in mostra le sue fossette, mentre si cimentava nella preparazione di un milkshake alla fragola.

Ringhiai per il nervosismo, emettendo un verso indefinito. Lewis si voltò per guardarmi, e il suo sguardo tradì la sua intenzione di non chiedermi niente a riguardo. I suoi occhi mi imploravano di sapere perché fossi così irascibile, quella sera.

«Mi sembra di non riuscire più a pattinare» confessai, arrendevole. «È da quattro fottuti anni che va avanti così».

Pregai i miei occhi affinché non diventassero lucidi. Reprimere le lacrime era, ormai, la cosa che facevo meglio. Mi rinchiudevo nell'apatia e cercavo di divertirmi, con l'illusoria convinzione di potermi dimenticare dell'addio sussurrato a Dom quella notte di novembre di quattro anni prima.

Lewis non era il tipo che dava consigli o impartiva lezioni di vita. Piuttosto, forniva soluzioni che raggiravano il problema ed erano, perlopiù, delle distrazioni.

Per confermarlo, fece scivolare il milkshake alla fragola sul bancone, dritto verso le mie braccia. La montagnetta di panna montata traballò, e una piccola ciliegina affondava lentamente in essa.

«Offre la casa», sorrise.

Non potei fare a meno di nascondere un sorriso. Afferrai la cannuccia a strisce bianche e rosse tra il pollice e l'indice e ne mandai giù un lungo sorso, così freddo da gelarmi il cervello.

«Piano, dolcezza, o ti farai venire il mal di testa». Scosse la testa agitando il suo ciuffo biondo.

«Troppo tardi» risi.

Gettò un'occhiata rapida al locale. Gli unici tavoli occupati erano quello dei ragazzi intenti a consumare il loro cibo spazzatura e quello infondo alla sala, addossato alla parete, a cui sedeva sempre il signor Rogers. Quest'ultimo era un uomo solo, che cenava al Kenmore a sere alternate, e avevamo fatto l'abitudine alla sua presenza tanto da instaurare una piacevole amicizia. Mi chiamava "piccola R", viste le nostre stesse iniziali.

Dopo essersi accertato che nessuno avesse bisogno di lui, Lewis prese uno sgabello e si sedette di fronte a me. Il mio milkshake arrivava già a metà.

Il mio amico raccolse un po' di panna dal bordo del bicchiere con il polpastrello e, senza che io me lo aspettassi, mi passò il dito sulla punta del naso. Chiusi gli occhi e sospirai, in preda a un'ira scherzosa.

«Lewis Christopher Holt» sussurrai a denti stretti.

«Suona bene il mio nome, se lo dici tu» ammiccò.

Mi pulii il naso con il dorso della mano e tornai a guardarlo. Scoppiammo a ridere.

Quei momenti erano tutto ciò che mi teneva a galla e che, da quando ero a Worcester, mi regalavano la leggerezza di cui avevo bisogno. Bastava una delle sue battute o dei suoi gesti affettuosi per riportarmi sulla terra, senza farmi viaggiare tra i problemi nati negli ultimi anni.

«Parlando di cose serie» dissi una volta finito il milkshake. Accantonai il bicchiere al mio fianco. «Domani sera è domenica, non lavoriamo ed è il mio compleanno», gli ricordai. «Andiamo al Rumors? Ci sarà anche Ava».

Lewis aveva una sorta di cotta per la mia amica. Non era un interesse vero e proprio, ma ogni volta che lei finiva nel suo campo visivo, lui si agitava. Non era il massimo nelle interazioni con le ragazze, ma prendevamo quelle situazioni come un pretesto per ridere insieme.

«Oh, beh, come posso tirarmi indietro...» sorrise imbarazzato.

«Passate una buona serata, ragazzi». Fu la voce del signor Rogers a distrarci. Lasciò i soldi contati sul bancone, a pochi centimetri da noi, e con essi una piccola mancia.

«Grazie» gli urlai, mentre usciva dal locale.

La porta si chiuse alle sue spalle, facendo tintinnare il campanello posto sopra l'uscio.

«Dicevamo», Lewis riprese le fila del discorso. «Domani sera. Rumors. Io, te e Ava. Ho qualche chance

«Neanche mezza» risi.

«'Fanculo» mi apostrofò.

Feci spallucce. «Sono sincera».

I ragazzi rimasti nel locale si alzarono dal tavolo e si diressero alla cassa. Lewis, quindi, alzatosi dallo sgabello, si dedicò a loro.

Il registratore di cassa e la sala avrebbero dovuto essere il mio compito, mentre lui pensava a cucinare. Ma quella sera ero sovrappensiero, e lui mi sostituì. D'altronde, non vantavamo di un'affluenza così alta da risultare ingestibile.

I ragazzi uscirono mano nella mano dalla tavola calda, e la porta si chiuse per la seconda volta in quella sera, facendo calare il silenzio.

«Per stasera abbiamo finito», dichiarò Lewis chiudendo il registratore di cassa. Si allontanò un poco per dirigersi verso il quadro dell'elettricità elettrica e spense le luci, lasciando accesa l'insegna al neon rossa che campeggiava sulla parete di fronte a me. Logicamente, recitava "Kenmore Diner" a caratteri cubitali.

Il mio sguardo si illuminò di sorpresa quando vidi il mio amico avvicinarsi a me reggendo un muffin al cioccolato tra le dita. Lo appoggiò sul bancone e infilzò una candelina nella pasta morbida. La accese, e una piccola fiamma illuminò quell'ambiente ormai buio, contrastando le ombre dei nostri visi.

«Aspetta» mi disse mentre si accomodava di nuovo sullo sgabello. Si voltò per guardare l'orologio da parete, le cui lancette erano visibili solo grazie alla luce rossa dell'insegna, e osservò i secondi scorrere. «Non è ancora mezzanotte» sorrise. «Tre, due, uno...» sussurrò.

Soffiai, la fiammella si dissipò. A rimpiazzarla, un mero nugolo di fumo.

Lui applaudì nella quiete con così tanta enfasi da far sembrare il mio compleanno una festa nazionale, e mi fece sorridere per l'ennesima volta.

«Tanti auguri, Lee». Anche lui arrise.

Mi sentivo fortunata quando piccolezze come quella capitavano nella mia vita. Mai come durante quella serata apprezzai un semplice cupcake con una candelina rosa, e mai tre parole mi resero così felice.

Alzai una mano per spettinargli il ciuffo, infastidendolo con fare scherzoso. Lui rise.

E io sorrisi ancora per un po'.

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