Ineffabilis

By liliesbookss

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⚠️ È consigliata la lettura da parte di un pubblico maggiorenne (o, per lo meno, consapevole). Gli argomenti... More

Ineffabilità
Introduzione (+ Cast & Trigger Warnings)
Playlist + songs for the characters
Parte prima - Inconscio
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By liliesbookss

"When she was just a girl she expected the world
But it flew away from her reach
And the bullets catch in her teeth
Life goes on, it gets so heavy
The wheel breaks the butterfly
Every tear a waterfall..."
Paradise — Coldplay
(Pt. 1)

Da bambina, ogni notte, contavo le ore mancanti al sorgere del sole. Ero la sveglia di me stessa e, probabilmente, il primo componente della famiglia ad alzarsi al mattino. Questo perché la mia casa era speciale, era magica, o almeno così credevo. Non era totalmente incantata, ma vi era una stanza molto particolare: il bagno. Ero convinta che al suo interno fosse custodito uno strumento magico e dotato di grandi poteri.

L'oggetto in questione non era altro che uno specchio a figura intera dai caratteri vittoriani, bordato di ghirigori intersecati tra venature di placca dorata; era un semplice oggetto senza gran valore, ma ai miei occhi sembrava un tesoro prezioso. Si reggeva su sé stesso, appoggiando la struttura imponente contro il pallido muro del bagno.

Ogni mattino mi alzavo e, di gran carriera, correvo spedita verso il bagno, urtando mobili e vasi di fiori. Una volta giunta di fronte alla porta della stanza magica, serravo le palpebre e percorrevo i pochi metri che mi separavano dalla lastra di vetro incantata della quale pochi riconoscevano la singolarità.

Prima di aprire gli occhi immaginavo qualsiasi cosa. Questo perché il mio specchio era molto selettivo e concedeva la possibilità di cambiare aspetto solo a chi sapeva riconoscere i suoi poteri. O almeno questo è ciò che mi aveva raccontato mio fratello maggiore all'epoca; e a cui io credevo ciecamente.

Ogni giorno trovavo un nuovo personaggio pronto a farmi trascorrere una giornata ricca di avventure e peripezie. Sentivo di avere il mondo tra le mani ed ero convinta di possedere un oggetto che mi avrebbe aiutata a vincere ogni battaglia. Grazie alla sua magia raggiungevo posti conosciuti solo da noi due. E ne ero felice.

Con la pittura arancione avevo dipinto, su un punto della lastra riflettente dello specchio, un cuore. Tutti i giorni mia madre, infastidita e fingendo di ascoltare le mie proteste, lo cancellava. Puntualmente, io ripetevo le azioni del mattino precedente e vi tracciavo l'ennesimo contorno aranciato. Offrendogli il mio cuore come pegno, credevo di porgere omaggio al mio portale magico. Era un modo per sdebitarmi siccome mi aveva permesso di diventare chi volevo: ogni giorno una persona diversa. Quello specchio era il mio confidente più intimo, l'unico a sapere quali fossero i miei desideri più segreti e nascosti.

Non ero felice di essere me stessa. Volevo cambiare aspetto e, grazie alla sua magia, mi potevo trasformare in chiunque volessi e fuggire dalla realtà cambiando immagine ogni giorno.

Ero convinta che lo specchio non mi avrebbe mai abbandonata e che la sua forza avrebbe avuto effetto su di me per sempre.

Eppure, un giorno ha smesso di funzionare ed io ho continuato ad avere fede nella sua magia per anni; ma lui non ha mai più voluto trasformarmi in nessuno di diverso, se non un'ultima volta. Anche se, in quel momento ho creduto che quell'identità non mi calzasse affatto. Da qualche anno prendevo lezioni di danza e l'immagine che lo specchio mi aveva dato non combinava per nulla con i miei sogni. Mi aveva trasformata in un mostro.

Ho cercato per tanto tempo di cambiare quel riflesso. Mi svegliavo prima dell'alba, correvo lungo il corridoio a tutta velocità, mi tappavo gli occhi, immaginavo e pregavo ardentemente di cambiare identità. Ma, quando li aprivo, la delusione ne approfittava per manifestarsi perché il mio aspetto non era cambiato.

Eppure, ero convinta a non demordere. Non l'avrei mai fatto. Ogni giorno continuavo a ripetere le stesse azioni e a disegnare il contorno di un cuore arancione sullo specchio. Avevo speranza di essere in grado di riattivare i suoi poteri. Anche se, dopo un anno, le mie promesse sono andate in fumo e ho smesso di tenere gli occhi chiusi prima di specchiarmi o improvvisare doti artistiche. Quello successivo ho detto addio al nostro appuntamento fisso al mattino, troppo stanca per alzarmi e correre in bagno. L'anno dopo ho completamente dimenticato la sua esistenza o, meglio, ne ignoravo la presenza in bagno. Non sapevo cosa fosse successo durante quegli anni, ma crescere mi aveva insegnato a disprezzare la mia immagine riflessa nello specchio.

Quand'ero una bambina non odiavo il mio aspetto, bensì la mia identità. Desideravo scegliere quale sarebbe stato il mio nome, la vita di cui avrei fatto parte e il futuro che mi sarebbe spettato. Non provavo vergogna nei confronti del mio viso o della reale grandezza delle membra che mi reggevano in piedi, da tempo a fatica. E, quando lo specchio ha smesso di funzionare, ho creduto fosse colpa mia, ho pensato che la sagoma di un cuore arancione non fosse più sufficiente per dare energie allo specchio. In seguito ho iniziato a incolparlo. Io gli avevo donato il mio cuore e, dopo anni di avventure, aveva iniziato a deformare la mia immagine fino a tramutarla in quella di un essere tanto ignobile quanto orripilante. Non potevo credere che quello fosse il mio vero volto.

Lo specchio aveva il mio cuore tra le sue mani lastricate di placca dorata e, invece che prendersene cura, se n'era preso gioco. L'aveva frammentato, disperdendo i pezzi, così che ogni mia ricerca fosse a vuoto. Alla fine ho riversato ogni colpa su di me. Ho pensato di aver perso la fede o che il mio amore non bastasse più per davvero. O che fossi io a deformare l'immagine che lo specchio aveva preparato per me.

Poi ho iniziato a credere che fosse completamente colpa mia. Che lo specchio non avesse voce in capitolo. Che avesse smesso di funzionare da parecchio tempo e che quello fosse il vero riflesso di me stessa, un riflesso tanto disgustoso ai suoi occhi da averlo convinto a smettere di perdere il proprio tempo con me. Ho cominciato a dare ascolto solo alle voci che sussurravano alle mie spalle quando indossavo il body per ballare. I mormorii all'orecchio non erano altro che caos nel mio cervello.

«Non si capisce niente». Alzo lo sguardo dal foglio che avevo precedentemente appoggiato sulle cosce. Una ragazza, accovacciata sul pavimento, indica con lo sguardo il pezzo di carta spiegazzato.

«Come, scusa?»

«È la tua storia personale, no? Beh, permettimi di dirti che non è comprensibile e che questo non è un corso di scrittura creativa...»

Dà un'occhiata al nome scritto, con una grafia disordinata, in cima al foglio. «Lilian. Non puoi utilizzare paroloni e metafore. Non ti trovi in un club per alcolisti anonimi. Devi essere lucida. Diretta. E, soprattutto, devi raccontare la verità».

Inarco un sopracciglio e ricaccio il foglio all'interno della borsa. Tutto ciò è ridicolo. «Che cosa c'entrano gli alcoli... Perché te lo sto chiedendo?»

Alla mia domanda lei stessa scrolla le spalle senza avere una risposta. Alzo gli occhi al cielo, appoggiando pigramente la testa contro il muro alle mie spalle. Avverto un leggero prurito alla punta del naso e un formicolio sul petto. Do, quindi, una rapida occhiata al mio orologio da polso. Sono le cinque e ventitré. Il mio appuntamento era stato fissato per le quattro meno un quarto: quasi due ore fa.

Ho trascinato tre valigie per tutto l'aeroporto, rischiato di far rinchiudere in prigione e con una pena di almeno due anni il tassista che mi ha portata fin qui, solo per aspettare in una sala d'attesa? Accanto a un uomo intento a russare da più di mezz'ora e ascoltando le critiche di un'estranea?

Non capisco nemmeno per quale motivo io sia ancora qui ad aspettare e non me ne sia andata via. Anche se... Certo. Connor mi rispedirebbe a Finchley dalla nonna se venisse a saperlo. Come dimenticare la clausola più divertente e vincolante del nostro accordo?

«Non so nemmeno chi tu sia, per quale motivo dovrei ascoltarti? Io non... non so nemmeno perché ti sto dando retta.»

La ragazza, ora seduta accanto a me, emette una sonora risata. Il suono si propaga in tutta la stanza, svegliando bruscamente l'uomo addormentato alla mia sinistra e facendo scoppiare il flebile pianto di un bambino in un mare di lacrime. Eppure, per quanto la sua risata sia contagiosa, mi ritrovo a trattenermi dall'andare in escandescenze. «Ascolta,»

Osservo attentamente i tratti orientali del suo viso, incorniciati da una folta chioma corvina. Qualche ciuffo, sfuggito allo chignon chiuso da un pastello verde, le ricade sugli occhi e lei, continuando a ridere sguaiatamente, ricaccia i capelli dietro le orecchie.

Attendo che mi riveli il suo nome, ma non sembra aver captato il mio segnale. «...Tu. È stata una giornata davvero pesante. E lo è ancora. E non credo che finirà tanto presto. Perciò, non penso di aver bisogno di te o averti mai chiesto un consiglio riguardo la mia storia personale. E poi, chi diamine saresti?»

Termino il mio monologo e abbasso lo sguardo, la sua mano è protesa verso di me. «Sono Solada. Solada Bennett. Dottoressa Bennett, in realtà.»

Sgrano gli occhi e scatto in piedi facendo cadere la borsa che avevo posato in grembo. Scruto con attenzione la sua figura dal basso della punta dei piedi fino al capello più ribelle sfuggito alla sua sorta di acconciatura. Cerco di carpire le informazioni fisiche da cui avrei dovuto intuire che non si trattasse di una paziente come me, ma non riesco a trovare nulla.

Nessun badge. Niente. Non è possibile. Non doveva essere un uomo? È così giovane, come può aver preso in carico una situazione clinica come la mia? Il naso continua a prudere, ma cerco di ignorarlo.

Non è il momento. Devo controllare il mio corpo.

«Bennett?» sibilo. Solada annuisce e raccoglie la mia borsa di stoffa dal pavimento. Noncurante, vi fruga all'interno ed estrae la fotocopia del racconto che, lo scorso anno, ho tanto faticato a scrivere. Perché si comporta in questo modo? Perché è così invadente? Credevo di essere in buone mani.

Il prurito diventa sempre più sgradevole così, con un dito, gratto leggermente la punta.

«Proprio così. Sarò io la tua psicoterapeuta. La dottoressa Cooper non ti aveva accennato nulla?» mi domanda. Alza lo sguardo dal foglio nelle sue mani solo per lanciarmi un'occhiata incuriosita. Dal mio canto, nego ripetutamente con il capo, torturando la punta del naso con il pollice e l'indice.

Sono nervosa, irritata. E sento cedere il retro delle ginocchia. «Voglio dire sì! Cioè no. O meglio, sì. Ma no.» balbetto alzando il tono della voce di qualche ottava in eccesso.

Con la mano libera tasto, stringo e quasi strappo le lunghezze dei miei capelli. Li arrotolo, spostandoli da un lato all'altro del collo. Prima a destra. Poi a sinistra. Non concedo loro un attimo di serenità. Di pace. Pace. Proprio la sensazione per cui, ora, sto annaspando in cerca.

«Sì o no? Lilian? Perché continui a toccarti i capelli? È strano». È Solada. Continua ad analizzare il mio racconto con il capo chino sulla fotocopia; alzando, di tanto in tanto, lo sguardo su di me.

Io, invece, rimango in piedi. Fisso le punte delle converse che porto e borbotto un fiume di parole. Ognuna sconnessa dall'altra. Non so nemmeno cosa sto dicendo. E, come se l'imbarazzo non fosse sufficiente, il prurito non cessa. Il formicolio dietro le ginocchia incrementa e, spazzolando le punte dei capelli con le dita, inizio a starnutire ininterrottamente. Una, due, dieci volte.

«Hai il raffreddore? Ma è Giugno». Sento la sua voce. Anche se, a poco a poco, tra uno starnuto e l'altro, le immagini della sala d'attesa perdono consistenza. E, liberando il naso dalla sua tortura, porto la mano sul collo in cerca della carotide.

Tasto la superficie della gola in cerca di un battito, di un segnale di vita. E, quando riesco a percepire i battiti del mio cuore al di sotto delle dita, esalo un sospiro di sollievo.

Avverto su di me gli occhi di tutti i presenti nella stanza. Vedo Solada alzarsi, venirmi incontro e afferrarmi le spalle. Sento la sua voce richiamare più volte un nome.

La madre del bambino che Solada ha spaventato con la sua risata mi offre, quella che credo sia, una caramella. Io cerco di ricompormi, riacquistare l'equilibrio e il controllo assoluto della mia respirazione.

Allontano le mani che mi sorreggono mentre accetto il dolcetto con un debole sorriso. Mi siedo, appoggiandomi contro lo schienale della sedia. La voce alterata di un uomo, seguito da quella che riconosco come l'infermiera che mi ha sollecitata a sedermi in attesa dell'arrivo di Mr. Bennett, si inserisce nel coro. «Sol, cos'è successo?»

«È Lilian.»
«Doherty? Sol... che cosa ti è preso? Che le hai fatto?»

Dal mio canto, ignoro il perché conosca il mio cognome e serro le palpebre. Inspiro. Allontano le dita dalle punte dei capelli e dal naso. Smetto, a fatica, di assicurarmi che il mio cuore stia battendo ed espiro. Inspiro, di nuovo. Le mie membra si rilassano scaricando la tensione.

Concentro la mia attenzione sul suono flebile dei respiri, ora più regolari. Espiro profondamente. Inspiro ancora e, nel mentre, abbandono ogni pensiero negativo o frustrante. Con un lieve sorriso, ripercorro i momenti più rilassanti della giornata e continuo a inspirare ed espirare. Senza fretta. Seguendo il tempo di cui il mio corpo ha bisogno come mi ha insegnato la mia precedente terapeuta.

Espiro un'ultima volta prima di riaprire lentamente gli occhi, strabuzzandoli per via del repentino contatto con la luce. Una volta recuperata l'abitudine, incrocio lo sguardo dell'uomo che si era rivolto a Solada o, meglio, la dottoressa Bennett con il diminutivo di "Sol".

È accovacciato di fronte a me, con un'espressione confortante in viso. Mi sorride prima di prendere parola. «Come stai? Riesci a respirare? Hai bisogno di più spazio?»

Nego con il capo. «No, io... sto bene. Ora. È stato solo...»

Raccogliendo dal pavimento la borsa di stoffa ai suoi piedi, mi precede. «Un attacco di ansia?»

Annuisco e, con un sorriso, accetto la bottiglietta d'acqua offerta dall'uomo che, dormendo, aveva cosparso di bava la mia T-shirt durante l'attesa in sala. «Ma lei come...?»

«La dottoressa Cooper. Abbiamo discusso a lungo della tua situazione. Mi ha parlato delle tue difficoltà correnti riguardo la gestione dell'ansia. Anche se, questa volta, hai affrontato la situazione con estrema lucidità e sangue freddo. I miei complimenti. A proposito, sono il dottor Bennett. Lucas Bennett, è un piacere.»

Sono di nuovo un fascio di nervi. «Dottor Bennett?»
Lui annuisce, alzandosi rapidamente e schioccando un'occhiata alle persone che stavano osservando, con interesse, la nostra interazione. Tra le quali c'è anche Solada. «Ma lei... Tu mi hai preso in giro.» le punto il dito contro.

La ragazza, sotto lo sguardo inquisitorio del dottor Bennett, trattiene un ghigno. «Mi hai scoperta. Devi perdonarmi, non pensavo di poter scatenare un momento del genere. Papà era in ritardo, e mi stavo annoiando. Era solo uno scherzo. E tu sembravi così irritabile. Sono Solada Bennett, per davvero stavolta.»

Mi porge nuovamente la mano. La stringo più forte del dovuto, facendola sussultare. Fingo, poi, un sorriso. «Lily. È bello sapere che hai trovato divertente giocare con la mia salute per fuggire alla noia.»

La corvina, fingendo a sua volta di essere felice, tenta di sfuggire alla mia presa ferrea e liberare la propria mano. Se non fosse per il dottor Bennett, l'avrei stritolata per altri cinque minuti.

L'uomo dalla permanente riccia, cerca di attirare la mia attenzione. «Lilian? Lily? Mi scuso per averti fatto aspettare l'intero pomeriggio. Sono mortificato. Purtroppo ho avuto un imprevisto in famiglia e non sono potuto arrivare prima di adesso. Perdonami per il comportamento di mia figlia. Non dovrebbe nemmeno essere qui. Mi accerterò che non ti dia mai più fastidio. Che ne dici di procedere con la visita?» mi domanda. Annuisco e libero la mano di Solada. Mentre lei, gemendo in approvazione, torna a sedersi.

Sorrido all'uomo che mi ha sbavato sulla maglietta e alla madre del bambino, per poi afferrare le mie valigie, la fotocopia del racconto e la borsa che mia nonna ha cucito con gli scarti di un paio di pantaloni vecchi.

«Per essere così gracile hai proprio una forza bruta». È di nuovo lei e le sue parole sono rivolte a me. Ancora. Ignoro lo sguardo di tutti i presenti nella sala d'attesa. Dev'esserci compassione nei loro occhi e non ne nutro il bisogno.

Il dottor Bennett la rimprovera ma nel momento in cui inizia a riprenderla, un altro soggetto attira la mia attenzione.

Una ragazza, di all'incirca una quindicina d'anni, irrompe nella stanza. Nonostante abbia un aspetto "normale", scorgo l'espressione affranta e il viso rigato di lacrime. Sembra esausta. Stufa di ritrovarsi in questo studio medico. Stringe al petto una busta di carta e, avvicinandosi a passo spedito, mormora: «Sono stanca».

Abbandonando ai suoi piedi la busta da cui scivolano vari integratori, si getta tra le braccia della madre, facendosi cullare dalle sue carezze e spezzando il silenzio con un pianto disperato. Il fratellino di lei si unisce all'abbraccio, stringendo con forza entrambe; per quanto le sue braccia ne abbiano la possibilità.

Fisso spudoratamente la scena torturando le pellicine delle unghie già scorticate. Il mio sguardo scorre dalla famiglia, alla caramella che la madre dei due mi ha offerto, a Solada. E alle parole che ha usato. Rimango impassibile e, prima di cedere, mi volto verso il dottor Bennett.

Sorrido. «Possiamo andare?»

Il medico annuisce e, indicando con il dito indice la porta da cui è entrata la ragazza di poco fa, mi fa cenno di uscire e aspettare in corridoio. Una volta fuori dalla stanza, la mia schiena cerca un appoggio nella superficie ruvida del muro. Trattengo il fiato. Respingo le lacrime. Sto bene. Davvero.

🌷🌷

Tamburello le dita sulla coscia coperta dal tessuto slavato dei jeans. Sono dieci minuti che io e il dottor Bennett siamo seduti, l'una di fronte all'altro, nel suo studio. Non so cosa stia scrivendo o a chi appartengano i documenti che sta riordinando.

Di tanto in tanto alza lo sguardo dal suo quaderno a righe per osservarmi. I suoi occhi cerulei scrutano con attenzione i tratti del mio viso, probabilmente cercando di carpire le informazioni che non ho mai voluto fornire alla dottoressa Cooper. «Non mi ha ferita. Non deve preoccuparsi.»

Penso abbia capito che mi sto riferendo a Solada ma, nonostante ciò, ignora le mie parole. «Come stai?» mi domanda.

Inarco un sopracciglio. «Che cosa?»

«Hai aspettato per due ore nella sala d'attesa di una struttura medica che non conosci e gestito in autonomia un attacco improvviso di ansia. Hai dovuto sopportare mia figlia e assistere allo sfogo di una paziente. E, come se non bastasse, hai una gigantesca macchia di umido sulla maglietta,» indica la mia spalla.

Sposto lo sguardo nel punto da lui indicato. Effettivamente la macchia di bava è più grande di quanto credessi.

Tuttavia, si è dimenticato di nominare l'enorme e fastidiosa vescica che ho sotto il piede destro. Scrollo le spalle. «Dunque?»

«Dunque, credo sia importante sapere come va. Non serve a me, non voglio farti una diagnosi ora o accertarmi che quella che hai già sia veritiera. Voglio solo che tu sia consapevole di come ti senti in questo momento. In fondo sei qui per parlare con te stessa e io non sono altro che il mezzo con cui potrai farlo. Va bene essere stanca, Lily.»

«È ridicolo» borbotto. Il dottore abbandona la penna con cui stava scrivendo e torna a concentrare la propria attenzione su di me. «Perché mai?»

Sbuffo staccando una pellicina dal pollice. Il naso prude leggermente. «Io so come sto. Pure lei sa come sto e cos'ho. Sa tutto. Quindi, perché dovrei ripetere anche a lei sempre le stesse cose? Devo raccontarle una storia strappalacrime e dirle che non so mettere da parte il passato o raccontarle del perché mia madre non aspettava con me in sala d'attesa? Le storie sono sempre tutte uguali. Si ripetono a oltranza come la mia o quella della ragazza di prima. Non hanno rilevanza nel percorso di guarigione e stia pur certo che dirle cosa penso non mi aiuterà a stare meglio.»

Niente può aiutarmi a stare meglio; finché il mio più grande nemico sarò io, nulla potrà aiutarmi.

Facendo scorrere le dita tra i ricci, il dottor Bennett indica il foglio che ho gettato malamente sulla sua scrivania una volta entrata nello studio. «Se ogni storia fosse davvero la stessa, avremmo tutti quanti un unico cervello e opinione, un solo ed unico corpo, una sola famiglia e bisogno dello stesso tipo di aiuto. Invece, non è così. Altrimenti, l'essere umano si estinguerebbe perché non avrebbe motivo di esistere. Questa è la tua storia personale?»

Annuisco. Lui agguanta la fotocopia prima che possa strappargliela dalle mani, iniziando a leggerne il contenuto. I minuti si susseguono uno dopo l'altro, lentamente. Rosicchio le unghie mentre lo osservo studiare il mio testo. Indossa una camicia color lavanda ben stirata sulla quale campeggia una spilletta, dipinta a mano, raffigurante una foglia di alloro. È davvero insolita. Lui sta colmando un taccuino di appunti e scarabocchi. Di tanto in tanto sposta un ciuffo di capelli che gli copre la vista.

«È splendida.»
Alza lo sguardo in un lampo. «Che cosa?»
«La spilla.» la indico. «È particolare.»

«L'ha dipinta mia moglie, Grace. Insegna arte al liceo». Lo sguardo gli s'illumina mentre pronuncia il suo nome. «Non capisco, Lily.»

Perché tutti mi ripetono sempre la stessa identica frase oggi? «Prego?»

Ha il viso corrucciato. Un lieve velo di frustrazione aleggia nel suo tono che, precedentemente, era in brodo di giuggiole al solo pensiero della consorte. «Il testo. Ho studiato il tuo fascicolo per settimane, letto e riletto il file word della tua storia personale decine di volte. Sì, ne avevo già una copia. La dottoressa Cooper e il dottor Miller hanno potuto dedurre e proporre una diagnosi riguardante la tua situazione solo perché hai descritto in maniera meccanica ciò che ti succede, Lily. Prima del ricovero a Londra ti trovavi in una situazione di grave sottopeso. La dottoressa Cooper ha segnalato che durante il percorso in struttura hai recuperato peso, però la situazione non quadra. Noi non sappiamo il perché hai smesso di mangiare. Non conosciamo le radici della tua repulsione e tu non vuoi reagire in nessun modo alle cure da un punto di vista psicologico. Nessuno psicoterapeuta sa dove lavorare per farti guarire. Sembri inerme e non ti importa nulla del tatto o della tua stessa sensibilità. In un anno di terapia non hai mai detto o fatto niente. Mai accennato al tuo passato o avuto una reazione. Sembra che il tuo disturbo sia la stessa conseguenza di sé stesso. Come se esistesse ma non ti toccasse più. È come se per te non avesse valenza entrare in questa struttura, come se non ne soffrissi, come se godessi dell'allungamento del percorso; è come se cercassi di mantenere un peso stabile pur di rimanere in vita ma non volessi guarire. In un anno di terapia sei sempre rimasta impassibile e incurante del perché tu debba seguire questo percorso.»

Né lei né nessun altro si è mai domandato del perché mi piaccia vivere incatenata alla malattia? Non voglio guarire. È così difficile capirlo? È così complicato capire che chiedermi: "perché non mangi?" non mi è d'aiuto? Non voglio nemmeno essere giustificata, voglio solo essere capita.

Se qualcuno si sforzasse di capire perché e non solo come, forse oggi avrei voglia di provare a guarire.

Eppure, i medici sono loro. Non dovrebbero mettere in pratica le loro doti di strizza cervelli per estrapolare tutta la mia vita da un semplice cenno del capo? Non dovrebbero avere bisogno di sentirmi dire cos'è successo.

«Vorrei che ti rendessi conto che la tua storia è diversa dalle altre e merita di essere affiancata, proprio come le storie di tutti gli altri pazienti di questa clinica. Loro si differenziano da te e dal prossimo.» continua lui.

Sgrano gli occhi. «Cosa?»

«Oggi eri stanca. Frustrata. Spaventata. Arrabbiata. Mi hai chiesto di andare quando hai visto il crollo di quella paziente. Trattieni le lacrime ancora prima di averne bisogno. Fingi che il tuo disturbo non esista davvero e che seguire un piano alimentare strutturato sia la normalità. Che nascondere il tremore di fronte a un piatto di cibo sia una cosa da tutti i giorni. Come vedi questo pomeriggio hai avuto una reazione che come terapeuta non avrei saputo prevedere basandomi su storie personali altrui. Quindi non credi che sia corretto e giusto che entrambi capiamo il perché e la radice dei tuoi pensieri?»

È certo di voler capire perché e non solo cosa ho fatto?

«Beh, io non sono l'unica. Potrebbe capirlo con qualcuno altro. I casi di disturbo alimentare sono incrementati negli ultimi an...»

Interrompe la mia risposta imparata a memoria dai dati presenti su Wikipedia. «Non è quello che volevo dire.»

Alzo gli occhi al cielo dondolando, avanti e indietro, sulla sedia. «Ansia?» continua.

Lo guardo interrogativa e lui, con la penna, indica la mia posizione. Oh.

«Sto bene» mento.

«Sul foglio ci sono i segni delle tue lacrime» mi dice, spingendo verso di me la fotocopia che ho stampato ieri sera.

«Non ho pianto.»

Lucas indietreggia con il busto, appoggiandosi contro lo schienale della sedia. Sospira.

Imito le sue mosse e incrocio le braccia al petto. «Ascolta Lily, non mi aspetto che tu sia disposta ad aprirti al primo incontro. Né che ti trovi a tuo agio. Non avrei voluto alterarmi, né metterti con le spalle al muro. Avremmo solo dovuto conoscerci. Sapevo che per te sarebbe stato complicato instaurare un rapporto di fiducia, ma voglio che tu sappia che ogni seduta trascorsa in silenzio non sarà un'occasione persa. Questo tuo atteggiamento non mi farà credere che sei maleducata e irrecuperabile.»

Inarco un sopracciglio inumidendo le labbra. «Quale atteggiamento?»

«Non ci stai nemmeno provando. Fingi di essere maleducata e che non ti importa nulla di quello che sta succedendo.» ribatte.

«È stato lei a dire di aver studiato la mia situazione clinica. Dovrebbe sapere che...»

Mi precede nuovamente. «Dovrei sapere che non sei qui di tua spontanea volontà? Sì. Ma è trascorso più di un anno, non credi che sia arrivato il momento di concedere un'opportunità a te stessa e smettere di considerare questo percorso un modo per accontentare i tuoi familiari?»

«Sciocchezze» mormoro sprezzante.
«Non sono sciocchezze. Perché pensi che la terapia sia inutile?»

Perché non ne vale la pena. Perché non guarirò mai. Perché sono un caso senza speranza. Perché sono rotta. Perché io non ne valgo la pena.

Affondo le unghie nella stoffa dei jeans facendo pressione sulla carne. «Perché è così. L'unico motivo per cui sta parlando con me è perché verrà pagato. Se ascolterà la mia proposta, potrà ricevere molti più soldi. Non le interessa davvero ascoltare la patetica e triste storia di come sono diventata anoressica. Intascherà dei soldi in qualunque caso, quindi perché perdere tempo così? Sa anche lei che non arriverò mai a un punto di guarigione. Quindi, perché non fingere la terapia, montare qualche scusa ed evitare questa scocciatura a entrambi? In cambio le darò mille sterline in più.»

Tanto sappiamo tutti che se provassi a prendere sul serio questa situazione, basterebbe una sua telefonata per rispedirmi al punto di partenza e senza più soldi per un altro biglietto di andata.

«Lily io... mi dispiace per quello che è successo con Solada nella sala d'attesa. Sono mortificato.»

Perché sta tirando fuori di nuovo questa storia?

«Non si preoccupi. Non è colpa sua se ha una figlia insensibile e che non si è fatta scrupoli a umiliarmi di fronte a decine di persone. Sono cose che succedono. Non ce l'ho con lei. Non posso promettere che le augurerò il meglio dalla vita. In realtà spero vivamente che venga bocciata al suo prossimo esame, però non ce l'ho con lei.» è tutto quello che riesco a dire.

«Perché sei così convinta che la terapia sia una perdita di tempo?» continua.

Mi stringo le braccia al petto. «Lei perché cambia discorso?»

Il dottor Bennett mi guarda in attesa di una risposta, stringendo una penna tra le dita. Riesco a vedere che sta trattenendo un sorriso divertito.

«D'accordo, d'accordo. Ho capito. Perché se non avessi i soldi che avrei dovuto utilizzare per il college, dovrei chiedere il denaro ai... a mio fratello. Dovrei aggravare su di lui e soltanto per buttare al vento i suoi di soldi. Questa terapia non servirà a un bel niente. Non si può curare una persona quando lei stessa è un problema e non vuole guarire. Ogni mattina apro gli occhi e mi alzo dal letto consapevole di seguire un percorso inutile, la cui unica prospettiva sembra quella di ricordare all'universo che ogni giorno distruggo la reputazione della mia famiglia e la vita dei miei amici un po' di più. L'unica certezza per loro è credere che io stia facendo progressi. Nient'altro. E voglio che ci credano. Desidero che Connor ci creda. Sono stanca di rompere i suoi equilibri.»

Almeno potrà fare pace con la sua coscienza e liberarsi dell'insulso peso di avermi lasciata sola per anni.

«Perché credi di rovinare loro la vita? Se ti riferisci alla diagnosi riguard...»

Nego con il capo. «Non è solo quello il punto. Quello che voglio dire è che preferisco di gran lunga perdere l'eventuale stima che avrebbe avuto nei miei confronti, se è questo che serve a garantire la loro serenità. Preferisco spendere i miei risparmi in una finta terapia. Non mi importa di mettere a repentaglio il suo pensiero nei miei confronti e non m'interessa ciò che pensa di me. Tra qualche mese potrà fingere la mia guarigione e intascherà il denaro extra che le sto promettendo. E poi, sto bene. Non sarà una grande bugia.»

«Davvero?»

Annuisco. «Certo.»

Mi alzo per permettergli di osservarmi a figura intera. «Vede? Mai stata meglio.»

«Ti reggi in piedi a fatica» mi fa notare.
«È il jet leg. Sono solo stanca.»
«Finchley non è soltanto a un'ora d'aereo da qui?» mi incalza.

Sbuffo, tornando a sedermi. «Deve ribattere a ogni cosa che dico?»

Lucas sghignazza e, estraendo una penna dal taschino della camicia, inizia a compilare un modulo. «Solo quando si tratta di un'idiozia.»

Appunto. Però è un uomo divertente. «Mi lasci dire che questa è stata un'affermazione poco professionale. Ha terminato? Posso andare?»

Ignorando la mia domanda, posiziona davanti a me una fotocopia di quello che riconosco essere il mio precedente piano alimentare e un foglio scritto di suo pugno. «Con la dottoressa Cooper avevi appuntamento una volta al mese. Preferisco, con il tuo consenso, passare a un incontro a settimana. Venerdì pomeriggio alle quattro e mezza, può andare bene?»

Una volta alla settimana? «È troppo alto».

Non capisce, così continuo. «Il prezzo. A malapena riuscivo a gestire un incontro al mese. Non posso sostenere una spesa del genere. Senza contare i colloqui con la nutrizionista. I miei soldi non basteranno» mi spiego.

Lucas, con la penna, indica un punto del modulo. «Nel preventivo ho richiesto il pagamento di cinquanta sterline complessive per un pacchetto di dieci sedute, rinnovabile nel caso sia richiesto un prolungamento della terapia. Il primo colloquio che dovrai fare con la dottoressa O'Hare ammonterà a quaranta sterline, la prassi è questa. Spetterà a lei, in seguito, selezionare il prezzo e quando richiedere un incontro. Il nutrizionista che seguiva il tuo percorso alimentare le ha fornito il piano che aveva strutturato. Dopo il vostro primo colloquio e qualche settimana di monitoraggio, vedrà se apportare modifiche o mantenere il piano uguale. Avrai modo di discuterne con lei...» abbassa lo sguardo, probabilmente per controllare la data dell'appuntamento nel suo taccuino.

Nonostante sembri un'agenda ben organizzata, noto che aggrotta la fronte, sfogliando per la terza volta le pagine. «Giovedì prossimo. Alle dieci,» lo precedo.

«Giusto. Solo un'ultima cosa. Mi è stato riferito di comunicarti che la tua dose di integratori giornalieri necessita di essere incrementata. Da uno al giorno a tre bottigliette, gli orari sono segnati qui. Ne hai a sufficienza per una settimana?»

Annuisco con rassegnazione. Ricomincio, poi, a giocare con le pellicine delle unghie, trattenendo uno sbadiglio. Non chiudo occhio da giorni e i nuovi integratori che mia nonna ha messo in una delle valigie sono ancora intatti. Vorrei solo capire se il dottor Bennett ha effettivamente accettato la mia proposta o no. «Quindi, posso...»

«Vai pure. Ci vediamo venerdì prossimo» mi mostra un sorriso.

Infilo il preventivo e il piano aggiornato nella borsa, per poi alzarmi. Devo uscire da qui.

Prima di poter sparire al di là della porta, il dottor Bennett mi richiama. «Lily? Aspetta un momento, per favore.»

A malincuore mi volto nella sua direzione aspettando di ascoltare ciò che ha da dire. È serio e stringe una cornice color amarena, accanto c'è il racconto in prosa della mia infanzia. Il suo sguardo non è rivolto a me, ma le parole sì. Il tono è colmo di malinconia. «Il passato può intrappolarci e creare l'illusione che proseguire sia impossibile. Ma una decisione già presa non è per sempre. Dobbiamo forgiare il nostro futuro giorno per giorno, tornare sui nostri passi e ignorare le scelte fatte da terzi. Riprovarci.»

Mi sforzo di trattenere un sorriso, seppure la sua attenzione non sia più concentrata su di me. Non ha accettato la mia proposta. «Ci vediamo venerdì.»

🌷🌷

«Quindi, ricapitolando: hai rischiato di uccidere un gruppo di ciclisti e di mandare un tassista in prigione perché avevi paura di arrivare tardi alla visita e quindi hai guidato al posto suo?»

Annuisco. «Dal sedile posteriore.»

«E poi gli hai regalato il tuo portafogli?» continua, sistemandosi gli occhiali da sole, arancioni, sul naso. Non è sorpreso. Peter non lo è mai. Non lo sarei nemmeno io se fosse stato lui ad aver regalato un portafogli pieno di soldi a un estraneo.

«Sì, ma ho preso tutti i documenti prima di lasciarglielo come mancia» mi giustifico.

Il ragazzo al posto di guida, facendo scorrere le dita tra i capelli castani, impreca quando un gruppo di uomini in bicicletta attraversa, tagliandoci la strada. «Prim, se fossi stato al tuo posto quei ciclisti li avrei investiti uno per uno. E avrei pure fatto retromarcia per non risparmiare nessuno.»

Ghigno. «Sei solo mentalmente frustrato perché, a differenza loro, tu non sei capace di andare in bici» gli ricordo.

Una volta sorpassato lo stormo di ciclisti, superiamo l'ingresso di Kelvingrove Park. Siamo quasi arrivati. «Da dove vengo io non ci sono piste ciclabili in mezzo a tutto quel ghiaccio. Comunque, potrebbero smettere di andare a passeggio proprio quando devo guidare io. Perché tagliare la strada sempre a me?» sbuffa lui, ignorando le mie parole.

Alzo gli occhi al cielo. «Sei nato in Canada, Pete. Non in Alaska.»
«Sei scozzese, non puoi capire.»
«Certo.»

Mi tolgo le scarpe e, scavalcando i comandi dell'auto, appoggio le gambe sulle sue cosce, i piedi sopra i pulsanti dei finestrini. «Mettili giù» mi avverte, girando a sinistra.

Gemo mentre torno alla mia posizione iniziale. «Sotto il piede ho una vescica più grande dell'ultimo neurone rimasto in vita nel tuo cervello» mi lamento.

«Sotto, dove?» mi domanda.
«Sotto» ribadisco.
«Dove sotto, Lilian?» ribatte con ovvietà.
«Sotto, Peter. Sotto.»
«Sì. Ma sotto, dove?» continua.

Piagnucolo in cerca di sollievo e di una risposta sensata. «Ho mai dato l'impressione di essere una podologa? No. Che razza di domande sono?»

«E io ho mai dato quella di essere canadese?»

Lo interrompo prima che termini. «Sì.»

Mi ignora. «Quindi, il dottore ti ha detto che devi raddoppiare la dose di integratori e sua figlia ti ha preso in giro per più di mezz'ora?»

Sospiro, smanettando con il cellulare in cerca di qualche notizia interessante su Google; a quanto pare, ieri notte un gruppo di teppisti ha appiccato un incendio a una delle serre del giardino botanico nel West End. «Sì.»

Peter tamburella le dita sul volante fischiettando il motivetto di, probabilmente, una canzone dei Beatles. In seguito, il viso gli si incupisce. I suoi occhi limpidi, e furbi, osservano con attenzione la strada. «Sei così pallida, sembri proprio un cadavere.»

Mi ricompongo. «Davvero?»

«Sì. Mettiti un po' di blush ogni tanto» ribatte, reprimendo un sorriso.

Annuisco gettando lo smartphone nella borsa posata malamente ai piedi del sedile. «Lo farò.»

Oltrepassiamo l'università Glasgow Caledonian, la caffetteria di Cecily Thompson, il liceo e, quando superiamo anche una scuola di danza, tiro un sospiro di sollievo. Mi stringo nella stoffa di cotone, umida, della maglietta, in cerca di un po' di calore.

Nonostante sia estate, soffro notevolmente i danni causati dagli sbalzi di temperatura. Il clima non è mai eccessivamente caldo e ritengo le estati anche piacevoli. Però, quando la temperatura scende di così tanti gradi nel pieno del mese di Giugno, la pelle mi si cosparge di brividi e gli abiti leggeri che indosso di solito, non sono più adatti alle mie esigenze; spesso e volentieri questa seccatura mi porta ad ammalarmi. Il freddo che sento è agghiacciante.

«Eccoci!» esclama Peter, distogliendomi dai miei pensieri.

«Eccoci.»

Eccomi a casa dopo più di un anno. Il palazzo è lo stesso di quando sono partita, simile a una catapecchia i cui affitti non rispecchiano affatto il valore delle sue condizioni. Però, all'epoca era l'unico posto in cui potevamo permetterci di vivere; a parte la strada.

Esco dalla macchina e la brezza d'aria fredda mi gela le ossa. Stringo le braccia attorno al petto e, quando Peter mi affianca di fronte al nostro condominio, avverto le sue mani posarmi sulle spalle la stoffa morbida della felpa che avevo notato sul sedile posteriore.

In seguito, le sue braccia mi conducono contro il suo petto, cedendomi un po' del suo calore. «Hai tanto freddo?»

«Un po'» mormoro. Affondo il viso nell'incavo del suo collo e, beandomi della famigliarità del suo tocco, serro le palpebre, circondandolo con le braccia. Sono a casa.

Gioco con qualche ciocca ribelle dei suoi capelli; non accetterà mai di non essere in grado di portare a termine una messa in piega a trecentosessanta gradi. Mentre cerco di solleticargli la nuca, avverto l'irrigidirsi istantaneo del suo corpo.

Mi scosto di poco per guardarlo negli occhi. «Che succede?»

Lui, però, ignora la mia domanda. Sta osservando attentamente un punto al di là della mia spalla. «Pensavo avessimo terminato di portare via tutto ieri.»

«Infatti... sono passato solo perché Mae mi ha chiesto di portare a Connor gli appunti di storia moderna dato che ha, di nuovo, saltato la lezione. Non pensavo tornaste così presto. Credevo che sareste prima passati da Rick's e avevo pianificato di fare solo un salto veloce. Alelì mi sta aspettando di fronte al centro con Mrs. Evans e sono già in ritardo..»

È incredibile che di lui conosca solo il nome e che l'abbia incontrato solo tre volte prima di partire per Finchley, ma che ricordi così bene il suono della sua voce.

Peter sgrana gli occhi alle sue parole. «Non dovrebbe essere con Julian oggi? E poi tuo padre non aveva istituito una raccolta firme pur di farla licenziare dopo l'ultima volta?»

Mi volto verso la persona a cui si sta rivolgendo, siccome durante il suo sproloquio nervoso non ho fatto altro che dargli le spalle.

Lo trovo in piedi, di fronte a noi e con un raccoglitore di fogli stretto tra le mani. Ha i capelli spettinati e, accompagnate da una T-shirt celeste e un paio di jeans, porta ai piedi delle infradito. Insieme a due calzini: uno bianco e l'altro verde. Sembra spaesato.

Trattengo una risata e mi schiarisco la gola, cercando di reggere la malinconia del suo sguardo. «William,»

Accenna a un sorriso. Ma è di circostanza, lo so. E lo comprendo. Nessuno sarebbe felice di trovarsi davanti alla persona artefice del proprio sfratto.

Andiamo però... che altro avrei potuto fare?

Lui mi rivolge uno sguardo veloce, squadrandomi da capo a piedi. «Ciao, Lils- Lily.»

Lils. Mi ha chiamata Lils.

La sua attenzione torna a Peter. «Infatti, ma credo che abbiano litigato un'altra volta. Al telefono ha detto che Alelí era molto nervosa e che l'ha cacciato.»

«E lui se n'è davvero andato?»
«No, lo sai che non mi fido di lasciarla sola con Mrs. Evans. È seduto su una panchina ad aspettare. Come sempre. Ma tra poco ha lezione e non può rimanere ad aspettare a lungo. È per questo che sono di fretta, non so cosa faremmo se non ci fosse lui a darci una mano. È l'unico che riesce a capirla, anche se quando litigano diventano entrambi intrattabili.»

«Almeno ti aspetta una busta piena di caramelle al tuo ritorno a casa. Vedi il lato positivo, amico.»

Will ridacchia, passandosi una mano tra i capelli scompigliati. «L'ultima volta che ho toccato le caramelle di scuse di Julian, Alelí non mi ha rivolto la parola per una settimana. Non voglio correre altri rischi.»

Il viso di Peter, da prima sorridente, diventa serio. Gli appoggia una mano sulla spalla cercando di dargli conforto. «Ti ho già detto che potete portare Alelí al centro sociale. Sono convinto che le piacerebbe e farebbe amicizia con tutti. C'è un bel programma di pittura e disegno. Prendilo in considerazione... Almeno fino a che non ricominceranno le lezioni, no?»

«Lo sai che lei-»
Il mio migliore amico lo interrompe con le parole a mezz'aria. «Può portare Julian. Lo so che vivono in simbiosi.»

Will gli sorride in risposta. «Proverò a parlarne con lei e mio padre. Grazie, Pete.»

In seguito si offre di aiutarci a scaricare tutte le mie valigie prima di scappare a prendere la famosa Alelí e, una volta raggiunto il terzo piano del nostro condominio senza ascensore, Peter sospira. «Will, puzzi. Da quant'è che non ti lavi?»

Che significa? So di aver smesso da tempo di provare a decifrare quello che dice Peter, però questo? Che vorrebbe dire? Will, d'altro canto, scoppia a ridere alle sue parole ed io, di riflesso, mi ritrovo a imitare le sue azioni. Non so perché sto ridendo però lui ha una risata davvero contagiosa. «Almeno due mesi» gli risponde.

«Vai a farti una doccia, allora. E non dimenticarti di Alelí.»

Sotto il mio sguardo interrogativo, Will sembra intercettare un significato a me ignoto delle parole di Peter. «Sarà fatto.»

Prima di sparire dal pianerottolo si volta verso di me e mi scruta con una particolare attenzione. È come se stesse cercando di carpire delle informazione specifiche attraverso i tratti del mio viso. Non ha più lo stesso sguardo stanco e malinconico di prima, ora sembra quasi nostalgico. È come se mi stesse guardando negli occhi ma vi vedesse riflesso il ricordo vivido di un'altra persona, come se gli mancasse qualcosa e lo stesse cercando. È come se non stesse guardando davvero me.

Capisco chi sta cercando di trovare e mi dispiace che il suo sia l'ennesimo buco nell'acqua.

Mi consegna il raccoglitore con gli appunti per Connor e si affretta a correre giù per le scale come se la mia vicinanza lo disgustasse. Cade a ripetizione mentre scende gli scalini e vorrei riuscire a trattenere l'ilarità che la sua goffaggine ha causato in me, ma non è semplice. «Ci vediamo in giro.»

Annuisco accennando a un saluto con il palmo della mano. Appoggio, poi, la fronte contro la parete accanto alla porta d'entrata. «Mi odia.»

«Perché dovrebbe?» ribatte Peter, portando le valigie di fronte all'uscio di casa.

Sgrano gli occhi. «Gli ho soffiato la camera da letto. Non è cosa da poco. Però sai anche tu che non avevo alternative.»

A parte tornare dai miei genitori.

Il mio amico scuote la testa, inserendo la chiave nella serratura. «Prim, sei così... canadese. Il suo non era uno sguardo di odio, ma da "Non vuoi sapere più niente di me e mi hai cancellato dalla tua vita in un lampo. Ho provato a metterci una pietra sopra ma, ora che sei tornata, non riuscirò più a portare avanti il mio patetico tentativo di voltare pagina. Mi fa male vedere che stai facendo finta di niente senza neanche pensare ai miei sentimenti per te. Però ti perdono ugualmente." Dovresti smettere di girare intorno alla verità e fingere che non esista. E tecnicamente non sei stata tu a soffiargli la camera ma è stata Alisha. Noi due, invece, torneremo a condividere il letto a castello, non sei felice?»

Ecco i sensi di colpa.

Inarco un sopracciglio, non abbandonando la visuale delle crepe nella parete scolorita. «Sono scozzese.»

«Questo è ancora peggio, non credi?»

Per l'ennesima volta alzo gli occhi al cielo mentre mi avvicino a lui, che sta cercando di aprire la porta di casa. «Hai ragione. Tra le due, Alisha è quella laureata lingue orientali?»

Annuisce. «Non sai nemmeno come sono fatte? Sono passati mesi da quando stanno insieme, Prim.»

Alzo un sopracciglio, stanca di sentirmi ripetere sempre le stesse cose. «Pensi che non lo sappia? Però sai anche tu che non parliamo quasi mai al telefono. L'ultima volta in cui ci siamo visti è stata a Natale, quando ancora non stavano insieme, e soprattutto lui non ha nessun social. Che avrei potuto fare?»

«Non alitarmi più sul collo o ti soffierò negli occhi.» è l'unica cosa che mi dice, mostrandomi un sorriso saccente sulle labbra.

«Ah, davvero?»
«Sì.»
«Non ne hai il coraggio.»

Lascia le chiavi appese alla serratura e si volta verso di me. Ci separano pochi centimetri di altezza, oltre che distanza. «Tu dici?»

Sorrido, incorniciandogli il viso con le mani. «Vuoi che ti cacci di casa?»

Sgrana gli occhi. «E tornare in Canada a lavorare nell'allevamento di salmoni di zio Sam? Neanche per sogno.»

«Tuo zio canadese possiede un allevamento di salmoni? E si chiama Sam?»

Annuisce. «Smith.»

Inarco un sopracciglio. «Sam Smith?»
«Esatto, Primula.»

«Certo» ridacchio leggermente e gli schiaffeggio con dolcezza le guance; non ha uno zio di nome Sam Smith.

In seguito, inizio ad armeggiare con le chiavi di casa al suo posto. «Connor è in casa?» gli domando.

Lui annuisce. «Quando sono uscito stava svuotando il frigorifero mentre fumava una sigaretta. Forse era marijuana. Onestamente non ricordo, ero di fretta.»

Ha fumato. Deve aver scritto molto, allora. Peter scrolla le spalle mentre io alzo gli occhi al cielo, spalancando finalmente la porta di casa. Casa nostra.

Insieme trasferiamo le valigie nell'atrio, accanto al mobile che usiamo come scarpiera. Ricordo di averlo montato circa due anni fa. Qualcuno aveva cercato di darmi una mano, ma si era arreso dopo aver letto le istruzioni. Credo fosse Peter. Anzi, ne sono sicura. È stato lui a raccontarmi che sono stata io a montarlo, altrimenti non mi ricorderei nemmeno di essermi data al bricolage.

Mi appoggio contro la porta di legno, tirando un sospiro di sollievo. Sono a casa.

Mi guardo attorno. Il mio quadro è ancora appeso sopra la televisione. C'è ancora il cartellino con il mio nome sull'attaccapanni. Le mie pantofole accanto alle loro. Il profumo non è cambiato, è quello che abbiamo scelto insieme quando abbiamo scoperto che c'era puzza di muffa. Il buco nel muro che ho fatto cercando di appendere una foto di Peter.

La crepa che abbiamo fatto quando, ingenuamente, ho sbattuto la testa del mio migliore amico contro la parete. Peter mi disse che il nostro scopo era capire se la sua testa fosse più dura del muro.

Il tappetino che Connor ha macchiato con il succo di frutta due ore dopo averlo acquistato. I segni di matita sul muro fatti quando giocavamo a misurare le nostre altezze. La porta del frigorifero che ho scoperto di aver rotto. Due iniziali, devono essere state fatte dai precedenti inquilini dell'appartamento, incise sul dorso del porta ombrelli.

Chiudo gli occhi e, cercando calore nelle mie braccia, assimilo tutti i ricordi di questa casa: belli e brutti. Ancora vividi e indimenticabili per la Lily del passato. La Lily del presente non riconosce più quella che è stata la sua casa per tre anni.

Eppure, i ricordi sono ancora qui. Hanno aspettato il mio ritorno. Non hanno dimenticato, a differenza mia.

«Lilian.»
Spalanco le palpebre. Il mio sguardo incrocia il suo. Ha le braccia tese verso di me e gli sorrido timidamente.

L'ultima volta che ci siamo visti avevo un sondino nasale che mi attraversava il corpo, fino a giungere allo stomaco. «Connor,» sussurro.

Attraverso il corridoio in poche falcate e, con un salto, mi getto tra le sue braccia forti e sicure. Quelle che non mi stringono a sé da quasi un anno. Dalla vigilia di Natale. Le braccia calorose di Connor: mio fratello.

«Hai scritto qualcosa?» mormoro contro il suo collo, accarezzando e scompigliando i capelli sporchi. Le mie lacrime bagnano la sua pelle lattea, mentre lui sorride. Avverto la sensazione di gioia nel suo corpo.

«Abbastanza da buttare giù tre capitoli in giornata.»

«Grandioso.»

Dal canto suo, Connor mi stringe con maggiore forza e, improvvisamente, mi ritrovo a tenermi aggrappata al suo collo mentre giriamo attorno alla stanza. Peter, appoggiato contro il bancone della cucina e con le braccia conserte, ci osserva e ride. Ride di cuore.

Sembriamo dei bambini. Sembra tutto tornato alla normalità, proprio com'era prima che decidessi di partire. Anche se non è davvero così. Tutto sembra si sia ridimensionato, eppure... gli equilibri sono ancora rotti, slegati. Manca qualcosa e Peter ha ragione.

«Sono gli appunti di Mae. William mi ha chiesto di darteli da parte sua» gli porgo il raccoglitore, che era caduto sul pavimento durante la foga del momento, mentre lui mi osserva con attenzione.

Sgrana gli occhi. «Will?»
Peter, alle mie spalle, risponde: «Già.»

Connor annuisce, per poi rivolgersi a me. «Cosa ne pensi?»

Alzo le spalle, ripensando all'abbinamento ridicolo dei suoi vestiti. E al suo sguardo spento, soprattutto ai suoi occhi. «È un ragazzo particolare. Credo?»

Mio fratello ride sottecchi. «Non è la prima volta che lo sento dire.»



✍🏻

Wow, è di per sé un capitolo molto intenso pur essendo solo il primo.

Ho creduto fosse opportuno pubblicare almeno il primo capitolo per permettere di avere un'infarinatura generale e iniziale della storia.
Non ci saranno ancora aggiornamenti regolari per il momento.

Ho ancora bisogno di tempo per terminare di revisionare e sistemare per bene i capitoli, però era giusto pubblicare almeno il primo.

Spero possa piacervi e, spero tanto, di riuscire a trasmettere le mie emozioni e portare argomenti come quello dei disturbi del comportamento alimentare (+ altri) con la serietà e sensibilità che meritano.

(⚠️Tengo a precisare che nessun argomento verrà trattato all'acqua di rose, ho lavorato 2 anni alla stesura di Ineffabilis proprio per cercare di scrivere al meglio determinate problematiche e disturbi. Spero di non intaccare la sensibilità di nessuno, così facendo.)

So... Get the best of both worlds 🤍

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