Anime dimenticate.

By SofiaCraia98

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[Completa] Matilde è criptica, solitaria. Esce poco e odia la confusione. Se ne sta spesso a guardare dalla f... More

Aesthetic.
Prologo.
Capitolo 1.
Capitolo 2.
Capitolo 3.
Capitolo 4.
Capitolo 5.
Capitolo 6.
Capitolo 7.
Capitolo 8.
Capitolo 9.
Capitolo 10.
Capitolo 11.
Capitolo 12.
Capitolo 13.
Capitolo 14.
Capitolo 15.
Capitolo 16.
Capitolo 17.
Capitolo 18.
Capitolo 19.
Capitolo 20.
Seconda Parte.
Capitolo 21.
Capitolo 22.
Capitolo 23.
Capitolo 25.
Capitolo 26.
Capitolo 27.
Capitolo 28.
Epilogo.
Ringraziamenti.

Capitolo 24.

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By SofiaCraia98

...Non c'era fato peggiore di non poter gridare al mondo il proprio dolore e di soccombere a una morte silenziosa, col proprio carnefice come unico spettatore, il cui delitto era non saper vedere la linea di confine tra amore e ossessione, altruismo ed egoismo.
- A Succubus Poetry di 97ShadesOfSam

I fruscii delle foglie morte, dello spezzarsi dei rami secchi sotto le suole delle scarpe, i rantoli soffocati per la lunga corsa verso una salvezza ignota erano i rumori di un'anima in corsa, piena di lividi sul corpo e l'immagine della morte impressa nelle pupille. Danzava con i suoi demoni, parlava con loro e faceva riaffiorare ricordi disconnessi, persi per troppo tempo. Lui era innocente, lo aveva sempre pensato, ma quando un essere umano poteva dichiararsi tale? Depressione, desolazione, mancanza di affetto e illusioni potevano cambiare la vita di una persona per sempre. La si rendeva l'ombra di se stessa, persa in un oblio troppo difficile da uscirne indenne, si cadeva verso l'inferno senza nemmeno accorgersene e come Lucifero, venivano staccate le ali, privata di qualsiasi felicità finché non si arrivava alla pazzia o addirittura alla vendetta. Alcuni restavano a guardare la propria dipartita, osservavano come spettatori l'arrivo della fine del mondo, altri invece per sopravvivere diventavano violenti, manipolatori o assassini pur di arrivare al proprio scopo. Facevano soffrire tanta gente, ridevano della tristezza altrui, godevano nel vedere uscire lacrime e tormento. Era un gioco sadico che l'essere umano aveva perfezionato durante i secoli. Samaele, al contrario, era diventato una pedina sacrificabile. Si sentiva perso, dimenticato, e dopo essere stato pestato per aver provato uno dei pochi piaceri della vita, era tornato nell'oscurità, nella cecità più assoluta.

La pioggia sottile inumidiva le ciocche ribelli, mentre il vento si insinuava tra i ricci umidi e la bocca aperta per incanalare più aria verso i polmoni. Correva senza sosta, i rovi gli graffiavano le caviglie e le guance. Piccoli resti di foglie e fango riempivano il viso insieme alle braccia di marcio e terra, mimetizzandosi con le efelidi. Gli occhi erano sbarrati, il cuore batteva all'impazzata, rendendo le sue arterie e vene dei fiumi in piena durante una tempesta. Si guardava attorno, ma nulla riusciva a farlo sentire al sicuro. Aveva paura di tornare a casa, di vedere lo sguardo deluso del padre e quello d'ira del fratello. Si immergeva nel bosco fino a perdere l'orientamento, tutto era uguale: tronchi, alberi, cespugli si ripetevano all'infinito. Aveva la sensazione di essersi smarrito nel tempo, tra lo scoccare di un secondo e l'altro.

Qualcosa, però, fermò la sfrenata corsa di Samaele: una grossa radice fece perdere il suo precario equilibrio e cadde al suolo sul piccolo fiumiciattolo, sbattendo la testa a terra. L'acqua fluiva sulle gote, sulle braccia, bagnandogli la camicia larga e i capelli scarlatti. Il petto fu scosso da singhiozzi violenti e gemiti di sofferenza, non aveva più le forze; si abbandonò allo scorrere della natura, sperando in una carezza lieve.

Si mise carponi, ma le braccia tremavano come foglie, spaventate dal freddo e dal gelo imminente. Avrebbe voluto eliminare ogni emozione dal proprio corpo, invidiava Matilde per la sua freddezza. Il vuoto le regnava nell'animo, perso in una dimensione lontana, nel luccicore dei suoi occhi d'ambra, aspettando una mano gentile che la raccogliesse nel buio di un universo senza stelle.

Guardò verso l'alto per osservare la pioggia fitta e copiosa. Scorreva veloce tra le fronde degli alberi, bagnava rami, nidi d'uccelli e insetti mimetizzati tra le foglie e le cortecce. Nessun suono della natura si pronunciava a cantare melodie di fine estate, tranne lo scrosciare violento di acqua trasparente, soporifera e pungente. Samaele piangeva assieme al cielo, la sua vita era appesa a un filo sottile. I ricordi erano tornati a riempirgli la testa di immagini orribili, di sangue e di spari. Era stata tutta una menzogna: avevano preferito incolparlo per rendere libera l'anima di Eva dal peso insopportabile di avere una prole malata, maledetta dal giorno in cui le loro anime si erano formate nel suo ventre.

Dopotutto, anche lei cercava una vita felice con la persona che amava di più al mondo, ma la pazzia e i sensi di colpa l'avevano resa fragile.

«Perché, mamma, perché!» urlò fino a graffiarsi le corde vocali. Chiuse gli occhi per proteggere le delicate iridi dallo scrosciare perpetuo, come se anche le nuvole volessero rassicurarlo in un mondo in cui nessuno lo amava.

Gridò e pianse, spaventando gli animali del bosco. Una rana si tuffò di tutta fretta nello stagno, uno scoiattolo e un gufo si nascosero nelle loro tane per non sentire le grida di un angelo caduto. Era come assistere allo struggimento di un cervo, ferito dai colpi mortali di un fucile. La bocca spalancata faceva intravedere fili di saliva simili a sottili tele di ragno, le mani intrecciate nelle ciocche umide erano la raffigurazione di un cordoglio straziante. Il cuore si era stancato di battere e chiedersi quanto ancora doveva soffrire per avere una speranza in più, aspettava solo il momento di riposare per sempre.

Brividi di freddo gli percorsero la spina dorsale fino ad arrivare alle braccia. Minuscole protuberanze di pelle si intravedevano sotto la camicia diventata trasparente per l'umidità della pioggia. Si guardò i dorsi delle mani graffiate, coaguli di sangue su vecchie ferite di violenze e ingiustizie. Tutto sembrava una menzogna, un'illusione di un sogno durato troppo a lungo. Non riusciva più a svegliarsi, subiva e scappava come un topo in una fogna. Forse era quella la vendetta di Michele, la vita gli strappava sadica ogni organo vitale. Gli stringeva il cuore fino a farlo sanguinare dall'interno, le vene si spezzavano, creando ematomi e diramazioni simili a fulmini sotto l'epidermide. Lo stava uccidendo con crudele lentezza, una tortura peggiore di qualsiasi altra sevizia.

Un fruscio apatico e ritmato si propagò fino ai suoi timpani, un'ombra scura prese possesso del suo corpo, fino a nascondergli i flebili raggi, occlusi dalle nuvole grigie. Delle caviglie sottili si presentarono ai suoi occhi, abbassati per osservare il suolo e non dover affrontare la realtà. Scarpe sporche di fango e un vestito ceruleo si impressero nell'oscurità delle pupille. Alzò di scatto il viso e ogni goccia d'acqua si fermò, il tempo smise di ticchettare e il dolore si quietò fino a diventare solo un ronzio sordo nelle orecchie.

«Samaele», sussurrò Matilde, sorpresa di vederlo in mezzo al bosco. Dopo la visita di Marie Sophie, era tornata per i suoi passi verso la propria dimora, ma in lontananza aveva udito delle urla strazianti e il terrore di trovare una scena macabra di cacciatori in preda all'euforia di un animale in agonia era sempre più reale nella mente. La curiosità, però, era troppo forte e si era incamminata verso il canto macabro del dolore. Durante il tragitto, si era domandata come stesse Samaele e se fosse tornato a casa dalla sua famiglia. Non avrebbe mai immaginato di trovarlo in quel luogo sperduto da Dio, dalla fitta vegetazione e dalla pioggia scrosciante.

«Alla fine ci incontriamo sempre qui, come se questo posto lo conoscessimo solo noi. Cosa c'è qui che ci attrae come calamite?» domandò il ragazzo inginocchiato al suolo, sporco di terra, erba e foglie morte.

Matilde non fiatò, non aveva nessuna risposta, si sentiva impreparata ad ascoltare emozioni talmente forti da confonderle ogni schema di gioco. Aveva scoperto una verità scomoda riguardo suo padre e forse avrebbe trovato altre risposte da Samaele stesso. Dopotutto c'era anche lui quel fatidico giorno.

«Perché siamo destinati a soffrire?» continuò, «non voglio tutto questo. Guardami, sono un problema, un'erbaccia da estirpare. Avresti dovuto lasciarmi morire in pace, invece di salvarmi!» le gridò contro, furioso nello sguardo e disperato nell'anima.

«Io ti ho salvato per conoscere la verità, per capire chi tu fossi» rivelò, con una voce roca e rotta dallo scrosciare della pioggia. «Avrei potuto piantarti una pallottola nel cranio quando ti ho visto appeso all'albero. Ti avrei fatto morire privo di sofferenza, ma te ne saresti andato senza ricordare».

«Ero lì il giorno in cui tua madre è morta» si alzò di scatto, mettendosi davanti a Matilde, in tutta la sua altezza. «Ricordo il fucile nelle mie mani, gli spari, le urla e il tuo volto fisso a guardare il corpo di tua madre. Lo hai ancora da quel giorno, come se avessi dimenticato ogni emozione» rivelò, sputando fuori ricordi scomposti.

Matilde indietreggiò di poco, i suoi incubi erano solo realtà dimenticate, sapeva di non essere pazza, di non aver abbandonato del tutto i suoi ricordi. L'amnesia l'aveva resa insensibile, vuota e spezzata. Sapeva della morte di sua madre, ma nessuno aveva avuto il coraggio di raccontarle la verità. Samaele conosceva ogni cosa, era il suo fidato Lucifero che non le avrebbe mai mentito, ma poteva ucciderla facendole vedere la realtà dei fatti.

«Tu lei hai fatto del male?» chiese con voce tremante.

«Giuro di non averle torto neanche un capello, mia madre mi ha poggiato il fucile tra le mani e poi è corsa via, dandomi la colpa. Michele non se lo ricorda, è soggiogato da quella stupida leggenda e ama troppo nostra madre per accusarla di un peccato mortale. Lo so, me lo ha raccontato Eva qualche secondo prima di tagliarsi le vene. Nessuno mi crede, sono nato a causa del seme malato del diavolo. Mio padre voleva un figlio suo ed Eva era talmente esasperata da chiedere aiuto a una strega, una megera che le ha fatto perdere il lume della ragione. Sono frutto di uno sbaglio, capisci?»

I loro visi erano a pochi centimetri di distanza, quando la pioggia smise di scendere copiosa e bagnare i corpi di esseri viventi sofferenti alla vita, incompresi dal mondo e dimenticati da tutti.

«Quindi tu mi conoscevi già» assottigliò lo sguardo, mentre cercava di unire ogni punto sulla sua scacchiera immaginaria.

«Non dall'inizio, quando ti ho vista per la prima volta alla sagra non sapevo chi tu fossi. È vero, ti ho spiata e mi dispiace, ma ero ammaliato dal tuo modo di fare e hai battuto mio fratello a carte, nessuno ci era mai riuscito». Fece un sorriso forzato, tentava di trovare del bello in mezzo a tanto dolore. «Quando mi hai trovato nel bosco, però, ho sentito un battito strano, come se il mio inconscio ti avesse riconosciuta tanto tempo fa.»

«È la verità?» domandò, con l'innocenza impressa nella brillantezza delle iridi ambrate colme di lacrime, in procinto di uscire copiose lungo le guance.

Nessuno rispose, Samaele si avvicinò a lei e con slancio premette le labbra contro le sue. Le loro bocche si spalancarono e accolsero uno i peccati dell'altra. Si persero nel tempo, nello spazio recondito e si lasciarono trasportare dal vento nel nome dell'amore, perché se erano arrivati a incontrarsi in quel luogo, dopo secoli a cercarsi tra le fiamme dell'inferno, era solo grazie al sentimento più forte della morte e della distruzione stessa.

«Ti amo, Matilde.» sussurrò a fior di labbra tra quelle della sua amata. Non voleva lasciarla andare, l'aveva trovata e non l'avrebbe mai più abbandonata in balia di una maledizione, sempre se ce ne fosse stata una.

Matilde lo guardò, mentre una lacrima le cadde dalla caruncola, osservò le sue labbra pronunciare quelle parole più e più volte, ma per lei non avevano nessun significato. Provava brividi lungo la schiena, una sensazione di tranquillità mai sentita prima e le sue emozioni premevano di uscire.

«Che cosa significa, ti amo?» chiese piangendo, non capendo le sue parole.

«Il motivo per cui non ti mentirei mai,» sfiorò la punta del naso contro la pelle chiara e umida delle guance, «per nessuna ragione al mondo.»

Per la prima volta, Matilde sorrise di contentezza, le labbra si distesero fino a rendere l'arco di cupido meno pronunciato e delle piccole rughe si formarono ai lati degli occhi. Era una felicità velata dalla bellezza delle lacrime di Samaele e dal cuore colmo di una leggerezza mai provata nella sua vita.

Gli baciò le palpebre umide, succhiando avida liquido salato, mandandola in estasi e rinfrescandole le labbra. Lo privò di qualsiasi cecità, tolse l'oscurità che lo annichiliva fino a renderlo l'ombra di se stesso. Avrebbe voluto divorarlo, sentirlo godere sotto di sé ancora una volta, ma il suo sguardo sereno, le labbra morbide, la coltre di efelidi e ricci scarlatti erano il piacere più grande che avesse mai provato.

«Ho trovato il mio Lucifero» sussurrò, mentre entrambi risero di gusto, scambiandosi morbidi baci tra il silenzio della natura e lo scorrere del fiumiciattolo sotto i loro piedi.

Mentre se ne stavano nascosti tra le alte fronde, in un Eden creato solo per loro, tra le mura di Monteluna si celava il silenzio in mezzo alle strade piene di sampietrini e il gocciolio perpetuo delle tegole delle case, attaccate le une alle altre quasi a reggersi a vicenda dalle intemperie.

Una finestra era aperta per osservare l'orizzonte pieno di nuvole e nebbiolina leggera che oscurava l'orizzonte, mischiandosi con i colori del cielo e del mare in lontananza. Da quella stanza, dei pianti sommessi uscirono fuori, mischiandosi con il rumore della pioggia. 

Christian era seduto su una vecchia sedia di legno, non era andato al lavoro dopo aver incontrato Samele e avergli quasi rotto le costole. Sua madre lo aveva afferrato di peso e riportato a casa, facendole fare tardi in panetteria. L'aveva sgridato per essere stato avventato, la rabbia non portava mai a niente di buono gli diceva sempre. Avevano litigato quasi a urlarsi a vicenda parole orribili, come se non avessero mai voluto esistere entrambi. Teresa aveva il cuore fragile, ma crescere un figlio da sola era stata una sfida ardua. Suo marito era sempre al mulino, si spaccava la schiena di fatica per aiutarla e portare i pochi spiccioli a casa. Era un uomo di poche parole, ma le rare volte che si faceva vivo era un'ombra oscura. Freddo come il ghiaccio, non aveva mai detto a suo figlio quanto gli volesse bene o fosse fiero di lui. 

Christian era cresciuto a sguardi truci e schiaffi, l'amore di un padre era solo un'utopia. Per lui importava solo dei soldi, della nullafacenza del figlio e di quanto facesse esasperare Teresa a causa della sua incoscienza. Nemmeno la vita di Christian aveva sfumature felici, viveva nel silenzio e nell'omertà. Per questo cercava Matilde come valvola di sfogo, una persona con cui condividere qualcosa, pur di non vedere di nuovo occhi di disprezzo e vergogna per una creatura nata senza obiettivi nella vita. La colpa non era di Christian, gli erano stati tarpati i sogni come tutti gli adolescenti di Monteluna. Facevano una vita umile e nessuno aveva la voglia di andarsene da quel posto, avevano paura delle novità e non erano in grado di affrontare un cambiamento drastico. Tutti si lamentavano per essere stati abbandonati, ma se si passava ai fatti, neanche uno aveva il coraggio di fuggire. Restavano nella solitudine, nell'ignoranza di non conoscere altre verità e vivevano in un'illusione, in un mondo creato da loro stessi e dalle tradizioni. Si attaccavano a esse come le radici di un albero si avvinghiavano al suolo. Se ne stavano nelle loro case e si facevano bastare i propri lavori umili, ma indispensabili per il fabbisogno comune.

Christian era entrato in quel vortice già da bambino, quando suo padre gli urlava di non desiderare altri giocattoli o indumenti che non siano stati necessari.
«Sei già uno spreco di soldi tu stesso, figurati se ti devo comprare altri giocattoli. Ce li teniamo per qualcosa di più utile» gli diceva sempre, con la sua voce profonda e minacciosa.

L'unico spiraglio di speranza era stata Matilde, con la sua scacchiera sempre a portata di mano. Era diventato il suo passatempo preferito, se ne stavano ore a giocare, a pensare quali mosse poter fare, subdoli tranelli e prese inaspettate. Non si era mai divertito tanto con qualcuno, in lei aveva visto la sua unica via d'uscita dalla monotonia di un paese troppo piccolo per comprendere i suoi sogni. L'unica passione l'aveva trovata tra le fotografie e una vecchia polaroid comprata di nascosto al mercatino dell'usato, durante una manifestazione estiva nel paese vicino. Scattava ogni particolare, lo rendeva immortale, un secondo rimasto immobile dentro un tempo mutevole.

Alzò di scatto il viso per osservare quadratini plastificati pieni di albe, tramonti e sorrisi persi. Iniziò a strapparle, a toglierle con violenza dal muro e come la neve, cadevano leggere al suolo, imbiancando il pavimento di ricordi irraggiungibili.

«Mi hai lasciato da solo, ti avevo promesso che ti sarei stato vicino, mi sarei preso cura di te, ma hai scelto lui. Quella bestia immonda!» gridò al vento, sbattendo un pugno sulla scrivania e schiacciando altre immagini felici. Aveva ragione Marie Sophie, non avrebbe mai ripreso l'amore di Matilde, era solo di intralcio. Era destinato a bruciare tra le fiamme, dove la sua anima avrebbe perito per l'eternità, con il rimorso di aver amato senza averlo provato davvero. Michele lo aveva ingannato, non gli interessava di Samaele. Non si sarebbe mai sporcato le mani e lui era caduto nella sua trappola meschina. Alberto sperperava tutti i suoi soldi, non avrebbe trovato neanche una lira se fosse andato a casa sua di nascosto per rubargli ogni centesimo e riportarli a Matteo. Era diventato tutto inutile.

Alcune lacrime bagnarono la carta plastificata, mentre altre precipitarono sui vestiti e sul legno bucherellato dalle tarme. Qualcosa, però, catturò la sua attenzione. Le sue iridi chiare si soffermarono su un'immagine di Matilde. Erano alla sagra del paese, il vestito a fiori risaltava le curve del corpo e la scollatura metteva in mostra le scapole sotto la pelle chiara della giovane. I capelli mossi da un leggero vento si intrecciavano tra di loro e alcune ciocche le carezzavano il volto. Le labbra erano incurvate verso l'alto, mentre gli occhiali dalla montatura sottile e dorata riflettevano la luce del flash. Lo fissava con intensità, ma al tempo stesso sembrava stesse osservando qualcosa all'orizzonte, come se non fosse presente con l'anima. Era rimasta a quel fatidico due agosto di sei anni fa, la sua esistenza era morta insieme a Liliana e non ci sarebbe stata nessuna salvezza.

Prese la foto con delicatezza e studiò con minuzia ogni sottile pezzo di carne, aveva la sensazione di non averla mai conosciuta per davvero, ma tutte le volte che restava a guardarla, a tenerla al sicuro tra le sue braccia, il cuore batteva all'impazzata. Le vene si incendiavano, il calore era quasi insopportabile e la pelle si riscaldava al contatto con quella di Matilde. Erano delicati, si sarebbero spezzati a vicenda, ma avrebbe fatto di tutto per tenerla stretta a sé ancora per una volta.

Accettò l'ultima soluzione possibile, se le avesse dato una ragione per amarlo, allora glielo avrebbe dimostrato. Alberto era il suo incubo peggiore, la teneva incatenata nella sofferenza e l'avrebbe liberata da qualsiasi prigionia. Forse era proprio ciò che si aspettava Matilde, doveva proteggerla da suo padre e lo aveva compreso solo in quel momento. Non c'era nessuna leggenda, nessuna maledizione, l'unica sua condanna era stare accanto a un genitore maligno, violento e ingrato. Doveva tenerla lontana e lo avrebbe fatto a qualsiasi costo: poteva rimediare agli errori commessi. Si sarebbe fatto rispettare da lei e sarebbero fuggiti via da Monteluna, in un posto in cui solo loro potevano conoscere.

«Ora ho capito, Matilde. So cosa devo fare, se non funzionerà neanche questo, non varrà più la pena vivere» sussurrò, guardando fisso la foto di Matilde. Le mancava come l'aria e il solo pensiero di perderla per sempre gli attorcigliava le viscere.

Si mise in tasca quel ricordo rimasto immutato nel tempo, si asciugò le lacrime e scese di tutta fretta le scale. Non salutò nemmeno sua madre al lavoro, quello sguardo di tristezza e angoscia fu l'ultima cosa che vide di Teresa. Le avrebbe voluto dire di volerle bene, ma non lo fece, troppo concentrato nella sua missione. Uno dei tanti rimorsi di cui si sarebbe pentito per l'eternità.

Così, tra lo scrosciare della pioggia e il fresco vento settembrino, si incamminò verso casa di Matilde. Attraversò le strade del paese in silenzio, con passo lento e cadenzato, mentre le sclere si iniettavano di sangue, capillari gonfi di pianto e ira repressa. Erano l'inizio di una tempesta imminente, creata dal sangue di innocenti e dal fuoco di anime peccatrici. 

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