Anime dimenticate.

By SofiaCraia98

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[Completa] Matilde è criptica, solitaria. Esce poco e odia la confusione. Se ne sta spesso a guardare dalla f... More

Aesthetic.
Prologo.
Capitolo 1.
Capitolo 2.
Capitolo 3.
Capitolo 4.
Capitolo 5.
Capitolo 6.
Capitolo 7.
Capitolo 8.
Capitolo 9.
Capitolo 10.
Capitolo 11.
Capitolo 12.
Capitolo 13.
Capitolo 14.
Capitolo 15.
Capitolo 16.
Capitolo 17.
Capitolo 19.
Capitolo 20.
Seconda Parte.
Capitolo 21.
Capitolo 22.
Capitolo 23.
Capitolo 24.
Capitolo 25.
Capitolo 26.
Capitolo 27.
Capitolo 28.
Epilogo.
Ringraziamenti.

Capitolo 18.

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By SofiaCraia98

La luce fioca della camera illuminava una piccola parte della scrivania in legno scuro. I volti di Matilde e Christian venivano carezzati dal calore della lampadina vicino alle guance: unico bagliore in mezzo a tanta oscurità. Squadrava e affilava le mascelle, insieme ai lineamenti delicati della forma degli occhi.

La notte li aveva lasciati senza sogni, non dormivano per paura degli incubi, delle azioni sconsiderate dettate dai loro cervelli. Si studiavano a vicenda, un silenzio pieno di significato in cui poter annegare i dolori e le delusioni. Nessuno dei due aveva il coraggio di parlare di cosa fosse successo quel tardo pomeriggio e ormai il sole stava quasi per svegliarsi dietro le montagne in lontananza. Ognuno sarebbe ritornato alla propria vita, ma lo strazio nei loro cuori era palpabile, fin quasi ad assaporarlo. Le bocche cucite sapevano di sale, di lacrime e pelle screpolata, mentre le sclere si asciugavano troppo in fretta, arrossando i bordi delle palpebre.

«Questa volta voglio giocare con il bianco» proferì all'improvviso Christian, mentre l'aiutava a sistemare per l'ennesima volta i pezzi sulla scacchiera.

«Ne sei proprio sicuro? Non sei molto bravo con le aperture» lo prese in giro, con un sottile accenno di sorriso. Quando si trattava di giocare, Matilde era diversa: calmava il caos all'interno della sua mente. Aveva un luccicore negli occhi simile a uno specchio dove potersi riflettere e il colore dell'ambra diventava più intenso. Alcune ciocche corvine le ricadevano sul viso, fili di seta sottili solleticavano lineamenti tondi e alcuni si perdevano tra le folte sopracciglia.
«Lo usi quasi sempre tu, voglio iniziare io per primo.»
«Non penso ti convenga.»

«Almeno fammi provare, diamine!» perse la pazienza per qualche istante, stringendo le mani a pugno. Ritornò calmo l'attimo dopo, rilassando la colonna vertebrale sul poggiaschiena della sedia in legno. «Ho bisogno di parlarti anche di una cosa importante, riguarda ciò che è successo ieri pomeriggio» sussurrò l'ultima frase.

Doveva sapere cosa aveva scoperto da Marie Sophie, renderla partecipe delle perversioni di una strega e dell'oscurità celata dietro pagine ingiallite di libri proibiti. Aveva lasciato il foglio strappato nello stanzino dei sotterranei vicino al vecchio cimitero della città, in cui le sue pupille divennero partecipi di danze mefistofeliche, orge di corpi nudi e dipinti di un sangue nero. Lo avrebbe preso per pazzo, ne era sicuro, ma un tentativo doveva pur farlo. Forse avrebbe provato a farla desistere dal non incontrare più il ragazzo dai capelli scarlatti e dalle lacrime perlacee. Non aveva il coraggio neanche di pronunciare il suo nome, sentirlo gli metteva i brividi e non voleva essere dannato per l'eternità.

La sua ansia si poteva leggere tra le rughe sulla fronte, tra l'irrequietezza delle iridi chiare come il mare saettare da una parte all'altra, intente a osservare un vuoto in cui navigava il viso impassibile di Matilde. C'era solo lei e nessun altro.
«Perfetto, a te l'onore. Ti ascolto» sentenziò, facendogli un accenno con la mano per incoraggiarlo a muovere uno dei tanti pezzi.

Senza pensarci più di tanto, mosse di due caselle il pedone davanti alla regina. Iniziò a posizionare le prime strategie, ma Christian più cercava di prendere il dominio del centro, più si sentiva precipitare in una trappola mortale. Matilde aveva sviluppato uno dei suoi alfieri scuri in fianchetto e dato via d'uscita alla regina. Di solito aspettava sempre qualche mossa prima di andare all'attacco, ma qualcosa nel suo cervello stava cambiando.

Si erano fermati alla settima mossa e già Christian era nel panico, se avesse fatto uscire la donna sarebbe stato un problema molto serio.
«Sono andato da Marie Sophie ieri pomeriggio» sentenziò all'improvviso, con il cuore in gola.
Matilde stava per muovere un cavallo, ma fermò le dita a mezz'aria non appena sentì il nome della ragazza dai capelli dorati. Senza togliere lo sguardo dalla scacchiera le sue labbra cominciarono a muoversi in delicati moti ondosi: «Marie? Quella che ci invitò alla danza delle streghe?»

La figura davanti a sé annuì energica, aspettando in una risposta, ma non arrivò. Al suo posto, due occhi melliflui lo scrutavano nel profondo. Si erano impigliati tra le fibre celesti delle sue iridi e dentro di lui il sangue circolava caldo, infiammava le vene e colorava le gote. Lo eccitava e lo spaventava al tempo stesso, non c'erano vie di mezzo.

«Continua, mi incuriosisce. Così potrò sapere perché non eri presente. Avresti dovuto avvertirmi del tuo ritardo, al negozio di tua madre c'è un telefono, non è vero?» lo provocò con un accenno marcato d'irritazione nella sua voce. Con prontezza mosse la regina in diagonale di due caselle, facendo battere sulla scacchiera il rivestimento in velluto rosso del piedistallo.

Aveva cambiato strategia in pochi secondi, studiando l'ansia di Christian: gli occhi non smettevano di guardare la sua donna. Tergiversare era servito a ben poco, anzi, aveva solo peggiorato la situazione. Ci sapeva fare, ma Matilde controllava ogni mossa, ogni strano atteggiamento per riuscire a carpire qualche debolezza in più. Lo conosceva molto bene e per lei era solo un libro aperto. Aveva capito le sue preoccupazioni e avrebbe fatto in modo che si intensificassero fino a renderle insopportabili. Stuzzicava, metteva in soggezione e godeva nel sentire il cuore palpitare dentro lo sterno. Il silenzio era così denso da riuscire a percepire anche i respiri leggeri uscire fuori dalle narici: aliti caldi pregni di sadico desiderio.

«M-mi dispiace,» balbettò, «ho avuto una giornataccia e mi sono dimenticato di chiamarti. Avevo altro per la testa in quel momento». Erano parole che laceravano la carne, Matilde risentiva il dolore nelle frustate, negli scorci di occhi allocroici e in ciocche color del sangue. Era rimasta incantata a osservare, toccare e ascoltare un animale ferito, un'esistenza proibita fatta di rara bellezza. La attirava come una calamita, soprattutto riusciva a quietare il caos all'interno del suo cervello. Non lo aveva mai conosciuto, sapeva della sua esistenza fin da bambina, ma i suoi ricordi scomposti e l'amnesia non aiutavano. Si era dimenticata della sua presenza, ma al tempo stesso l'epidermide bruciava al solo sfiorarla con dita delicate. Un dettaglio nascosto tra i palpiti del cuore riconosceva somiglianze di volti osservati in epoche diverse, secoli passati a cercarsi e ad abbandonarsi in un incessante loop. Sperava in modo ingenuo, come una bambina che credeva ancora nelle favole. Il mondo non era stato ideato per essere l'Eden agognato da tutti gli esseri viventi, al contrario, era un inferno a cielo aperto e i demoni ballavano sulle disfatte altrui e sulle tombe dei peccatori.

«Cos'è che avevi in mente, di preciso?» chiese con una sottile e velata ironia, come se si aspettasse già la risposta. Simile a un fulmine a ciel sereno, spostò le dita da una pedina all'altra e gli incubi di Christian cominciarono a diventare reali. Piccole e sottili mani mossero la regina in diagonale, facendosi spazio tra i pedoni. Era una mossa azzardata, ma le piaceva vedere l'ansia percorrere tra i movimenti impercettibili della mascella e delle palpebre. Esse si contraevano in spasmi involontari, l'ingenuo sapeva di essere in una posizione di pericolo, ma non aveva il coraggio di esporsi alle sue provocazioni.

Il giovane deglutì e preso da uno sfacciato coraggio iniziò a parlare: «Hai mai creduto a miti o leggende bibliche?»
Continuarono a giocare, in modo lento e calibrato, ma al tempo stesso si studiavano a vicenda per capire quali fossero le loro vere intenzioni: scavare nelle angosce dell'altro.
«Ho letto qualcosa in biblioteca, ma come hai detto tu, sono solo pura fantasia di un uomo che non aveva altro da fare nella vita» sputò amara, concentrata sulle mosse e sulle strategie da compiere.

«Se invece un fondo di verità ce l'avessero?» proferì, cercando in tutti i modi di farle perdere pezzi. Voleva istigarla, vedere se portarla alle strette potesse essere un modo per renderla più vulnerabile. Alfieri, cavalli e regine si spostavano come in una danza macabra, dove chi divorava l'altro era il vincitore di una battaglia piena di schemi, scacchi di scoperta, manovre meschine e al tempo stesso geniali per soffocare l'avversario.

«Forse avrei dovuto affogarti per davvero nella vasca, così avresti smesso di dire tali stupidaggini». Presa da un'attacco d'ira si fiondò sulla donna avversaria, dando scacco al re.

Christian si sentì punto nel profondo, percepiva ancora le sue dita attorcigliate sul collo, premevano arterie e capillari. Alcuni per il troppo sforzo si erano rotti, lasciando ematomi rossastri su una tela bianca simile alla neve durante la stagione di caccia. Si colorava sempre di sfumature scarlatte quando i cacciatori più intrepidi si avventuravano nei boschi per uccidere caprioli e lepri, facendoli diventare sadici trofei.

«Hai catturato la mia regina» sussurrò sbigottito. «In questo modo, però, perderai anche la tua»

«È un rischio che mi piace correre, si finisce sempre troppo presto quando sono ancora in gioco. Proviamo con qualcosa di più ragionato». Le parole le uscivano dalle labbra con una cadenza troppo tranquilla, gli occhi puntati nel vuoto erano l'unico scorcio in cui poter osservare la sua anima precipitare dentro un baratro nero senza un via d'uscita.

«Non avresti dovuto farlo, cercare di affogarmi, cosa ti è saltato in testa? Ero lì per aiutarti. Non posso avere la sfera magica per sapere cosa succede ogni secondo in casa tua e in quali guai ti vai cacciando.»
«Strano, per un momento pensavo ti stesse piacendo.» lo provocò, guardando le sue guance arrossire dalla vergogna. «Non mi ero immischiata in nessun guaio, mio padre l'ha creato»

Con suo stupore, notò le mosse dell'avversario farsi sempre più ingannevoli. Un pedone era stato catturato dal cavallo bianco: un'atto inaspettato tra i tanti schemi celebrali. Rimase interdetta dalla strana piega, era la prima volta in cui si sentiva messa al muro, immobilizzata fino alle caviglie. Non poteva perdere il controllo, non se lo sarebbe mai perdonato.
«Cosa è successo?» domandò Christian, con un filo di curiosità prima di iniziare a raccontare i suoi strani aneddoti.

«Ha minacciato di uccidere una persona, mi ha urlato di non stargli vicino. Lo ha chiamato demonio per tutto il tempo. Si è fuso il cervello con l'alcool e il fumo oltre ad aver dato via il violoncello a causa di uno stupido gioco di carte, non glielo perdonerò mai»
«Qualche bottiglia di birra e due tiri di sigaretta sono il male minore in questo momento, fidati. Non sai con chi hai a che fare» sibilò, affondando le sue iridi nell'ambra più pura.

«Non puoi saperlo, non eri presente. Se tu avessi visto i suoi occhi iniettati di sangue e di odio verso quella figura, ti saresti spaventato anche tu. Mi ha frustata per questo e tu cerchi ancora di trovare una spiegazione logica?»
«Non è solo di Alberto che sto parlando. È incredibile come tu abbia dimenticato tutto quanto.»

Il silenzio si fece palpabile, una sensazione simile alla vertigine entrò tra le strette mura della camera di Matilde. Sapevano entrambi l'argomento da affrontare, ma nessuno aveva il coraggio di dire il suo nome, come se al solo sentire lettere simili a una cascata di sangue potessero in qualche modo bruciare le loro lingue.
Le pedine sulla scacchiera continuavano a spostarsi, menti in continuo movimento si apprestavano a finire l'ennesima partita, prima di vedere i tenui e velati raggi del sole sbucare tra le fessure delle persiane in legno.

Christian conosceva i vicini di Matilde, non erano persone affidabili. Purtroppo Alberto lavorava per loro nella macelleria di famiglia e non poteva andarsene da un giorno all'altro; per la sua età avanzata non lo avrebbe accolto nessuno. Era l'unico posto in cui si sentiva a suo agio. Ogni tanto per arrotondare aiutava alcuni suoi conoscenti durante la stagione della raccolta del grano. Avrebbero dovuto iniziare a breve, se non quel giorno stesso, a mietere e portare il fieno nelle stalle, dar da mangiare ad animali affamati e tenerli al caldo durante le dure notti autunnali. Non potevano permettersi di farli morire di ipotermia, sarebbero stati solo carni sprecate.

«Illuminami» lo sfidò, con le sopracciglia tese e la mascella contratta a formare uno sguardo provocatorio.

Le raccontò per filo e per segno tutte le frasi uscite fuori dalla bocca di Marie. Le spiegò il mito delle anime dimenticate, di Lucifero e Lilith, mentre angoli del suo cervello mettevano insieme i pezzi. La mise al corrente del malato sadismo, delle movenze tentatrici e delle perversioni più macabre. Era stato complice di atti impuri, compiuti per un unico scopo: far tornare l'angelo ribelle a cercare vendetta sulla terra. L'amore platonico andava contro le leggi del tempo, si insinuava nei secoli e continuava a tornare in un incessante loop. Si incontravano negli anni per poi dimenticarsi l'uno dell'altra a causa di una punizione divina. I libri parlavano chiaro e anche se fosse stata solo mera immaginazione, un briciolo di verità doveva pur esserci.

«Cosa c'entra con me tutto questo?» chiese Matilde, con le pupille dilatate, ammaliate e sconvolte da rivelazioni troppo complesse.
«Credo che il giorno dell'incidente sia successo qualcosa, ho come l'impressione che non sia stato del tutto casuale. Forse Marie sa qualcosa, dopotutto le sue intenzioni sono quelle di mettere fine al circolo vizioso e dare dimora a Lucifero sulla terra. Per questo devo proteggerti, ho bisogno che tu stia al sicuro e non ti capiti qualcosa di brutto. Ti ho fatto una promessa e la manterrò fino alla morte»

Una pausa di riflessione creò una barriera in mezzo a due corpi freddi come il marmo. Nessuno si permetteva di fiatare, aspettavano uno le parole dell'altra. Il caldo estivo iniziava a svanire e i brividi sulla pelle scoperta diventavano sempre più evidenti.

«Mi stai dicendo che sono vittima di una maledizione e noi siamo i prescelti?» domandò seria, con i pugni stretti e la rabbia pervaderle il corpo. Non proferì oltre, aveva già ascoltato abbastanza idiozie e non avrebbe retto a lungo. «Credo sia tempo che tu te ne vada, sono le sei della mattina e devi tornare a casa. Qui abbiamo finito, grazie per la compagnia e per la storiella della buonanotte». Era una verità scomoda, ma Christian doveva svegliarsi dal torpore in cui era annegato. Forse gli aveva procurato qualche lesione al cervello a causa dell'asfissia, ma nei suoi occhi leggeva terrore, ansia e angoscia in un unico scatto millimetrico di iridi oceaniche.

«Perché non mi credi? È la verità. Non andartene, dobbiamo finire la partita, siamo alla fine ormai». La prese per il polso, facendola rimanere seduta sul posto. Non voleva andarsene, era troppo importante e anche se il suo discorso fosse sembrato un monologo di un pazzo, doveva farle credere almeno una minima parte di tutta la storia.

«Se non te ne sei accorto è matto in una mossa, il tuo re è scoperto, mi basta solo muovere il pedone di una casella per lo scacco, non hai scampo perché il mio cavallo ha sbarrato la strada, mettendoti all'angolo. Hai perso, Christian. Di nuovo.»

Osservò la scacchiera e infatti aveva ragione, non aveva prestato attenzione alle ultime mosse e si era fatto fregare un'altra volta. Con Matilde non c'era mai una via d'uscita. Imprecò, sbattendo un pugno sul tavolo e nel mentre un rumore metallico si sentì echeggiare da fuori la finestra.
«Mio padre si è degnato di tornare, era ora. Non capisco perché abbia aperto il garage, la macchina la lascia sempre fuori. Devo vedere cosa sta succedendo.»

Si alzò dalla sedia e con passo svelto lasciò che le gambe toniche e morbide la trasportassero verso l'esterno. Christian la seguiva come un'ombra, la chiamava per avere la sua attenzione, ma la sua mente era annebbiata dal sapere, scoprire cosa ci fosse di anomalo nel sentire un rumore diverso dal solito. Alberto non rincasava spesso la mattina, si fermava a dormire da Tommaso per riprendersi dalla sbornia oppure ritornava solo per prendere il suo fucile e andare a caccia, ma quella sera non si era fatto vivo. Matilde non sapeva dove fosse andato. Dopotutto, non le importava, ogni tanto sperava di trovarlo annegato in qualche torrente o schiacciato dal peso della macchina in un burrone, senza doversi sporcare le mani di sangue.

«Matilde, aspettami, per favore». L'amica si fermò al primo gradino della scalinata verso il primo piano e lo osservò dall'alto. «Anche se non credi a tutto questo e ti capisco, anch'io fatico ancora a trovarci una logica, ma secondo me c'è qualcosa su cui indagare. Tua madre è morta per uno sbaglio, nessuno l'avrebbe voluto, ma ti prego, fammi il piacere di stare lontana da quel ragazzo». Non aveva il coraggio di dire nemmeno il suo nome, il livore lo divorava dall'interno e prosciugava ogni parvenza di sanità mentale. Matilde doveva essere solo sua e di nessun altro. Il loro legame era speciale, lui il braccio e lei la mente. Avrebbero fatto invidia al mostro di Firenze, se ne avessero avuto l'occasione. Il suo omicidio del '68 aveva fatto il giro del mondo, non si sarebbe fermato a uccidere; il presentimento che potesse tornare in quel mese di settembre del '74 era più forte di quanto pensasse. Come lui, non avrebbe esitato a far uscire fiumi di liquido scarlatto solo per proteggerla. Le dita si strinsero sui palmi fino a sentire le unghie penetrare la pelle. Era la sua unica ragione di vita e doveva preservarla come un fiore raro da tenere dentro una teca di vetro.

«Una cosa posso constatarla: sei troppo ingenuo. Immagino che Marie non si sia fermata solo a raccontarti una storiella medievale o qualsiasi cosa essa sia. Ti stai facendo abbindolare, non presti attenzione come durante la partita a scacchi. Anche se avesse un fondo di verità, stai pur certo che, se Lucifero fosse qui, in questo momento, tu staresti marcendo tra le fiamme dell'inferno». Sputò velenosa, senza far trapelare un briciolo di emozione. Non si scomponeva mai e sentire affermazioni del genere, senza neanche vedere una lacrima, erano uno dei momenti più angoscianti della vita di Christian. Assisteva alla creazione di una scultura marmorea in cui potersi estasiare e morire al solo contatto. Lo guardava come se avesse già scrutato ogni centimetro della sua anima. Non riusciva a controbattere perché lei già sapeva cosa gli stesse frullando per la testa. Non le sfuggiva nulla e sentiva perdere il controllo delle proprie capacità fino a smarrirsi nei meandri più nascosti della materia grigia.

«Se tu avessi visto cosa può fare, non mi risponderesti in questo modo. Te l'ho anche raccontato cosa è successo all'interno delle mura, sotto al vecchio cimitero dei monaci. C'erano uomini e donne ammassati uno sull'altro, gemiti e una gigantografia di Lucifero, diamine!» provò a convincerla un'ultima volta, ma la sua espressione impassibile non dava segni di cedimento. Era troppo attaccata alla realtà per ritenere veritieri ragionamenti tanto oscuri, macabri, arrivati dall'inferno come fiumi scarlatti durante una piena.

«Non ho la certezza. C'è qualcosa che non mi convince, credo sia solo un modo per depistarmi i ricordi». Scosse il capo, mentre si metteva le scarpe lasciate vicino al divano. Buttò la cinghia del padre nel cestino e con un panno bagnato tolse macchie vermiglie sul pavimento. Cancellò in pochi movimenti fruscii spasmodici e violente frustate, voleva disfarsi di memorie troppo dolorose.

«Lascia perdere. Meglio se non ne parliamo più, per ora» disse infine affranto, abbassando la testa per fare attenzione ai gradini. Era abbattuto, ma al tempo stesso le avrebbe fatto cambiare idea. Se sua madre credeva in un Dio superiore, non poteva escludere del tutto gli atti impuri del male. Ne era affascinato, sentiva i brividi pervadergli l'epidermide; una strana eccitazione si fece strada nel suo corpo non appena immaginò la sua Eva avvinghiata su di lui per l'eternità. L'avrebbe tenuta stretta, nessuno poteva portargliela via.

Uscirono di casa, i primi raggi del sole iniziarono a colorare di un tenue bagliore il blu intenso della notte. Con molta lentezza, il cielo stava riprendendo le sfumature del giorno e le nuvole si stavano apprestando a danzare insieme a riverberi infuocati. Pennellate rossastre si colorarono su una tela nera fatta di stelle. Masse gassose diventavano sempre più sporadiche da vedere e il declino della notte portava via con sé anche il fresco pungente, per dare spazio al torpore tiepido di una carezza della natura. Arrossava le guance dei giovani di tinte pastelli simili alle pesche e alle mele rosa.

Non appena arrivarono vicino al garage, Matilde notò la serranda in ferro aperta di qualche centimetro. Ricordava sempre di chiuderla per non far entrare animali indiscreti come ratti o volpi troppo curiose. Forse suo padre si era dimenticato di abbassarla del tutto, ma non aveva visto il furgone e nemmeno percepito la sua presenza.

Christian la guardò perplesso osservando ogni suo movimento, gli occhi saettavano da una parte all'altra per capire cosa stesse accadendo. «Mat, cosa succede?» sussurrò, mentre la sua voce si perdeva tra le folate di vento.

«C'è qualcosa che non va, mio padre non lascerebbe mai a metà la saracinesca e soprattutto non metterebbe mai la macchina nel garage se c'è anche il trattore. Non ci entrano entrambe. Quindi vuol dire che non è ancora tornato.»
«Allora, perché hai detto di aver sentito tuo padre rientrare?»
«Smettila di parlare, fai troppe domande» proferì innervosita dalla sua inutile ansia. «Vado a controllare»

«Ti accompagno potrebbe esser...» non lo fece finire di parlare, Matilde si parò davanti a lui e con il viso affilato di disaccordo a pochi centimetri dal suo gli ringhiò di starle lontano.

«Prova a seguirmi e te ne pentirai per il resto della tua vita. Non ho bisogno di un'ombra, ce l'ho già. Sarò io a dirti quando mi sarai utile o no». Al finire della frase le labbra dall'arco di cupido pronunciato tremarono di poco, un accenno di cedimento si era fatto strada tra le pieghe della carne. Qualcosa dentro di lei stava frullando vorticosa, fino a farle venire il mal di testa. Aveva il presentimento di non essere sola, le ferite alla schiena iniziarono di nuovo a bruciare, come se l'adrenalina stesse incendiando pelle morta e muscoli esposti alla luce.

Presa da un sadico istinto, si diresse verso la fessura e con passi silenziosi si addentrò all'interno di quattro mura spesse, piene di cianfrusaglie e ragnatele negli angoli più improbabili. L'oscurità regnava fino a renderle le pupille quasi cieche, la poca illuminazione filtrava dalla fenditura e qualche contorno di oggetti riusciva a riconoscerli. Camminò lenta verso l'interruttore della luce, un meccanismo molto semplice di fili e corrente alimentò una flebile lampadina attaccata al muro adiacente. Si osservò intorno finché due sclere piene di pianto e terrore non si impressero nella sua mente, fino a farla soffocare.

Dietro le ruote posteriori dell'autoveicolo, rannicchiato nell'angolo più lontano, si nascondeva un'anima rotta, spezzata dall'esistenza. Pieni di spavento, si fermarono per interminabili minuti a guardarsi sbigottiti. Inconsapevoli del pericolo a cui andavano incontro se avessero avuto il coraggio di avvicinarsi uno all'altro: reazioni chimiche di esplosioni pirotecniche.
Non si muovevano di un millimetro, pietrificati come se Medusa li avesse resi immortali, freddi e senza più un'anima. Le loro ferite si incendiarono, sfrigolavano solo a sentire l'odore del sangue mischiato alle lacrime.

Samaele tremò nel vedere la figura minuta davanti a sé. Era entrato senza permesso, aveva trovato uno spiraglio dove potersi tenere al caldo dalle fredde temperature della notte. Aveva cercato un luogo nascosto in cui potersi perdere, diventare invisibile per qualche istante e non pensare alla sua vita. Se ne stava andando in silenzio, stanco delle ingiustizie e della cattiveria del mondo. I suoi ricordi felici si erano cancellati come un soffio di vento spazzava via le foglie dagli alberi: natura morta dipinta in stato di decomposizione.

Provò a parlare, ad aprire le labbra screpolate, ma un movimento veloce di Matilde lo bloccò di colpo. Si mise un dito davanti la bocca e spalancò gli occhi, doveva fare silenzio o Christian si sarebbe insospettito. Se lo avesse scoperto, non avrebbe contenuto l'ira funesta di un giovane dai pensieri troppo violenti. Dopo aver ascoltato racconti deliranti, aveva temuto per la sua vita.
Voleva proteggerlo anche quando gli ematomi disegnati sulla spina dorsale erano l'effetto delle sue carezze, del tenersi vicini troppo a lungo. Lo avrebbe difeso anche a costo di perdere la vita, non riusciva a farne a meno.

«Matilde, tutto bene lì dentro? Hai trovato qualcosa?» chiese all'improvviso una voce profonda, ovattata dai rumori esterni della natura in procinto di risvegliarsi. Le rondini non smettevano di garrire, felici di poter volare ancora tra le nuvole di un nuovo giorno.
Doveva trovare una scusa, senza doverlo far entrare all'interno.

Notò la sua maglietta piena di macchie di liquido carminio, avevano forme e dimensioni diverse. Vederlo su fili di tessuto le faceva un certo effetto, ricordandole di quando aveva posto fine a una delle galline nel pollaio. Le mani le tremavano come germogli d'erba per la paura di poterlo rompere, farlo sparire con un solo tocco di dita.
Si avvicinò di poco e si accucciò vicino alla ruota del trattore. Samaele teneva celato il suo corpo sotto quintali di ferro e fili d'accensione.
«Dammi la tua camicia, fallo e basta. Tornerò.» bisbigliò, allungando un braccio verso la sua direzione.

Il giovane fece come le aveva detto e rimase con la pelle piena di brividi e il collo ancora sanguinante a causa della ferita profonda tra i capillari rotti e nebulose di gas violacei. Le porse l'indumento con ancora qualche turbamento nel cuore.

La vide accartocciare la stoffa sul suo ventre, come se in mezzo tutto quel cruore scarlatto si celasse un animale indifeso, morto per mano di un predatore affamato. Lo guardò per qualche istante, si soffermò sulle sue iridi fino a scendere e puntare l'ombelico. Il suo corpo urlava pietà, cicatrici informi e cerchi di lune rosse si districavano in una delicata epidermide fatta di efelidi e nei simili a costellazioni, stelle luminose in un cielo notturno.

Matilde se ne ritornò sui suoi passi tenendo tra le braccia la maglietta di Samaele, i suoi modi di pensare erano alquanto bizzarri, ma per sopravvivere doveva avere la mossa giusta per ingannare l'avversario.
«Falso allarme, è solo una carcassa di un animale. Credo che qualche volpe si sia divertita a sbranarla dentro il mio garage» parlò, mentre tornava indietro verso casa. Non lo degnò di uno sguardo, non poteva restare ferma troppo a lungo o si sarebbe scoperto l'inganno.

«Aspetta, ma avevi detto di aver sentito il garage aprirsi» la seguì con lo sguardo, finché non vide la sua schiena irrigidirsi.
Matilde si fermò in mezzo al giardino, soffermandosi per qualche istante a osservare la bellezza del tronco del noce. I suoi alti rami si districavano in mezzo a foglie ancora verdi e frutti ancora poco maturi.

«Se tu lo avessi notato, ci sono delle gocce di sangue vicino all'entrata del garage. Avresti dovuto capire da solo la dinamica. Anche i migliori possono sbagliare.» rispose infine, girando il volto verso Christian e accennando a un leggero sorriso di cortesia. «Mio padre ancora non è tornato, spero tanto che non lo faccia» sussurrò, mentre il vento animava ciocche di capelli corvini.

«Va bene, ti credo, ma stai attenta, se la volpe ha ancora fame potrebbe tornare». Toni gentili si propagarono per tutto il giardino, non era convinto della spiegazione di Matilde, ma la sua fiducia verso di lei era talmente radicata nel profondo da pendere dalle sue labbra.
«Saprò come prendermi cura di lei» disse, per poi salutarlo con un cenno del capo. Il vestito grigio le carezzava le gambe toniche, morbide e con i muscoli sempre intensione, come se fosse pronta a scappare in qualsiasi momento.

Solo lei sapeva quanto quella frase fosse importante, tanto criptica quanto piena di leggiadria. Amava gli animali e sarebbe apparsa inoffensiva agli occhi del ragazzo, con le guance arrossate dal calore intenso delle emozioni contrastanti piene d'affetto.

Lo vide andarsene, prendere la strada di casa. Come un'ombra, sparì tra la vegetazione e la ghiaia ancora umida. In quell'istante, il suo cuore fece un sussulto. Samaele la stava chiamando, sentiva la sua voce tra le pieghe della materia grigia, come se anche l'aria la stesse avvertendo della sua presenza ancora nascosta all'interno di quattro e fredde mura.

Strinse la camicia tra le mani e se la portò al viso. Socchiuse gli occhi e si inebriò le narici del suo profumo. Il sapore metallico del sangue, mischiato alla dolcezza della pelle e il sale delle lacrime, inondò gli organi di odori mai avvertiti prima. Le vene e le arterie vibravano impazienti, volevano essere riempite di quel calore insolito. Era un allucinogeno per i suoi demoni, li rendeva docili e le ammorbidiva i lineamenti del viso.

Anche quando il mondo li voleva divisi, si sarebbero trovati anche in mezzo alle fiamme dell'inferno. Due anime dimenticate che si appartenevano, sigillate tra pagine ingiallite e inchiostro sbiadito. Avrebbero trovato un modo per cercarsi oltre i confini dell'universo, perché il dolore li accomunava entrambi fin da bambini. Lo percepivano dentro le arterie e nei loro muscoli cardiaci con più intensità di qualsiasi altro essere vivente.

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