Anime dimenticate.

By SofiaCraia98

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[Completa] Matilde è criptica, solitaria. Esce poco e odia la confusione. Se ne sta spesso a guardare dalla f... More

Aesthetic.
Prologo.
Capitolo 1.
Capitolo 2.
Capitolo 3.
Capitolo 4.
Capitolo 5.
Capitolo 6.
Capitolo 7.
Capitolo 8.
Capitolo 9.
Capitolo 10.
Capitolo 11.
Capitolo 12.
Capitolo 13.
Capitolo 14.
Capitolo 15.
Capitolo 17.
Capitolo 18.
Capitolo 19.
Capitolo 20.
Seconda Parte.
Capitolo 21.
Capitolo 22.
Capitolo 23.
Capitolo 24.
Capitolo 25.
Capitolo 26.
Capitolo 27.
Capitolo 28.
Epilogo.
Ringraziamenti.

Capitolo 16.

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By SofiaCraia98

«Per alcuni di noi la felicità è il più terrificante dei mostri. Ti rende fragile come un castello di carta, e la consapevolezza che è sufficiente la più leggera delle brezze per farti crollare in un milione di pezzi ti spinge a nasconderti nelle tenebre, a rimanerci, dove nulla può scalfirti - perché non si può uccidere chi ha smesso di vivere, chi respira e basta.»
Succubus - 97ShadesOfSam


Rantoli strozzati, respiri smorzati da un dolore lancinante alla schiena e alle costole. Nell'oscurità della notte, dentro una minuscola camera anonima, illuminata da un flebile bagliore di una luce artificiale, Samaele cercava di curarsi le ferite e gli ematomi procurati dal bastone di suo padre. I ricordi di quella mattina gli inondarono la materia grigia di immagini raccapriccianti. Doveva fuggire il prima possibile, era l'unica via di salvezza.
Matteo si era divertito a lasciargli i segni di un castigo violento, doveva imparare la lezione di non avvicinarsi troppo a chi aveva causato solo dolore.

Dopo essere scappato dalla follia di Alberto, si era rintanato nel garage dove il fratello maggiore e il padre tenevano fieno, attrezzi da lavoro, ceppi di legno per tenere al caldo animali o riscaldare il camino durante le sere invernali. Aveva trovato un posto sicuro dove riposarsi, restare isolato dal resto del mondo. Poteva versare tutte le lacrime, fino ad addormentarsi, ma il volto sofferente di Matilde non riusciva ad andarsene dalla sua testa.

Lei era dentro i suoi organi, nelle pieghe del cervello, nel sangue scarlatto e avvelenato dalle ingiustizie subite. Aveva trovato un barlume di bellezza in tutta la sua sofferenza. Doveva reagire in qualche modo, ma era stato abituato a nascondersi, correre il più veloce possibile lontano dai propri demoni. Succhiavano cruore carminio dalle vene, lo prosciugavano fino a prendergli l'anima. I polmoni erano mangiatori famelici d'aria, non gli davano un minuto di tregua. La paura di essere scoperto era più forte di ciò che sarebbe potuto succedere da quel momento in avanti.

«Samaele!» un urlo grottesco pieno d'ira e odio si propagò nell'aria. Sperava di diventare invisibile, di non essere scoperto da mani maligne. Suo padre era uscito a cercarlo, aveva sentito gli spari del fucile di Alberto. Era tornato con il suo furgone dall'allevamento intensivo e non appena scese, due colpi di doppietta tremarono nel vento. Alzando la testa verso il cielo pieno di nuvole e pioggia, notò uno stormo di corvi spaventati precipitarsi verso un'illusoria salvezza. A quell'ora, nessuno si sarebbe messo a cacciare selvaggina, sempre se non si trattasse di Alberto. Pur di non venire a lavorare, inventava ogni scusa plausibile per non prestare attenzione alle sue mansioni. Si ritrovava spesso a ripulire la cella frigorifera dal sangue coagulato a terra o sulle piastrelle blu cobalto, rendendo la stanza ancora più fredda e desolata. Odiava quando lo vedeva ancora mezzo ubriaco, dopo aver perso il suo stipendio a carte e birra da poche lire. Abbandonava nella disperazione i ricordi della sua vita ormai in frantumi in seguito alla morte di sua moglie. Dopotutto, era anche colpa sua.

Qualche minuto più tardi, notò da lontano una coltre di ricci rossi correre verso il piccolo deposito dietro la loro casa dalle pareti bianche e fatiscenti.
Non appena collegò suo figlio con gli spari, un presentimento nelle vene iniziò a scorrere imperterrito come l'alcool del vino rimasto per troppo tempo a fermentare in una notte scura, piena di incubi e immagini di un passato impossibili da dimenticare. Alberto e Matteo erano collegati insieme da un evento troppo crudele, ma la colpa era solo dei suoi figli. Se solo non li avesse lasciati andare insieme a sua moglie, avrebbe ancora qualcuno da poter abbracciare nelle sere di luna piena, fare l'amore e addormentarsi all'alba dopo averla vista chiudere le palpebre sul petto coperto da alcuni vecchi tatuaggi, incisi durante il periodo di guerra. Avrebbe voluto salvarla, ma il destino la pensava in modo diverso.

Si precipitò verso il retro della sua dimora e urlò a Samaele di fermarsi, di obbedire agli ordini, ma della figura minuta non era rimasta nulla, se non una mera ombra nascosta dietro qualche asse di legno. Con passi pesanti e veloci andò verso il nascondiglio in cui si trovavano le quattro ossa rossicce, prendendolo con veemenza per il colletto in modo da farlo alzare alla sua stessa altezza.

«Cosa diavolo sta succedendo? Cos'erano quei colpi?» sibilò con lo sguardo dritto nei suoi occhi. Ciocche lisce di capelli scuri si erano divertiti a coprire la fronte solcata da rughe e la montatura fina di tondi occhiali. La bocca contratta in una smorfia soffocata, le unghie mangiucchiate si imprimevano nella carne morbida del giovane tra i fili della camicia.
«Non le ho fatto nulla di male, volevo solo incontrarla» rispose in lacrime, le pupille saettavano da una parte all'altra spaventate dalla rabbia crescente.
Più lo osservava e più voleva prendere la sua carne e venderla con i maiali.

«Chi hai visto?» domandò, urlando e scandendo ogni parola, mentre le sue preoccupazioni diventavano reali. Il peccato non abbandonava mai i suoi adepti, tornava a bussare alla porta insistente e con un sorriso sadico stampato sulle labbra.

Non ci furono altre parole, perché il motore di una macchina smorzò la tensione tra padre e figlio. Matteo staccò la mano da Samaele, pulendosi il sudore sul tessuto dei jeans. Emerse dalle quattro mura claustrofobiche e scrutò il fuoristrada di Alberto fermarsi nel vialetto sterrato del giardino. Uscì fuori furioso, gli occhi serrati e l'ira a colorargli il viso di oscurità. La sua imponenza era inquietante, ma Matteo sapeva affrontarlo meglio di chiunque altro anche se lo superava di qualche centimetro.

«Dove si trova quel bastardo?» sbraitò, con la pancia gonfia di collera e le sclere arrossate dall'alcool e da un pianto soffocato. La barba incolta gli ingrossava il collo pieno di pieghe e capillari rotti, le mani serrate a pugno erano irrigidite dal fucile che ancora teneva tra le sudice dita. Dei passi fecero tremare fili d'erba pieni di gocce di rugiada, la pioggia si era affievolita e aveva lasciato dietro di sé una coltre scura di nuvole: corpi bagnati, umidi, e una marea di demoni rimasti incastrati nei cervelli di uomini in procinto di combattere una battaglia già persa in partenza.

Matteo, senza pensarci due volte, lo fermò di colpo prendendolo per un braccio. Gli tolse il fucile e lo scaraventò a terra facendo saltare alcuni pezzi in metallo. Lo prese per il bavero della camicia a scacchi con tutta la forza usata per tenere fermi maiali, nell'attimo in cui venivano sgozzati da coltelli affilati o uccisi con un buco nel cranio. L'odore di sudore e rancido di birra rimasta ad asciugarsi sulla stoffa riempiva le narici dell'uomo, fino a fargli storcere le labbra in una smorfia di disgusto.

«Prima di tutto questa è la mia proprietà, devi chiedere il permesso per entrare. Come osi venire qui e minacciare mio figlio?» domandò, sibilando con voce grottesca e rude. Le sopracciglia folte erano aggrottate a formare un angolo acuto sulla sua fronte segnata dal tempo.

«Con che coraggio lo chiami ancora figlio? Lo sai benissimo che deve stare lontano da Matilde e invece lo ritrovo a un palmo dal naso da lei. Non ti è bastato portare via mia moglie? Siamo entrambi consapevoli che non è stato solo un incidente» sputò tutto d'un fiato Alberto, prima di spintonare spalle avversarie di un uomo diventato la sua tortura.
«Prova solo a minacciarmi e sei finito. Lavori per me, ricordatelo. Vuoi rimanere senza una lira? Vedere la propria figlia in mezzo alla strada non è una delle migliori scelte, quindi stai attento a come parli. Chi resta attaccato al passato, alla fine si rovina l'anima». Sogghignò divertito: vedere occhi ambrati spaventati, sbigottiti da parole velenose era uno dei suoi passatempi preferiti.

«Giuro che prima o poi t'uccido» ringhiò, mentre piccole gocce di pioggia colavano sulla sua lunga barba.
«Sei solo un inutile essere, ubriaco dalla mattina alla sera» ribatté Matteo, a pochi centimetri di distanza dal volto di Alberto. Due cani rabbiosi che si contendevano l'ultimo pezzo di carne da poter divorare prima di un lungo e rigido inverno.

All'improvviso, preso da un attacco di isteria, mani massicce e dalle unghie lerce si impressero con violenza nel collo dell'uomo. La stretta soffocante comprimeva la circolazione, le falangi erano abituate a portare pesi e a scuoiare animali. Anche sotto a tutto quello strato di grasso, i muscoli erano ben visibili sui suoi bicipiti.

«Papà». Un sussurro fece tremare i cuori dei due uomini in conflitto, un brivido di freddo lungo le loro schiene. Tali parole li destabilizzò, le pupille si spalancarono nel sentire una voce soave, ma al tempo stesso spaventata.

Matteo si girò verso suo figlio e rimase a guardarlo sbigottito. Erano anni che non lo chiamava in quel modo, glielo aveva proibito durante un suo attacco d'ira in una notte dal sapore di ferro e sangue. Un vuoto incolmabile senza più una possibilità di ricucire ferite infette: carne in cancrena, morente, come il corpo di sua moglie a marcire sotto metri di terra e fango.

Alberto allentò la presa sul collo ruvido del padre di Samaele, ricoperto con qualche vecchia cicatrice. Alcune lunghe ciocche brizzolate si staccarono con dolcezza navigando nell'aria e sulle spalle, mentre mani tozze si apprestavano a staccarsi dalla carne ancora non del tutto abbandonata dal tempo. La vista di pelle candida, mischiata al fuoco di capelli simili a corone solari, era una tra le più spettacolari che l'essere umano potesse assistere. L'aria smuoveva coltre di magma incandescente, occhi allocroici colmi di lacrime in procinto di uscire si perdevano a osservare due bestie feroci. La colpa era solo sua e da lì a poco avrebbe pagato le conseguenze del suo gesto avventato.
«Tienilo lontano dalla mia famiglia, non chiedo altro. Spero tu sia capace di fare almeno questo» sibilò Alberto a pochi centimetri dal viso di Matteo, alitando sospiri pesanti e gocce di saliva acida.

Afferrò il fucile da terra e dopo aver lanciato occhiate di puro odio a entrambi, se ne ritornò sui suoi passi. Camminata lenta, goffa e zoppicante a causa di legamenti logori delle ginocchia. La sua stazza lo rendeva ingombrante, ma al tempo stesso rappresentava la sua fragilità riversatasi nell'alcool, cibo e scommesse a carte: una vita andata in frantumi ancora prima di poter raggiungere la desiderata morte. Non voleva saperne di quel ragazzo, le voci giravano veloci in paese e si mischiavano con tradizioni e leggende. Sua figlia doveva stare alla larga da un mostro dall'aspetto angelico, un ribelle che aveva deciso di disobbedire al proprio padre. Anche a costo di arrivare alle mani, avrebbe impedito di rovinargli l'unica anima rimasta ancora in vita. Era la ragione per cui ancora non aveva un bossolo conficcato nel cervello e una canna di fucile in gola.

Non appena Alberto scomparì oltre il vialetto, insieme al rombo metallico del motore della sua auto, Matteo si avventò con impeto verso Samaele. Il giovane cercò in tutti i modi di sfuggirgli, ma le mani abituate a catturare maiali per non farli scappare dal macello afferrarono le spalle magre e doloranti. Le unghie si conficcarono nella carne delicata e altre dita si bruciarono all'interno di ciocche vermiglie. Le strinse fin quasi a strapparle e il dolore straziante si poteva osservare nel volto gemente del povero Malpelo.

«Tua madre si è suicidata a causa tua, la moglie di Alberto è morta per un tuo capriccio da bambino viziato e tu continui ancora a portare discordia.» sussurrò nell'orecchio del figlio con disprezzo e disgusto. «Hai la minima idea di cosa provochi alle persone? Forse non ti è ancora chiaro, ma stai tranquillo, ora ti rinfresco la memoria».
Lo strattonò con foga per il colletto della camicia, trascinandolo nel retro di mura fredde, sporche di polvere e ragnatele. Una volta erano accoglienti, un punto in cui poter riscaldare le sue stanche membra, ma in quel momento diventò il luogo preferito di demoni pieni di sadica perfidia.

Dolci carezze si tramutarono in schiaffi aggressivi, mani ruvide si avventarono sul volto ferito. Rossori lungo le guance si intensificarono a ogni scossa, urla strazianti imploravano tregua a un padre maligno. Matteo, però, non importava delle sue preghiere, più piangeva più la sua rabbia si intensificava ogni secondo. Prese un bastone sottile, usato per dare supporto alle piante rampicanti di pomodori, ma invece di aiutare foglie fragili e gambi pieni di frutti maturi, venne distrutto tra le costole e le vertebre della schiena di Samaele. Frustate, fischi abominevoli si propagarono per tutto il cortile, mentre nessuno era lì a salvare un'anima senza speranze. Smise di piangere, di gridare, mentre subiva tutte le irruenze di una rabbia repressa per anni. I fili della stoffa che ricoprivano la pelle del giovane si strapparono, colorandosi di un rosso cremisi al centro. Pennellate di un pittore pieno di livore verso la propria opera.

Andò avanti per alcuni interminabili minuti e si fermò fin quando il respiro affannato dalle percosse si fece troppo insistente. Buttò dietro di sé l'arma e si inginocchiò per poter arrivare alla stessa altezza del figlio. Era accartocciato a formare una curva perfetta con la sua scheletrica schiena, mentre mani tremanti cercavano di coprirsi il volto e la nuca.

«È questo il dolore che provo quando guardo il tuo viso» gli sussurrò all'orecchio. «Maledetto il giorno in cui ti mise al mondo. Non avrei dovuto insistere così tanto per avere un secondo figlio e ora ne pago le conseguenze. Dio punisce sempre chi è troppo avido e tu sei il mio castigo». Parole colme di accanimento vennero sputate come veleno e sciolsero acido lungo tutti gli organi del povero malcapitato. Il cuore di Samaele era stanco di palpitare e tutto fluì in un soffocante silenzio.
«Avresti dovuto ammazzarmi prima,» riuscì a dire tra un rantolo e l'altro, la testa china, col sangue lungo le gote: le lacrime di un angelo ribelle.

Matteo si passò le dita tra i capelli per allontanarli dalla fronte; era stanco, esausto e pieno di rancore. «Non mi sporco le mani di sangue se non ci guadagno nulla, almeno i maiali sono più utili di te». Lo scrutò da sotto gli occhiali tondi, lo sguardo carico d'odio si impresse un'ultima volta nelle iridi luminose di Samaele per andarsene di nuovo, lasciandolo a terra con i suoi pensieri e il corpo tumefatto. Era tornato a casa per prendere i pomodori raccolti ed essere venduti in paese da signore trepidanti di poter di nuovo mettersi ai fornelli e preparare sughi e ricette. Non appena prese la cesta sul tavolo della cucina per portarlo al furgone, da lontano sentì un rumore di motore avvicinarsi sempre di più. La musica assordante e le urla di schiamazzi di ragazzi si fermarono proprio davanti al cancello. Il motore dell'alfetta color sabbia di uno degli amici di Michele rimbombava fin quasi a spaccare i timpani. Un ragazzo riccioluto scese dal posto di guida e gridò biascicando parole incomprensibili, ubriaco fradicio fino al midollo.

«Michele, alza il culo dal sedile, prima che lasci fluidi corporei nella mia auto». Rise di gusto, mentre da dentro una giovane donna dai capelli biondi sogghignava giuliva sopra le gambe di Michele.
«Che guastafeste, ci stavamo divertendo così tanto» disse, senza scostare il viso dalla ragazza, mentre si scolava l'ultimo sorso di birra. Qualche goccia di schiuma colò lungo uno dei lati delle labbra. Con prontezza, la lingua morbida e sottile della figura davanti a sé leccò con avidità la linea del nettare, assaporando l'agrodolce della fermentazione.

«Togliti» sussurrò freddo, con lo sguardo di chi stava per spintonarla giù dalla macchina.

La ragazza sussultò per le parole rudi e gutturali, si sentì ferita nel cuore, ma dopotutto Michele non amava affezionarsi a qualcuno, tranne ai coltelli e a scuoiare maiali. L'unico momento in cui poteva sentirsi potente, carnefice di animali da macello. Con l'essere umano non poteva fare la stessa cosa, nessuno avrebbe mai accettato le sue stranezze. Il perverso sadismo per la carne ancora calda e il sangue che sgorgava sotto le sue dita come fiumi in piena, prima di essere prosciugato dalla morte, lo eccitavano fino a infuocargli il bassoventre.

Le gambe toniche e sode nascoste da una leggera stoffa di un vestito azzurrino si scostarono dalle cosce muscolose del giovane, per mettersi seduta nel posto accanto con il viso cupo e le braccia incrociate al petto come per coprirsi da un vergognoso pudore.
«Brava bimba, vedo che obbedisci subito» aggiunse sarcastico, con un ghigno divertito da un agnellino smarrito.
«Vai al diavolo, Michè!» disse d'un tratto la biondina con gli occhi pieni di lacrime, ma dentro di lei la rabbia e la vendetta cominciarono a salire, a far bollire il sangue nelle vene. «Oh, giusto... basta tuo fratello come inferno personale» commentò velenosa.

Non appena Michele scese dalla macchina e sentì la sentenza, la prese per il bavero del vestito e la strattonò verso di sé con le sclere ingrossate dai capillari infuocati. Si riusciva quasi a intravedere le vene del collo palpitare sempre più veloci. «Solo perché non riesci a essere scopata da me, diventi così acida? Allora è vero ciò che si dice in paese. Dico bene, Voliera? Ti chiamano così perché ti piace prenderli in bocca fin dentro l'esofago» sussurrò maligno a pochi centimetri dalle labbra della malcapitata.

«Non è vero! Lasciami, bastardo!» urlò, scalpitò come un cavallo imbizzarrito, mentre l'amico rimasto immobile per comprendere la situazione, a causa della mente annebbiata dall'alcool, si diresse in suo soccorso.

«Lascia stare Valeria» lo strattonò via, cercando di non perdere l'equilibrio. «Chiudi quella cazzo di fogna che ti ritrovi per bocca» lo insultò, senza ritegno. Lo conosceva bene e quando nel suo corpo c'era troppa birra in circolo non riusciva ad avere il controllo di sé. La rabbia repressa veniva espulsa come un dardo dritto al cuore. Nulla poteva fermarlo, portava distruzione e odio come le fiamme in mezzo ai boschi nella stagione di siccità: un incendio impossibile da debellare.

«Prova ancora a nominare Samaele e la prossima volta ti faccio ingoiare il ferro rovente per la marchiatura a fuoco, poi vediamo se ti piace ancora parlare». Digrignò i denti, mentre l'altro ragazzo lo teneva fermo prima che potesse avventarsi di nuovo su di lei. La giovane richiuse lo sportello per trovare rifugio all'interno dell'auto. Gocce salate le scolarono lungo le guance, impertinenti e piene di dolore per essere stata maltrattata nel modo più meschino di sempre. Si sentiva sporca e al tempo stesso usata come valvola di sfogo, voleva andarsene il più lontano possibile e non pensare a niente.
«Sei davvero un coglione, Michè. Fatti un esame di coscienza ogni tanto» alzò la voce a poca distanza dal volto accigliato del mostro.

Non rispose alla provocazione, rimase a osservarlo per alcuni istanti finché l'urlo di suo padre arrivò alle orecchie dei due cani rabbiosi, facendoli distrarre dai loro pensieri malsani. Arrivò a grandi falcate, aveva assistito a una scena pietosa, uno scontro di bambini infantili, uomini senza dignità. Lo prese per un lembo della maglia e lo strattonò verso casa. Michele non fiatò, non lo degnò neanche di uno sguardo e indietreggiò come un predatore pronto ad attaccare nascosto nell'ombra. Sentir parlare di Samaele gli riempiva le vene di puro livore, non lo conteneva e diventava irascibile: un sadismo impossibile da contenere e doveva trovare sfogo verso qualcun altro per divertire, nutrire con sangue e catrame il suo demone interiore.

L'aria si era fatta pesante, colma di aliti putridi e nauseati dall'alcool. Matteo guardò la ragazza all'interno dell'alfetta per accertarsi che stesse bene, per poi portare l'attenzione al mingherlino con una cicatrice profonda vicino all'occhio sinistro.

«Andatevene, lo spettacolo è finito e tu, Stefano, stai molto attento a cosa dici. Io sono suo padre, non un ventenne con le crisi ormonali e che puzza di birra dalla mattina alla sera. Ti sembro nato ieri? Lo so che vai a lavorare alla farmacia di tuo padre ancora sbronzo della nottata precedente» lo rimproverò privo di ogni freno alla lingua. Dopotutto, le mele marce non cadevano mai lontane dall'albero. «Se non vuoi perdere il posto, guardati bene le spalle» sibilò con voce roca a causa del tabacco, rimasto a bruciare le corde vocali ogni volta che il fumo delle sigarette attraversava il suo apparato respiratorio.

«M-mi dispiace, Signore, non succederà di nuovo» rispose balbettando, spaventato da tali parole viscide e al tempo stesso fin troppo vere. Senza dire altro, rientrò con la coda tra le gambe all'interno della sua auto e sfrecciarono via, lontani dalla bocca del diavolo.

Matteo si girò verso suo figlio per cercare uno spiraglio di sanità mentale tra ammasso di muscoli, ossa pesanti e un cervello avvelenato da un passato crudele. Era diventato un'altra persona dalla morte di sua madre, del dolce e affettuoso Michele non ne era rimasta neanche l'ombra, divorato da cani malati di rabbia, affamati a tal punto da voler uccidere i propri simili. Per lui, la felicità non aveva un significato, era scomparsa insieme al passato.
Era l'angelo della morte, colui che non avrebbe avuto pietà per nessuno, nemmeno se avesse avuto davanti il sangue del suo sangue.

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