UNCONDITIONALLY

Od wendygoesaway

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L'amore salva, oppure uccide? ⚠️⚠️⚠️ Trigger warning ⚠️⚠️⚠️ Ci sarebbero un'infinità di motivi per cui inser... Více

CAPITOLO UNO - silence
CAPITOLO DUE - rebirth
CAPITOLO TRE - tko
CAPITOLO QUATTRO - dawn
CAPITOLO CINQUE - wake up
CAPITOLO SEI - blind
CAPITOLO SETTE - hurricane
CAPITOLO OTTO - wonder
CAPITOLO NOVE - ruthless heart
CAPITOLO DIECI - rondini al guinzaglio
CAPITOLO UNDICI - monster
CAPITOLO DODICI - fra mille baci di addio
CAPITOLO TREDICI - only for the brave
CAPITOLO QUATTORDICI.1 - stand tall
CAPITOLO QUATTORDICI.2 - stand tall
CAPITOLO QUINDICI - point break
CAPITOLO SEDICI - ghost riders
CAPITOLO DICIASSETTE - fiori di Chernobyl
CAPITOLO DICIOTTO - treading water
CAPITOLO DICIANNOVE - farfalla d'acciaio
CAPITOLO VENTI - city of fallen angels
CAPITOLO VENTUNO - paper moon
CAPITOLO VENTIDUE - l'arte di essere fragili
CAPITOLO VENTITRE - if the world was ending
CAPITOLO VENTIQUATTRO - ENDGAME.
CAPITOLO VENTICINQUE - a forma di origami
CAPITOLO VENTISEI - angels and demons
CAPITOLO VENTISETTE - under my skin.
CAPITOLO VENTOTTO - till the last breath
CAPITOLO VENTINOVE (prima parte) - piccola stella senza cielo
CAPITOLO VENTINOVE (seconda parte) - piccola stella senza cielo
CAPITOLO TRENTA - loner
CAPITOLO TRENTUNO - interlude
for you
CAPITOLO TRENTADUE - la di die
CAPITOLO TRENTAQUATTRO - TELL ME ABOUT TOMORROW
CAPITOLO TRENTACINQUE - YA'ABURNEE
CAPITOLO TRENTASEI - NEW MOON
!!!
EPILOGO - BANYAN TREE
GRAZIE

CAPITOLO TRENTATRE - sweet lullaby

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Od wendygoesaway

"Everyone you meet is fighting a battle you know nothing about. Be kind. Always."

Ci tengo a ricordarvi che qualsiasi sia la vostra battaglia, non dovete per forza affrontarla da soli. Se avete bisogno di parlare con qualcuno potete tranquillamente scrivermi in privato, vi ascolto sempre. <3

vi lascio qui sotto dei numeri verdi da contattare nel caso sentiste di non farcela. sappiate che vi rialzerete, c'è sempre una luce che vi guida, sempre.

TELEFONO AMICO: 02 2327 2327
TELEFONO AZZURRO: 1969
NUMERO PREVENZIONE SUICIDIO: 800 334 343
NUMERO PREVENZIONE DISTURBI ALIMENTARI: 800 180 969
NUMERO VIOLENZA DOMESTICA: 1522
SUPPORTO PSICOLOGICO: 800 833 833
SUPPORTO PSICHIATRICO: 800 274 274
TELEFONO ROSA: 06 375 18282
SUPPORTO PER AUTISMO: 800 031 819

-> spazio autrice: eccocii quiii
sono finalmente riuscita ad aggiornare, anche se con troppo ritardo hahah
vi chiedo umilmente perdono.
ci tengo solo a dirvi che sono molto legata alle emozioni che sono racchiuse in questo capitolo e mi riguardano, alcune, direttamente in prima persona. spero possiate sentire tutto a cuore aperto e capire che per me non è stato semplice da scrivere.
se siete arrivati fino a qui vi ringrazio di cuore, manca pochissimo alla fine.
fatemi sapere se vi piace il capitolo,
alla prossima
ila
x

⚠️ TRIGGER WARNING!!! ⚠️
nel capitolo sono presenti scene forti, sia per le emozioni che per ciò che accade.
fate con calma, non tralasciate NULLA o non capire cosa sta succedendo.

Buona lettura 🌹

CAPITOLO TRENTATRE –  sweet lullaby

Hard to stay awake, i'm so exhausted.
Hide the pain, i don't endorse it.
I can't even cry, i guess i'll force it

Mi chiesi cosa succedeva quando la vita decideva di cambiare le carte in tavola. Poi capii che a un certo punto, lungo quel viaggio, arriva un momento in cui si sente che non esiste un luogo in nessun punto della Terra a cui si senta di appartenere. In quel preciso istante desideravo essere in qualunque posto, ma non in quello. Avrei preferito assistere a qualsiasi altro tipo di orrore, ma non a ciò che si prostrava dinanzi ai miei occhi: la morte dell'unica parte della mia famiglia che mi restava. Non mi sarebbe rimasto più niente se lui se ne fosse andato. Mi chiesi cosa ne sarebbe stato di me, senza di lui, senza nessuno, senza avere una persona che sarebbe stata per sempre e incondizionatamente la mia casa, la mia persona. Ryan era sangue del mio sangue, l'unica briciola della mia vera famiglia che mi rimaneva, nonostante ormai considerassi i Woods come la mia famiglia, nonostante tutto ciò che mi legava a loro, lui era tutto ciò che avevo, tutto ciò che mi restava, tutto ciò che mi legava al mio passato. Era come se a Ryan appartenessero le radici del mio albero, da sempre, e senza le radici un albero cade, muore, perciò pensai che senza di lui sarei stato soltanto un fantasma. Mi sentivo come se il mondo si stesse sgretolando sotto di me, come se fosse arrivata l'apocalisse e si fosse aperta una faglia e che mi stesse risucchiando e, in caduta libera, crollavo verso il centro della terra pronto a bruciare in eterno. Non sarei più riuscito ad evitarlo: stavo sgorgando dolore, lo sentivo riempire ogni parte di me e cancellare tutto il resto: non restava più niente di ciò che ero, c'era solo dolore. Ero esausto, non riuscivo nemmeno a piangere da quanto sentivo che il dolore avesse raggiunto l'apice, che più forte di così, non poteva essere.

Avevo scostato mio fratello, facendolo sdraiare sull'erba innevata, dopo essermi reso conto che il colpo di pistola che si era sentito aveva colpito lui alla schiena. Ero inginocchiato al suo fianco, piangendo disperatamente e senza riuscire più a respirare, mentre Victoria gli reggeva la testa e gli accarezzava i capelli pregando e ripetendo sempre le stesse parole in loop. – Non morirai – Diceva ciondolando avanti e indietro con le dita infilate fra i ricci di mio fratello e l'espressione persa nel vuoto. – Non morirai, non morirai, non morirai – Continuava a sussurrare sotto shock.

Presi la sua t shirt fra i pugni, prendendo a scuoterlo nella disperazione del momento, supplicandolo di non lasciarmi. Non riuscivo a respirare, ero completamente in un altro mondo, non esisteva nessun altro al di fuori di mio fratello, del suo viso pallido e ceruleo, del suo quasi inesistente battito, delle mie mani rosso scarlatto e del suo corpo inerme, scosso da me che, invece, non facevo altro che piangere e pregare, come un disco rotto. – Ora sono io a chiederti di non dirmi addio – Esclamai tra le lacrime. – Guardami negli occhi, per favore, lo so che respiri ancora, ti sento – Supplicai prendendo il suo viso tra le mani e singhiozzando. – Non dirmi che questo è un addio, non è possibile, non ti credo. Lo so che non sei mai stato bravo a dire addio, ma così no, non puoi farmi questo. Promettimi che resterai con me – Dissi avvicinandomi con la testa alla sua mentre lui mi guardava dritto negli occhi, con la bocca dischiusa che respirava a fatica, gocce di rugiada lucenti che bagnavano le sue pallidissime guance. Più passavano i minuti, più il suo viso diventava ceruleo, più le occhiaie violacee erano visibili e più si sforzava per tenere gli occhi aperti: aveva chiaramente le palpebre pesanti, si aprivano e chiudevano come se lui stesse lottando con tutte le sue forze per non chiudere definitivamente gli occhi, sembrava lo stesse facendo solo per me, perché io lo stavo pregando. – Giurami che resterai con me e ti prometto che niente e nessuno potrà separarci mai più. Ti do tutta la mia vita, ma resta con me, per favore fratello, per favore – Continuai posando i palmi delle mani sul suo torace e chiudendo gli occhi, con la fronte posata sulla sua.

Ryan la sua testa che ciondolava in continuazione a causa degli incredibili sforzi che faceva per restare sveglio, aveva il respiro molto debole ed era bianco come la ceramica. Mi sorrise e strinse debolmente la mia mano. Le forze lo stavano abbandonando, esattamente come lo stava facendo la sua vita. La sua luce stava per spegnersi sotto i miei occhi. - Non ti tormentare con le domande e non cercare risposte che non puoi avere, non sprecare nemmeno un minuto. Non fare come me - Sussurrò con un filo di voce e tossicchiando con espressione persa, quasi vuota. - Non sprecare la tua vita, piccoletto. Sii migliore di me - Concluse con un respiro debolissimo.

Le sirene della polizia facevano solo da sottofondo a quel momento: sapevo fossero arrivati, sapevo stessero inseguendo i tre criminali per arrestarli e sapevo che Gabriel avesse chiamato i soccorsi perché lo avevo vagamente sentito mentre lo faceva. Era l'ennesimo flashback: in un anno quella situazione si era ripetuta tre volte e, mentre stringevo mio fratello in attesa dell'ambulanza, rivivevo il momento in cui Katherine aveva chiuso gli occhi tra le braccia di Sam, l'urlo spacca cuore di Ryan, i pianti disperati di Victoria e Vanessa e pure Carter, l'unico che cercava di mantenere il sangue freddo e si sforzava per restare a galla nonostante tremasse come una foglia mentre prendeva Victoria e Vanessa e le stringeva fra le braccia, coprendo il loro viso per evitare che l'ultimo ricordo della loro migliore amica fosse la sua espressione vuota e la pozza di sangue a terra. Era stato Sam a chiuderle gli occhi, mentre continuava a piangere e mentre i soccorsi gli ordinavano di lasciarla andare perché non c'era più niente da fare, perché se n'era andata.

Stavo rivivendo lo scorso San Valentino, la pallottola che mi aveva quasi ucciso, il silenzio costante di Victoria. Sapevo esattamente come Ryan si sentiva in quel momento, ci ero passato e sapevo che arrivati ad un certo momento, ogni sforzo era vano e non ce la facevi a tenere gli occhi aperti. Quando smettevi di sentire il dolore, quando si anestetizzava tutto, quando la testa formicolava e la vista si appannava mostrandoti il buio, l'unica cosa che sentivi di fare era chiudere gli occhi. Ricordavo che l'ultima cosa che avevo sentito era la voce di Victoria che ripeteva quanto mi amava, poi il nulla: avevo creduto che la morte mi avesse abbracciato.

- Luka Gatta la dichiaro in arresto per l'omicidio di Shelby Clarke e di Katherine Wilson; per il tentato omicidio di Ryan Walker, per stalking, sequestro di persona, traffico di droga, di minorenni e per favoreggiamento alla prostituzione. Ha il diritto di rimanere in silenzio: qualsiasi cosa dirà potrà essere e sarà usata contro di lei in tribunale. Ha diritto ad un avvocato durante l'interrogatorio, se non può permetterselo gliene sarà affidato uno d'ufficio. – La voce di Gabriel arrivò dritta e forte alle mie orecchie, facendomi alzare da terra e andandogli incontro, lasciando solo per quei miseri secondi il capezzale di mio fratello.

Fu solo in quel momento che notai il signor Wilson, il padre di Katherine, che gli puntava la pistola alla testa mentre Gabriel lo ammanettava. Stava piangendo: cercava di rimanere a sangue freddo il più possibile, ma stava piangendo. – Per mia figlia – Sussurrò con voce tremante e tirando su con il naso. Avrei tanto voluto fare qualcosa, dire qualsiasi cosa che potesse aiutarlo, che potesse consolarlo, ma non c'era niente che potessi dire o fare, niente che avrebbe potuto cancellare anche solo un briciolo del dolore che gli bruciava nel petto. Io non avevo parole, non esistevano, vagavo senza nemmeno sapere cosa stessi facendo, seguivo il mio istinto e quei sentimenti cupi che mi riempivano il cuore.

Mi fu necessario chiudere gli occhi e fermarmi un istante, prendere un respiro profondo e riaprirli, per non crollare a terra e gridare con tutta la voce che avevo, finché non avrei sentito le corde vocali lacerarsi. Mi girava la testa: non avrei saputo dire se fosse perché mi avevano quasi strangolato o per tutte le emozioni che sentivo, a partire dalla rabbia, guardando Vincent che veniva strattonato e pensando che meritasse una pena peggiore della morte, perché l'inferno per lui non sarebbe stato sufficiente, le torture che gli avrebbero inflitto non sarebbero state abbastanza dolorose. Ci aveva portato via ogni cosa, avevamo perso tutto soltanto per colpa sua, per i suoi sporchi giochi, come fossimo delle pedine, le sue bambole. La cosa peggiore era che lui stava ridendo, come se fosse soddisfatto, come se non gli importasse di aver rovinato la nostra vita e di avermi portato via l'unico tassello restante della mia storia, della persona che ero. Sentii una furia omicida scorrermi nelle vene e mi avvicinai a lui a passo felpato, arrivando a trovarmelo faccia a faccia mentre Joseph teneva la pistola puntata alla sua testa e Gabriel stringeva con forza le sue braccia, facendolo scontrare contro il suo petto. Scagliai un pugno dritto sui suoi zigomi, poi un altro e un altro ancora, non riuscivo più a controllarmi. Gabriel spalancò gli occhi e trattenne il respiro colto alla sprovvista, tanto che l'unica cosa che riuscì a fare fu indietreggiare con lui appresso e spingermi via con la mano che non lo stringeva. Perché era consapevole che se avesse mollato la presa su Vincent probabilmente lui sarebbe fuggito. – Smettila Benjamin, così lo uccidi. Lascia perdere, l'ho ammanettato, smettila. È finita – Gridava tentando di farmi riprendere la lucidità.

Si spostava camminando all'indietro, trascinando Vincent per impedirmi di andare oltre, ma io li seguivo e ci volle qualche istante a Joseph per riuscire a prendermi per i polsi e fermarmi. – Benjamin! – Urlò tirandomi i polsi. – Basta! – Continuò. – È finita, lo abbiamo preso, avrà quello che si merita. Calmati e torna da tuo fratello. Le senti le sirene? L'ambulanza è qui vicina, va da Ryan, qui ci pensiamo noi. -

- Lasciami andare! – Urlai disperato mentre mi divincolavo dalla sua presa per tornare a sfogare tutto ciò che sentivo sul mostro che si stagliava dinanzi a noi privo di espressione, senza lasciare trasparire nulla. – Mi ha portato via tutto, lo capisci Joseph? Tutto – Continuai gridando e cercando di prenderlo a calci nonostante Joseph mi tenesse con forza. – Tu hai ucciso mia madre – Non mi ero accorto di stare piangendo finché non deglutii l'amaro delle mie lacrime mentre mi scagliavo su Vincent pieno di rabbia. – Hai ucciso la mia migliore amica, hai rovinato le nostre vite, hai distrutto e consumato mio fratello come un parassita e adesso sta morendo, per colpa tua. Tu più di tutti dovresti desiderare la sua morte, Joseph, proprio come me. Lui ha ucciso Katherine: ha ucciso tua figlia e sta ridendo -

- Benjamin – Mi chiamò Gabriel provando a sovrastare le mie urla. Incrociai il suo sguardo: i suoi occhi verdi luccicavano mentre un'auto della polizia lo raggiungeva, presupponevo per accertarsi che Vincent non fuggisse mentre lo spingevano in macchina, e due agenti prendevano Vincent per chiuderlo in auto e portarlo via. – Respira – Mi disse dopo averlo chiuso dentro e aver sbattuto la portiera con violenza. Si avvicinò posandomi le mani sulle spalle: Joseph mi stringeva ancora, aveva allentato la presa quando io avevo iniziato a respirare profondamente cercando di placare il mio attacco d'ira mescolato al panico e al dolore. – Devi solo continuare a respirare. L'ambulanza è a pochi metri da qui, è ancora vivo. -

Lo guardai dritto negli occhi, leggendovici un'ondata di senso di colpa. Si stava trattenendo, glielo leggevo nello sguardo che avrebbe voluto scoppiare a piangere e non sapevo se fosse perché dopo tutto a mio fratello teneva come se ormai fosse parte integrante della sua vita, oppure se fosse perché era esausto, perché aveva soltanto bisogno di fermarsi e lasciarsi andare, esattamente come avrei dovuto fare io, anche se per motivi differenti. Ero terrorizzato dalle conseguenze che il crollo che mi attendeva avrebbe potuto scaturire, ma stavo già crollando a picco ed ero in caduta libera, dovevo solo decidermi a non cercare più un appiglio e lasciarmi cadere finché non avrei toccato il fondo, per poi rialzarmi da terra.
Stavo per rispondergli, dirgli che si sarebbe potuto concedere un attimo di debolezza, ma un singhiozzo catturò la mia attenzione e attivò, nuovamente, i mille campanelli di allarme che continuavano a risuonare nella mia testa.

- Benjamin! - Victoria aveva urlato così forte che tutti quanti ci eravamo voltati a guardarla.
Teneva la testa di Ryan sulle ginocchia: ciondolava avanti e indietro, piangendo, singhiozzando e senza respirare. Aveva le mani macchiate di rosso scarlatto, le gocce di rugiada bagnavano il volto pallido di mio fratello cadendo una ad una lentamente e scandendo i secondi che passavano. Victoria si era chinata su di lui, aveva chiuso gli occhi e stretto i pugni nei suoi ricci. - Non morire, ti prego non morire - Disse con il respiro spezzato. - Ben? - Chiamò ancora alzando la testa e voltandosi a guardarmi con gli occhi fuori dalle orbite, mentre io ero immobile a fissarli, completamente sotto shock. - Ben non sento il battito - Esclamò nel panico e trattenendo il respiro.
Nel frattempo sentii le sirene dell'ambulanza estremamente vicine, le sirene della polizia ripartire e i lampeggianti blu tornare a illuminare la notte, alla rincorsa di Rudy e Jonathan che, grazie alle distrazioni, erano riusciti a sfuggire agli agenti che li tenevano fermi.

Caddi a terra accanto a Ryan, con gli occhi spalancati e senza riuscire a respirare a causa del panico che si era impossessato di me e mi stava strangolando, posai le mani sulle spalle di mio fratello e lo scossi, mentre il suo viso diveniva sempre più pallido e sempre più spento, ad ogni secondo. – Ryan? – Lo chiamai con voce tremante. – Ryan apri gli occhi ti prego – Continuai accecato dal dolore. – Non mi lasciare – Dissi mentre la vista si appannava e mi girava la testa: non vedevo nulla al di fuori di mio fratello. – Ryan ti scongiuro apri gli occhi, non puoi morire, non mi puoi lasciare hai capito? Non farmi questo, non lasciarmi solo, resta con me. -

Victoria singhiozzava, non faceva altro che piangere. Aveva un attacco di panico e io non riuscivo nemmeno ad aiutarla, perché ero ridotto nel suo stesso stato. Non connettevo più, il filo che mi teneva con i piedi per terra era stato tagliato, e credevo che la pozza di sangue scarlatto che aveva lasciato mio fratello si fosse mescolata alla mia sofferenza, perché sgorgavo dolore in continuazione.
Le sirene dell'ambulanza avevano smesso di suonare da qualche secondo e i paramedici erano già al mio fianco pronti a intervenire per tentare di salvare la vita di mio fratello. Non mi capacitavo di essere di nuovo caduto in una situazione di quel tipo, ma soprattutto non mi capacitavo del fatto che c'era la probabilità che io perdessi l'unica parte ancora bella di me che restava.

Le voci dei medici erano distanti, osservavo Ryan privo di sensi, con la testa posata sulle gambe di Victoria. - Signorino - Chiamava un dottore. - Mi può dire cosa è successo? - Chiese toccandomi la spalla.

Non mi preoccupai nemmeno di voltarmi ad osservarlo, semplicemente guardavo Ryan. Era inerme, pallido, gli occhi scavati da borse scure, la tristezza dipinta in volto. Ryan era triste da un po', da un bel po'. Senza Katherine era ancora più cupo, più solo, più silenzioso, più pensieroso. Era sempre stato uno che non parlava molto, che non sorrideva spesso, in questo ci somigliavamo, ma da quando lei se n'era andata era ancora peggio. Si era chiuso a riccio, passava le ore a guardare il cielo e le stelle, e io ero certo che pensasse costantemente a lei, soprattutto quando mi capitava di soffermarmi ad osservarlo e vedere che ancora, dopo tre mesi, si voltava con la testa convinto di trovarla al suo fianco, ma lei non c'era. Sapevo che il senso di colpa lo divorasse, vedevo la luce nei suoi occhi spegnersi come la fiamma di una candela consumata, e non sopportavo l'idea che si fosse caricato sulle spalle il peso di quella situazione, restando solo ad affrontarlo, per me, esclusivamente per proteggere me. - È mio fratello - Dissi solamente. - Si chiama Ryan Walker, ha ventitré anni, ed è mio fratello. È l'unica cosa che mi resta, per favore salvatelo. Vi do la mia vita, salvatelo - Supplicai guardandolo con le lacrime agli occhi.

In quel momento un medico mi allontanò da lui, per intervenire e attaccargli il respiratore. Avevano parlato di ferita d'arma da fuoco, pneumotorace, grossa emorragia. Lo stavano intubando, avevano scostato Victoria che era rimasta inginocchiata a terra a guardare ad occhi spalancati, i capelli sparsi ovunque, le mani macchiate di sangue, il respiro incastrato in gola, lo sguardo azzurro come il cielo era tempestato di nuvole grigie, e si era posato su di me proprio in quel momento. La guardai piegando la testa di lato, inspirai profondamente trattenendo un singhiozzo e le lacrime, per quanto potessi farlo, mi posai le mani sul viso, lasciandomi andare e rannicchiandosi in me stesso. Lei mi raggiunse, mi strinse forte fra le braccia mentre le sirene ripartivano spaccando i nostri timpani, i lampeggianti rossi illuminavano il buio e rimanemmo soltanto noi due, circondati dalla gente che guardava dal ciglio della strada, o dai balconi delle case distanti ma vicine abbastanza da aver sentito e assistito alla sparatoria, all'arresto e al mio crollo. - Mio fratello - Sussurrai mentre lei mi cullava tra le braccia e mi baciava fra i ricci. - Mio fratello - Ripetei stringendo fra i pugni la sua maglietta.

- Non morirà - Disse inspirando di scatto e accarezzandomi la testa con le dita infilate fra i miei ricci. Mi baciava la testa e piangeva in silenzio, come se volesse essere lei quella forte fra i due, come se volesse esserlo per far sì che io mi lasciassi andare, che mi permettesse di crollare. - Non può morire. Non morirà. - Concluse stringendomi più forte. - Ben amore mio - Mi chiamò tra le lacrime. - Puoi piangere, concediti di farlo, lasciati andare, lasciale uscire -

- Ora non posso - Risposi allontanandomi e guardandola dolcemente negli occhi. Le accarezzai la guancia, sorridendole come potevo, le lasciai un delicato bacio sulle sue labbra e le presi la mano chiudendo gli occhi e trattenendo, ancora, le lacrime. Sentivo il nodo in gola stringere, stringere così forte da minacciare di farmi soffocare, però non potevo permettermi che accadesse proprio in quel momento. Mio fratello aveva bisogno che io fossi forte e non dovevo assolutamente lasciarmi andare, non in quel momento, non potevo cedere. Dovevo solo resistere ancora un po'. - Ryan ha bisogno da me, devo andare da lui. Vieni, andiamo -

Victoria sospirò sconsolata, scosse leggermente il capo e mi osservò con le lacrime agli occhi, come se stesse piangendo per me: mi regalava le gocce di pianto che io non riuscivo a lasciare andare. - Guido io - Disse alzandosi in piedi ed aiutandomi, e invitandomi, a fare lo stesso. - So dove lo stanno portando, conosco una scorciatoia, se ci sbrighiamo riusciamo ad arrivare prima di loro. Chiama i tuoi genitori nel frattempo oppure Arthur, saranno preoccupati. Sono le tre del mattino -

Le sorrisi, intrecciai le nostre mani e mi alzai in piedi. La seguii fino alla macchina, lanciandole le mie chiavi e baciandole la testa una volta arrivati al parcheggio. - Sicura di stare bene? Te la senti davvero? -

Victoria mi guardò dritto negli occhi, scrutandomi attentamente e annuendo in seguito. - Per te qualunque cosa - Affermò aprendo la portiera della macchina, salendo a bordo e mettendo in moto. Stringeva il volante con forza mentre guidava, sospirava come se cercasse di mantenere la calma e non farsi prendere dal panico tanto che posai la mia mano sulla sua, quella appoggiata al cambio dell'auto, per tentare di trasmetterle sicurezza, ma dato il mio umore e l'ansia che stava divorando entrambi era un po' impossibile riuscirci. Teoricamente non avrebbe più potuto guidare, non da quando le avevano diagnosticato la schizofrenia. Oltre al fatto che prendesse psicofarmaci e i suoi riflessi non erano mai attivi al cento per cento, c'era anche il rischio che avesse un'allucinazione mentre guidava. Avrei voluto dirle che ero perfettamente in grado di guidare io, che avrebbe solo dovuto dirmi dove andare, ma prima che potessi farlo era già uscita dal parcheggio e si stava già dirigendo all'ospedale. Chiamai mio fratello Arthur, chiedendogli di informare i nostri genitori per dirgli cosa fosse successo e una volta arrivati in pronto soccorso mi catapultai fuori dall'auto correndo all'accettazione mentre Victoria parcheggiava l'auto.

- Salve buonasera, mi scusi sono qui per mio fratello, Ryan Walker. Gli hanno sparato, è arrivata l'ambulanza e lo hanno portato qui, mi sa dire dov'è? - Chiesi alla donna in accettazione con il cuore che palpitava a tremila battiti al minuto.

- Controllo subito se è già arrivato - Mi rispose. La donna aveva la pelle olivastra, i capelli marroni legati in due trecce strette, il camice bianco e gli occhi scuri che osservavano, attraverso gli occhiali, lo schermo del computer. - Lo hanno lasciato da poco in pronto soccorso, se corre riesce a vederlo prima che lo portino in sala operatoria. In fondo al corridoio, prima porta a sinistra -

Senza pensarci due volte corsi verso la porta che mi aveva indicato, senza nemmeno più respirare. La spalancai fermandomi in mezzo al corridoio, guardandomi attorno e cercando in tutti i punti del pronto soccorso un lettino in cui c'era mio fratello, ma senza risultato. La sala era circondata da persone con il dolore in volto, alcuni in attesa probabilmente di notizie sui propri cari, altri attendevano una visita. Avevo sempre odiato gli ospedali proprio perché erano colmi di tristezza, di dolore, di buio, non c'era mai nessuno che pensava positivo.
Iniziai ad andare nel pallone quando, dopo qualche istante a guardarmi attorno, ancora non avevo trovato Ryan. Sentii il respiro venire a meno, il nodo in gola stringersi, come se una corda stesse tirando e mi stesse soffocando. Non sentivo più nulla al di fuori del mio battito cardiaco accelerato, rimbombava nelle orecchie e batteva così forte da sovrastare qualsiasi altro rumore. Mi presi la testa fra le mani e ruotai su me stesso più e più volte, con le lacrime agli occhi, saettando con lo sguardo a destra e sinistra, gli occhi spalancati, il panico che regnava sovrano. Le porte in fondo al corridoio si spalancarono e due paramedici trascinavano di corsa un lettino mentre un altro, invece, stringeva una bombola dell'ossigeno mentre chiedeva assistenza. - Codice rosso: ventitré anni, è rimasto coinvolto in una sparatoria insieme ad altri ragazzi. Probabile pneumotorace, da operare d'urgenza. Il battito è debole, ha perso conoscenza e molto sangue, grave emorragia esterna. Il proiettile è arrivato dalla schiena, potrebbe avere un nervo lesionato. Forza ragazzo, resisti, sei troppo giovane per morire – Diceva un medico accanto alla sua barella mentre i chirurghi lo ascoltavano.

- Ryan - Sussurrai. Per qualche istante rimasi fermo incatenato a terra, a guardare i medici che accorrevano in suo aiuto, dichiarandolo codice rosso: in fin di vita. Corsi da lui, proprio al suo fianco, spingendo i medici e prendendo la sua mano con disperazione. - Sono qui, resta vivo ti prego. Non andartene senza di me, ok? Me lo prometti? - Sussurrai al suo capezzale, tenendo la sua mano, con voce tremante. - Sarò qui, mi troverai qui quando riaprirai gli occhi, non me ne andrò. Dottore è mio fratello, vi scongiuro salvatelo, è mio fratello. –

- Signorino dobbiamo portarlo subito in sala operatoria, ha perso molto sangue, non possiamo aspettare ancora - Mi disse uno dei medici posando una mano sul mio braccio e fermandomi mentre gli altri lo portavano oltre la porta scorrevole per operarlo. - Non può oltrepassare questa porta, uno di noi la terrà informato su ciò che accadrà lì dentro. Cerchi di stare tranquillo, le daremo notizie al più presto possibile. Suo fratello è in buone mani. Lei si sente bene? - Mi domandò mentre io ancora fissavo la porta con sguardo assente, come se non la stessi davvero guardando, come se ci potesse uscire mio fratello e dirmi che non era successo niente, che era stato soltanto un brutto sogno.

Mi scostai da lui, osservandolo con gli occhi fuori dalle orbite e scrutando alle sue spalle in attesa che Victoria tornasse: avevo bisogno di lei, avevo bisogno di lei così tanto che avrei voluto urlare. - Sì- Risposi - Sì io sto bene. - Sospirai prendendomi la testa fra le mani. Mentiamo così tanto a noi stessi che prima o poi le menzogne diventano realtà. Dicevo di stare bene con così tanta frequenza che, ormai, quelle due parole avevano perso di significato.

- Non è vero, tu hai bisogno di farti visitare - La voce di Victoria, affiancata da Elizabeth e Leonard, giunse forte e chiara alle mie orecchie. Non seppi per quale motivo, cosa scaturì quel gesto, ma non appena i miei occhi si posarono nei suoi sentii l'impulso di correrle incontro e abbracciarla. Lei rimase un po' sorpresa inizialmente, però alla fine ricambiò la stretta, si alzò in punta di piedi e mi strinse al suo petto, lasciando che chiudessi gli occhi e abbandonassi tutto il resto per rifugiarmi fra le sue braccia.

- Anche tu, Victoria - Leonard interruppe il nostro momento, facendo sì che entrambi l'osservassimo.- I tuoi polsi sono da medicare. - Disse indicandoli e portandomi, quindi, ad osservarli. Aveva ragione: aveva bisogno di farsi visitare, di farsi dare un'occhiata perché i suoi polsi erano terribilmente arrossati ed era presente il segno rosso delle corde strette attorno ad essi, probabilmente aveva provato così tanto a districare il nodo che si era anche tagliata esattamente come avevo fatto io. - E anche i tuoi Benjamin, probabilmente hai anche bisogno di punti al sopracciglio, quel taglio non ha un bell'aspetto. Vado a cercare un medico - Non aggiunse altro, semplicemente ci lasciò lì con Elizabeth, che ci osservava piangendo e scuotendo il capo in continuazione. Leonard non era solito parlare molto, non mi aspettavo altre parole da lui, perché sapevo che nei momenti in cui si sentiva più sotto pressione ed era preoccupato, il silenzio era la sua unica reazione. Mi aveva osservato, per accertarsi che stessi bene probabilmente, ma non si era spinto oltre: non una carezza, un abbraccio, o una parola per rassicurarmi. Fu però in quel momento che mi resi conto che l'unica cosa di cui avevo bisogno non erano cure mediche, ma un abbraccio, ecco perché continuavo a stringere Victoria e baciarla fra i capelli.
La presi per mano, la strinsi forte dopo aver intrecciato le nostre dita, e si sedette accanto a me in sala d'attesa, posando la testa sulla mia spalla e chiudendo gli occhi giocando con le nostre dita intrecciate.
Elizabeth, dal canto suo, camminava per il corridoio mordicchiandosi le unghie e creando solchi a terra, quasi, per l'ansia che la divorava. La guardavo senza nemmeno sapere cosa dire o fare, perché in realtà era più di un anno che li facevo vivere in quel modo, in ansia costante, per problemi e guai che sembravano rincorrermi ovunque andassi. Mi domandai come stesse Arthur, chi ci fosse con lui e se la sua crisi fosse passata, ma decisi di non chiedere nulla e rimanere in silenzio, ad accarezzare i polsi arrossati di Victoria e sentirmi mancare il respiro ogni volta che vedevo quei segni. 

- Benjamin - Elizabeth mi chiamò portandomi ad alzare la testa e guardarla negli occhi, leggendoci tutta la disperazione possibile. Sembrava che non sapesse bene cosa dire, ma che qualcosa, effettivamente, lo volesse dire. - Non ti chiederò cosa è successo, non adesso, ma voglio chiederti scusa per aver dato per scontato troppe volte che la questione di Ryan, e quella di Vincent, fosse ormai risolta. Credevo che con il fatto che Ryan fosse da noi, che fosse con te, significasse che si era rimesso tutto a posto, e così non mi sono mai preoccupata di chiedere a te o a lui se ci fosse qualcosa di irrisolto. Non mi sono nemmeno mai domandata come fosse andata a tuo fratello, come stesse e se avesse bisogno di qualcosa in particolare, di qualche aiuto o di qualche consulenza da parte di Leonard. E mi dispiace, perché se ci fossimo preoccupati di sederci accanto a voi e parlare con voi invece di aspettare che foste voi a farlo, forse le cose sarebbero andate in modo diverso, forse tutto questo non sarebbe successo e forse avremmo potuto prevenire i disastri e altri traumi a te. Hai già perso così tanto e io, come tua tutrice, avrei dovuto fare qualcosa, Leonard avrebbe dovuto fare qualcosa. Avere Gabriel al vostro fianco non vi proteggeva da tutto e noi avremmo dovuto saperlo, fare qualcosa e offrirvi di più. Mi dispiace, mi dispiace così tanto. Mi si spezza il cuore a vederti così e sapere che in parte la colpa è mia mi fa sentire uno schifo. Mi sento come se avessi fallito, sia come madre che come amica, che nel supportarti. Avrei dovuto insistere, perdonami se puoi. - Disse tutto d'un fiato.

Non mi aspettavo di certo che dicesse cose di quel tipo, di farla sentire in colpa per cose che erano esclusivamente responsabilità mia e del mio essere sempre così chiuso, del mio voler credere di poter risolvere tutto da solo, quando in realtà non era così. Tutto mi si stava ritorcendo contro come un boomerang e io avevo la sensazione di stare crollando a picco, ed ero terribilmente spaventato. - Non è colpa tua - Dissi soltanto distogliendo lo sguardo e giocando con le dita di Victoria. - Avrei dovuto parlare con te e Leonard, però non l'ho fatto. Ho voluto fare di testa mia, fare tutto da solo, convinto di potercela fare e di non aver bisogno di nessuno. - Alzai gli occhi, sentendo le lacrime pulsare e insistere perché le liberassi, ma strinsi un pugno e inspirai profondamente per evitare che accadesse. Non lì, non davanti a loro, non era il posto giusto e nemmeno il momento. - Ora mi si sta ritorcendo tutto contro e va bene così, perché se io ve ne avessi parlato ora mio fratello non starebbe rischiando la vita. Scusatemi se vi faccio sempre preoccupare, se vi faccio più male che bene, non so come facciate a volermi ancora in casa vostra, sono un disastro -

- Non è vero, non lo sei - La voce di Leonard spezzò il silenzio che si era creato. Era tornato stringendo fra le mani due bicchieri di caffè, presupponevo per lui ed Elizabeth. Mi osservava attentamente, scrutandomi da capo a piedi e scuotendo il capo sospirando. - Non hai sbagliato in nulla, sei sempre stato perfetto con noi e soprattutto, cosa per cui non ti ringrazierò mai abbastanza, sei un esempio per Arthur. Ha sempre avuto bisogno di una persona come te al suo fianco e adesso ce l'ha e ce l'avrà sempre. Tu sei fatto così Benjamin: sei un pilastro per tutti quanti e pretendi di riuscire a reggere il peso della nostra sofferenza, perché vuoi essere la colonna portante, quello che impedisce a noi di soffrire e si prende tutto il nostro dolore. Però, ti svelo un segreto, non puoi farlo. Non puoi portarti appresso il peso del mondo e di ciò che ci accade, perché prima o poi crollerai. La tua sofferenza conta, non puoi prenderti la nostra dimenticandoti di te stesso, perché così non starai mai bene. È ora che anche tu accenda quell'interruttore, lo so che farà male e so che hai paura e sei spaventato, ma se non è ora sarà domani, se non sarà domani sarà fra un mese, ma prima o poi crollerai e cadrai e farà così male che la cicatrice ti segnerà per sempre. Se adesso tu smetti di scappare, se tu chiudi gli occhi e senti tutto al cento per cento, se vivi il tuo dolore come deve essere vissuto, questo diventerà la tua forza e ti aiuterà a crescere. Non devi combatterlo, devi viverlo. Non sei un disastro, sei solo ferito e hai solo bisogno di tempo. Noi siamo fieri di te e siamo contenti di averti in famiglia, ma adesso è ora che tu pensi a te stesso e che tu la smetta di occuparti di tutti noi, ci occuperemo noi di te come avremmo sempre dovuto fare. Sei nostro figlio, tale e quale ad Arthur, ti amiamo e ti staremo accanto, qualsiasi cosa succeda. Non è colpa tua, non potrebbe mai esserlo. -

- Signorino Woods? Signorina Hastings? - Un infermiere chiamò sia me che Victoria prima che potessi rispondere a Leonard e ringraziarlo. Chiusi gli occhi posando le mani sulle ginocchia e stringendo con forza, trattenendo le lacrime ancora, perché lo avrei fatto finché mille forze me lo avrebbero concesso. Annuii e sospirai, alzandomi in piedi seguito da Victoria che, a differenza mia, si stava asciugando le lacrime e stava ancora singhiozzando. - Venite, ci hanno detto che siete rimasti coinvolti nell'incidente, vediamo se va tutto bene. -

L'infermiere ci fece cenno di seguirlo con il capo ma prima che potessi andare Victoria mi tirò per il polso e mi fece voltare verso di lei. Incontrai i suoi occhi azzurri come l'oceano, quelle perle immense in cui riuscivo a trovare il mio riflesso, a ricordarmi chi ero davvero e per cosa lottavo. Quegli occhi che mi avevano fatto innamorare fin dal primo istante, un amore incondizionato e senza confini, che superava ogni cosa, ed era così forte che mi dava la forza per andare avanti, era la ragione per cui ogni giorno aprivo i miei di occhi. Rimase a guardarmi qualche istante, mentre Elizabeth e Leonard si appartarono e mio padre rispose al telefono, intento ad ascoltare l'altro capo della cornetta con Elizabeth che stringeva la mano sulla sua spalla e vi ci posava la testa. Li vidi abbracciarsi, mentre lei piangeva, e nonostante lui stesse parlando al telefono, i suoi occhi erano fermi sulla sua figura: baciava la sua testa, fra i capelli, con amore, come sempre. Tornai a guardare Victoria e mi resi conto che era quello ciò di cui avevo bisogno, ciò che volevo nella vita, il suo amore, così: puro e infinito, come l'infinito che racchiudeva nel suo sguardo. - Ti amo - Disse facendo un passo avanti e posando una mano sulla mia guancia. - Non c'è niente che non farei per te e niente al mondo che possa cambiare quello che provo per te. Io ti amo dal profondo del mio cuore e l'unica cosa che voglio in questo momento è restare al tuo fianco, per sempre, fino alla fine dei nostri giorni, costi quel costi. Qualsiasi cosa accadrà questa notte l'affronteremo insieme, te lo prometto. - Portai il viso al cielo e inspirai profondamente, tornai a guardarla, annuii e chiusi gli occhi quando lei si avvicinò e posò le labbra delicatamente sulle mie, alzandosi in punta di piedi e stringendomi a se. Posai la fronte sulla sua, sfiorando il suo naso e inspirando il profumo al cocco dei suoi capelli, mentre lei continuava ad accarezzarmi il viso e sorrideva lasciandomi baci sul viso un po' ovunque. - Sei bellissimo - Sussurrò sorridendo.

- Ho una ferita sanguinante sulla testa, un occhio praticamente nero e la morte dipinta in viso. - Risposi piegando la testa di lato e incamminandomi verso dove i due medici ci attendevano, in due sale differenti.

- Resti stupendo lo stesso, così come sei - Esclamò superando mi e lasciando la mia mano solo quando fummo entrambi davanti alla porta della sala.

Ci scambiammo un'occhiata, Victoria annuì e mi sorrise, scaldando il mio cuore così debole in quel momento, e insieme oltre passammo la soglia della porta pronti ad affrontare le ferite che anche quella sera ci aveva lasciato, sperando che sarebbero svanite un giorno.
Dopo la medicazione e i punti al sopracciglio che mi avevano dato, uscii dall'ambulatorio con un grosso cerotto sulla fronte e la cartella delle dimissioni stretta fra le mani. Victoria era seduta in sala d'aspetto accanto a Leonard ed Elizabeth e si sfregava i polsi con le mani fissando il vuoto con il telefono posato fra la spalla e l'orecchio. - Sì sto bene Richie - Sussurrò arricciando il naso. - Stai tranquillo, ho già parlato con mamma e papà, lo sai che li ho chiamati. Sono ancora spaventata ma nel complesso, fisicamente, sto bene. - Disse sorridendomi quando mi vide arrivare e sedermi, lasciandomi cadere sconsolato, accanto a lei. Mi prese la mano e con quella libera riprese il cellulare. Le avevano fasciato entrambi i polsi, per il resto era a posto. Mi sentivo una schifezza mentre osservavo quelle fasce bianche e la sua espressione spenta. Mi rendevo conto che stava facendo di tutto pur di cercare di tranquillizzarmi e farmi credere che stesse bene, ma in realtà sapevo che non fosse così. - No, non serve che vieni qui. Sto aspettando con Ben e i suoi genitori notizie su Ryan, appena so qualcosa ti chiamo. - Fissò la porta della terapia intensiva con disperazione: in quei mesi si era affezionata anche lei a mio fratello e ai suoi modi di fare. Aveva imparato ad apprezzarlo e sapevo quanto volesse fare in modo che si riprendesse dalla morte di Katherine, esattamente come stava cercando di fare con Sam e come stava facendo lei. Da quando era uscita dal centro sembrava molto più positiva di prima, anche se a volte osservandola avevo il sospetto che fosse soltanto una maschera. Non mi aveva parlato del periodo trascorso lì dentro e temevo che non lo avesse vissuto così bene come stava cercando di farci credere. Era chiaro che avesse fatto dei passi avanti, stava meglio senza ombra di dubbio, ma non stava comunque bene e io desideravo disperatamente che smettesse di fingere che fosse così esclusivamente per non farmi preoccupazioni. - Non voglio tornare a casa, voglio restare con Ben, ho bisogno di stare qui con lui e lui ha bisogno di me. - Disse di nuovo sospirando. - Sì senti Richie, ciao, buonanotte. - Fu così che gli chiuse il telefono in faccia e posò la testa sulla mia spalla.

- Scusami - Bisbigliai fissando il pavimento e accarezzando le fasce bianche.

- Smettila di dirlo - Rispose schiettamente e cercando il mio sguardo che, però, in quel momento non contraccambiai.

- Victoria, puoi anche smettere di fingere che sia tutto ok, lo sai vero? Perché non è possibile, non ti credo - Le dissi arricciando il naso e sciogliendo l'intreccio delle nostre dita.

- Non sto fingendo nulla - Replicò lei accigliata. Sentivo il suo sguardo bruciante sulla pelle, molto infastidito oltretutto. - Cosa vuoi sentirti dire esattamente? Che non va tutto bene? È questo che vuoi? È davvero questo quello di cui hai bisogno? - Domandò con voce tremante.

Quando mi voltai ad osservarla, lei si era fatta indietro leggermente, teneva le braccia incrociate strette al petto come se stesse cercando di proteggere se stessa e mi fissava con gli occhi spalancati. - Sei appena uscita dal centro, non credo a questa maschera. -

- Cosa c'entra adesso questo? - Sbottò alzandosi in piedi. - Sto solo cercando di starti accanto e non darti ulteriori preoccupazioni Benjamin. Io ti vedo, lo vedo come stai e vedo come stai scappando, voglio che tu affronti qualsiasi cosa accada con me accanto, non ti voglio lasciare solo così come tu non hai lasciato sola me. Non è questo il momento adatto per parlare di come mi sento io, siamo qui per tuo fratello e così deve essere. Non gira tutto attorno a me, non deve essere così. Non devi pensare a come sto io adesso, ma a come sta lui e a come stai tu. -

- Io non voglio che tu finga di stare bene con me dato quello che è successo. Sei sconvolta, come giusto che sia, hai bisogno di fermarti e riflettere un secondo, di affrontare questa cosa anche tu. Forse Richie ha ragione, dovresti andare a casa - La guardai da seduto, mentre lei si accigliava sempre di più e mi guardava sconvolta. Sembrava più sconvolta da ciò che le stavo dicendo rispetto a ciò che era successo e non andava bene, non era così che doveva essere. Aveva tutto il diritto di essere arrabbiata, di urlare e piangere, di urlare anche con me e di odiarmi in quel frangente, ma non lo stava facendo. Non si era data il tempo di metabolizzare e non lo stava facendo per restare accanto a me, cosa che non volevo assolutamente che accadesse. Era uscita dal centro con una nota positiva ed era arrivata un'altra batosta a creare l'ennesimo trauma, se non l'avesse affrontata quei mesi in quel posto infernale a farsi aiutare sarebbero stati inutili, sarebbero andati in fumo.

- Mi stai cacciando? - Domandò con le lacrime agli occhi. - Tu mi stai davvero cacciando? -

- No, non lo sto facendo - La mia voce trapelava una calma devastante e me ne rendevo conto da solo. - Credo solo tu abbia bisogno di fermarti un secondo e metabolizzare, ma per farlo non dovresti stare qui, non in questo momento almeno, tutto qui. -

In più si aggiungeva anche il fatto che avevo un disperato bisogno di restare da solo per un po'. Desideravo disperatamente rimanere con lei, più di tutto il resto avrei voluto averla accanto, ma sapevo che eravamo in due a dover metabolizzare e per farlo avevamo entrambi bisogno di restare da soli: era l'unico modo.

- Ma io non voglio andarmene, io voglio stare qui con te - Mi fissò pregandomi per poter restare con me, e io avrei voluto urlarle che non desideravo altro che affondare nel suo caldo abbraccio, perché lei era l'unica luce in quel buio che mi circondava, però non era quello di cui avevamo bisogno. Non era in quel modo che avremmo dovuto affrontare ciò che era accaduto quella notte, non era fuggendo l'uno fra le braccia dell'altra che ci saremmo rialzati.

Forse era arrivato il momento per me di soffrire, di stare male e urlare per tutte quelle volte in cui non lo avevo fatto, di mettere da parte tutto il resto e affrontare ciò che mi aspettava, anche se ero terrorizzato dall'idea di rimanere da solo a terra, dall'idea di rimanere senza forze e non riuscire più a rialzarmi. A quel punto mi alzai in piedi e le sorrisi, le accarezzai la guancia e le baciai la testa, fra i capelli, sfiorandole la mano fino a intrecciare le nostre dita. Chiusi gli occhi, posando la fronte sulla sua e inspirai il suo profumo, godendomi quella sensazione e quell'emozione che scaturiva in me ogni volta. - Ti amo lo sai, ma devi andare -

Nel momento in cui mi allontanai le porte del pronto soccorso si spalancarono all'improvviso e Sam fece il suo ingresso praticamente correndo. Si infilò le mani fra i capelli e si guardò attorno con disperazione fino a che i suoi occhi incrociarono i miei. Smise di trattenere il respiro quando vide Victoria in piedi davanti a me, sana e salva, espirò e si posò una mano sul petto, rilassato dal fatto che stesse bene. Corse incontro alla sorella, stringendola fra le braccia e riempiendola di baci sulle guance, fra i capelli e sulla fronte. Prese il suo viso fra le mani e la scrutò con attenzione, controllando che andasse tutto bene. - Grazie a Dio - Disse ancora tremante e con gli occhi lucidi.

Si voltò verso di me e mi abbracciò senza pensarci troppo, stringendomi in un abbraccio che significava tutte quelle parole che non aveva detto. Sam era speciale, un amico che, a volte, sospettavo di non meritare. - Qualsiasi cosa ti dica sarebbe scontata o stupida. L'unica cosa che ci tengo a farti sapere è che sono qui per qualunque cosa tu abbia bisogno, anche la più sciocca. Tienimi aggiornato, fammi sapere se ci sono novità e ricordati che io ci sono, anche per bere una birra seduti a terra e in silenzio. Sono al tuo fianco Benjamin -

Mi veniva da piangere, ad essere onesti. Non sapevo nemmeno che cosa rispondere, semplicemente mi ritrovai a distogliere lo sguardo e sfregarmi il viso con le mani nella speranza che potesse aiutarmi a nascondere le lacrime, a ricacciarle indietro più che altro. - Grazie Sammy - Risposi con voce tremante. Ero sull'orlo del precipizio: nello stomaco avevo una tempesta di emozioni negative, un uragano di disperazione che mi stava portando alla pazzia e tremavo così intensamente che mi spaventai. - L'unica cosa di cui ho bisogno adesso è sapere Victoria al sicuro, a casa a riposare. Per favore, portala via di qua -

- Ma Ben io... - Victoria si avvicinò di nuovo a me con le lacrime agli occhi, chiedendomi per favore di non farla andare via.

Distolsi lo sguardo perché se fossi rimasto a guardarla ancora per un solo secondo avrei cambiato idea, per cui abbassai la testa e alzai le braccia facendo qualche passo indietro. - Ne abbiamo già parlato. Io voglio che tu vada a casa, fallo per me, è quello di cui ho bisogno adesso, per favore. -

Alla fine lei cedette, sospirò e annuì continuando a guardarmi, come se avesse paura di lasciarmi da solo, in balia di me stesso. - D'accordo, come vuoi - Sussurrò abbassando lo sguardo e avvicinandosi a suo fratello.

- Forza piccolo bruco - Sam allungò la mano e la tese verso di lei, che l'afferrò trattenendo a stento un singhiozzo e posando l'altra sul suo cuore. - Andiamo a fare un bel bagno caldo, poi ci sdraiamo a letto e ti leggo un libro finché non ti addormenti. -

- Ben? - Mi chiamò prima di andarsene e voltarsi del tutto. - Chiamami ok? Qualsiasi ora sia -

Le sorrisi, sforzandomi immensamente, e annuii cercando di non scoppiare a piangere proprio davanti a tutti, a tutte quelle persone che non conoscevo. Mi sentivo come se si aspettassero qualcosa da me: lei, i miei genitori, Sam; come se tutti si aspettassero che scoppiassi come una mina che avevano appena calpestato. Stavo cercando di mantenere la calma il più a lungo possibile, ma ero consapevole del fatto che prima o poi sarei crollato. Non mi capacitavo di ciò che era accaduto, del fatto che fossimo di nuovo in quella situazione, che ci doveva essere sempre qualcosa che non andava. A quel punto mi chiesi se il problema fosse in me, perché avevo sempre pensato che ci fosse qualcosa di strano in me, che la responsabilità di molte delle cose che mi accadevano era soltanto la mia, ma quello era diverso. Amicizie perse, cuori infranti e amori non ricambiati erano una cosa, sparatorie e amici che perdevano la vita era un'altra. Un dottore, improvvisamente, spalancò le porte della sala operatoria e uscì correndo, guardandosi attorno come se stesse cercando qualcuno, o qualcosa. Mi avvicinai a lui piazzandomi davanti e notando, solo in quel momento, che si trattava di uno specializzando. - Scusami tu sei in sala operatoria con Ryan Walker? - Domandai con il cuore che batteva a tremila e la disperazione dipinta in viso. Elizabeth e Leonard si erano alzati in piedi e osservavano la scena a pochi passi di distanza, in silenzio, abbracciati l'una all'altro.

- Sì, ma io sono solo uno specializzando, ci sono dentro due chirurghi, devo andare a prendere delle sacche di sangue urgentemente - Spiegò soffermandosi qualche istante.

- Sacche di sangue? Perché? - Chiesi completamente nel panico e con gli occhi fuori dalle orbite. - Per favore è mio fratello, ho bisogno di sapere come sta -

Lo specializzando dai capelli scuri e tagliati a spazzola sospirò e mi oltrepassò cominciando a camminare all'indietro. Mi osservò con dispiacere, come se stesse per darmi una brutta notizia. - L'operazione è molto più complessa del previsto. Ha perso molto sangue e il proiettile ha forato un polmone. Ci vorrà ancora molto tempo, ma è in buone mani. Appena ci saranno novità il chirurgo uscirà a spiegarle tutto, cerchi di stare il più tranquillo possibile - Disse prima di riprendere a correre e lasciarmi lì in mezzo al corridoio, da solo, e senza sapere nulla più di prima.

Mi voltai verso Elizabeth e Leonard, che mi fissavano con gli occhi fuori dalle orbite. Elizabeth teneva una mano posata sul cuore e Leonard, invece, aveva abbassato lo sguardo e lo aveva posato sul pavimento. Sentivo il respiro pesante, il colletto della maglia che mi strangolava e la testa mi stava scoppiando a causa dei troppi pensieri. Sollevai le braccia in segno di resa, scossi il capo e lasciai, finalmente, che le lacrime uscissero. - Devo uscire di qui, sto impazzendo - Esclamai.

Non attesi la loro risposta, né mi voltai quando mio padre mi chiamò, semplicemente corsi fuori dal pronto soccorso e mi fermai soltanto una volta raggiunto il giardino. Mi lasciai cadere a terra e mi presi il viso tra le mani, mentre le lacrime non facevano altro che uscire senza sosta, per tutte quelle volte in cui non le avevo lasciate libere di farlo. Non ce la facevo più, il peso sul mio petto era così grande che nemmeno tutte quelle lacrime sarebbero state in grado di farmi sentire meglio e la sensazione che stavo per impazzire era così forte che mi stava strangolando. Perciò alla fine cedetti del tutto e, senza nemmeno rendermene conto subito, urlai. Urlai fino a che le corde vocali presero a bruciare, dandomi la sensazione che si fossero lacerate, misi una mano sul mio petto e mi accovacciai sotto quell'albero nel giardino, stringendo le braccia attorno alle ginocchia e pingendo, senza sosta, per un tempo che mi sembrò interminabile. Erano lacrime per mio fratello, in fin di vita, che non aveva fatto altro che proteggermi per tutto quel tempo, nonostante io gli fossi sempre stato contro; lacrime per Katherine che aveva perso la vita per colpa nostra; per Victoria, che per colpa mia aveva un altro trauma da superare, dopo essere uscita dal centro da una settimana, dopo che aveva espresso più volte il suo desiderio di morire. Erano per Sam, che aveva perso l'amore della sua vita; per Vanessa che aveva trovato finalmente il suo posto nel mondo e io lo stavo distruggendo piano piano; per Carter, che cercava di risollevare tutti e piangeva in silenzio, come aveva sempre fatto, da solo nella sua stanza senza nessuno che poteva aiutarlo; erano per i miei genitori e Arthur, perché da quando stavo con loro avevo soltanto causato problemi; ed erano per me, perché avevo visto la morte in faccia e avevo evitato di affrontare la questione fino a quel momento. Erano le lacrime che avrei dovuto versare quando avevo riaperto gli occhi, quando mi avevano arrestato, quelle che avrei dovuto versare al processo e quando avevo scoperto della morte di mia madre, ma le avevo sempre trattenute ed evitate, fino a quando credevo di averne la forza. Era più facile scappare dal dolore che affrontarlo, era più facile convincersi di farcela da soli piuttosto che farsi aiutare, ma in quel momento mi pentii fortemente della scelta che avevo fatto, perché mi stava schiacciando tutto come un macigno e non sapevo se ce l'avrei fatta, se ci sarei riuscito a superare tutto e a rialzarmi. Ero così debole e fragile in quel momento che una folata di vento un po' più forte avrebbe potuto tranquillamente trascinarmi via portandomi alla deriva.

- Sapevo che ti avrei trovato qui fuori - Una voce mi fece alzare la testa imponendomi di asciugare le lacrime e guardare di chi si trattasse. - Ti conosco così bene che appena Elizabeth e Leonard ci hanno detto che eri corso via ho pensato che sicuramente ti eri nascosto da qualche parte per non farti vedere da nessuno in questo stato. - Vanessa stava in piedi davanti a me: un bicchiere di caffè in mano, un sorriso amaro dipinto sulle labbra, lo sguardo preoccupato, colmo di ombre. - Caffè? - Domandò allungando il bicchiere verso di me e facendo tintinnare i mille braccialetti.

- Come facevi a sapere che mi trovavo qui? - Le chiesi accettando il caffè ed evitando il suo sguardo, asciugando le lacrime e tirando su con il naso.

- Non lo sapevo - Esclamò posando le mani nell'erba e alzando il viso al cielo. - Semplicemente io e Carter ci siamo messi a cercarti, lui da una parte e io dall'altra, sono solo la prima che ti ha trovato. - M'informò sbattendo le ciglia e tornando a guardarmi.

Annuii e bevvi un sorso di caffè osservandola attentamente e sorridendo quando notai che lei stava facendo lo stesso. - Sai non te l'ho mai detto, ma sono molto contento di vederti fra di noi - Le dissi bevendo ancora del caffè. - E del rapporto che, nonostante tutto, abbiamo adesso. Stiamo molto meglio di quando stavamo insieme. E non so come ringraziarti per il fatto che, nel momento in cui ho bisogno di qualcosa, sei sempre una delle prime persone a venire da me. Mi dispiace se in qualche modo ti sto rovinando il piccolo posto nel mondo che hai trovato -

Vanessa si mise a ridere, scuotendo la testa e scrollando le spalle e regalandomi una vampata del suo profumo alla vaniglia. - Sei sempre stato così melodrammatico Benjamin Woods. - Disse ridendo. - Non stai rovinando niente, non so nemmeno come possa venirti in mente una cosa del genere. Tu mi hai fatto un bellissimo regalo nel momento in cui mi hai permesso di avvicinarmi a voi. E sappi che qualsiasi cosa accada adesso a Ryan, qualsiasi cosa in futuro accadrà, mi troverai al tuo fianco, sempre. Non voglio fare la parte di quella che ti dice certe cose per le circostanze o farti sembrare che mi sento obbligata a dirtelo, sappi che te lo sto dicendo con il cuore in mano. Grazie a te ho accanto persone meravigliose, mi hai regalato una famiglia Ben, anche se non ci credi. Katherine è stata un uragano di emozioni, da sempre, e se n'è andata causando un altrettanto uragano, talmente doloroso da farci impazzire. Avere Victoria, Benjamin, per me è come avere la sorella che ho sempre voluto avere e tu sai quanto la solitudine, in casa mia, abbia sempre pesato. Siete le persone con le quali condivido la mia vita adesso, la famiglia che non ho mai avuto, e il solo pensiero che possa accadervi qualcosa mi distrugge. Per questo sono qui. Benjamin tu sei il mio migliore amico e io non voglio che soffri in questo modo, da solo. Non sono venuta qui a rimproverarti per essere arrivato a questo punto perché sapevamo tutti, tu compreso, che prima o poi sarebbe accaduto. Il fatto è che ognuno di noi ha un suo modo di reagire differente rispetto agli altri e nessuno ha il diritto di dirti che il tuo è sbagliato. Proprio per questo motivo non mi sono mai espressa a riguardo e non mi permetterò adesso di dirti che hai sbagliato. Sono qui perché è quello che voglio, perché voglio essere una di quelle persone su cui sai che potrai sempre contare e perché voglio dirti che io ti starò a fianco. Non sono una colonna molto stabile, probabilmente prima o poi crollerò anche io per qualsiasi altro motivo, ma posso provare a reggerti, perché non voglio che tu ti rialzi da solo. Dobbiamo tornare a stare bene Ben, perché ce lo meritiamo, tutti noi. Dobbiamo tornare a credere in qualcosa, vivere la nostra vita per l'età che abbiamo. Dovremmo poter viaggiare, ridere, ubriacarci sulla spiaggia e fare il bagno in piena notte, al chiaro di luna, tutti insieme. Dovremmo poter fantasticare sul nostro futuro, insieme, e non pensare che non ne avremmo uno a causa di tutto ciò che ci è successo. È arrivato il momento giusto in cui possiamo soffrire e piangere per tutto ciò che abbiamo perso, perciò facciamolo, fallo e non te ne vergognare, non nasconderti solo perché stai piangendo e non ce la fai più. Siamo tutti con te e non devi sentirti in dovere di nasconderti da noi, perché piangere non fa di te una persona debole, sei solo stato forte per troppo tempo e lo hai fatto esclusivamente per concedere a tutti noi l'attimo di debolezza di cui sentivamo di avere bisogno, ora è il tuo turno di essere fragile e non c'è niente di cui vergognarsi, sei fortissimo, e lo sai anche tu. - Concluse incrociando le gambe e osservandomi con la testa piegata di lato.

- Ciao testa di cazzo - Carter mi salutò osservandomi dall'alto con quei suoi occhi azzurri pieni di affetto per me, preoccupato come lo erano tutti, accendendosi una sigaretta e lanciandomi il pacchetto. Feci lo stesso, scuotendo il capo e sorridendo. Lui mi conosceva molto bene e sapeva perfettamente che sarebbe potuta succedere una cosa di quel tipo, era consapevole del fatto che prima o poi sarei scoppiato, non era per nulla sorpreso di vedermi in quello stato. - Non voglio dilungarmi troppo e ripeterti cose che ti sono già state dette da tutti. Voglio solo dirti che sei uno stupido. - Si inginocchiò per arrivare alla mia altezza e mi indicò squadrandomi da capo a piedi, rimanendo in silenzio qualche istante. - Sai perché sei uno stupido? La risposta è molto semplice. - Spiegò attendendo che lo guardassi negli occhi. - Ti ricordi quando, tempo fa, poco dopo la morte di Kat, mi hai ringraziato per essere quello forte tra di noi? Quello che cercava in ogni modo di tirare su il morale a tutti e far sì che non pensassimo a ciò che avevamo perso? Beh, hai sbagliato. Non sono io quello che ha sempre cercato di tenere unito il gruppo, di impedire che qualcuno di noi soffrisse. Non sono io quello forte che si fa carico del nostro dolore, sei tu. Sei sempre stato tu e nemmeno te ne sei accorto, da quanto sei stupido. Ognuno di noi è stato accecato dal suo dolore così tanto da non vedere quanto tu stessi facendo per noi, quanto ti stessi occupando di noi in silenzio, senza chiedere nulla in cambio. Ora è il nostro turno, siamo noi a volerci occupare di te e tu devi concederci di farlo Ben. Perché non permetterò che tu crolli senza di me. Se tu salti nel buio, io salto nel buio con te, ci siamo capiti? Non me lo puoi impedire, perché è quello che voglio. -

Stavo piangendo, non aveva senso nemmeno nasconderlo e non me ne vergognavo, onestamente. Sentivo che fosse l'unica cosa che potevo fare in quel momento: tremare, avere attacchi di panico e concedermi di piangere, era l'unica cosa che poteva far sì che non perdessi la lucidità, non del tutto almeno. - Credevo che quella promessa che ci eravamo fatti significava semplicemente che ovunque saremmo andati ci saremmo stati l'uno per l'altro, non doveva significare che se l'altro fa una cazzata dobbiamo farla con lui. - Replicai ridacchiando tra le lacrime. 

- É questo che fanno gli amici: se tu sei una testa di cazzo, io sono una testa di cazzo insieme a te. - Si sedette a terra, finalmente, osservando la sigaretta che stava finendo e si stava consumando, esattamente nello stesso modo in cui ero stato consumato dal dolore per tutto quel tempo.

Era arrivato per me il momento di soffrire senza avere paura, perché sapevo che se fossi caduto avrei avuto qualcuno disposto a darmi la mano. Avevo una famiglia e avevo gli amici migliori del mondo, in qualsiasi modo sarebbe andata non ero solo e non serviva che scappassi o mi nascondessi.
Non mi era mai piaciuta l'oscurità, ma affrontarla con loro sembrava meno spaventoso. Piangere accanto a loro sembrava fare meno male, perché i pezzi del puzzle combaciavano tutti e perché accanto a loro non mi mancava niente. Stare bene e stare male insieme, piangere e ridere insieme, eravamo una famiglia, e solo in quel momento mi resi conto che prima di trovare persone come loro era come se mancasse qualcosa nella mia vita. Vanessa era la mia migliore amica, Carter era qualcosa di più che un migliore amico perché a volte, guardandolo, mi sentivo come se avessi tre fratelli; Victoria era l'amore della mia vita e con Sam ormai ero riuscito ad instaurare un rapporto profondo, c'era sempre per me, in qualsiasi circostanza. Stavamo crescendo in un mare di dolore e tragedie, ma era ciò che ci dava la possibilità di poter crescere insieme.

Vanessa arruffandomi i capelli, mi guardò con gli occhi lucidi, annuendo. Tutti si erano affezionati a mio fratello in qualche modo, quindi per tutti perderlo sarebbe stata una grande sofferenza. - Siamo... -

Sorrisi e scossi la testa, asciugandomi le lacrime e sfregandomi il viso. - Una squadra. -
Vanessa annuì e si alzò in piedi, allungò la mano verso di me e mi aiutò ad alzarmi. - L'intensità del dolore che provi, che senti, è dovuta all'intensità dell'amore che provi. Finché sarai vivo, proverai dolore e potrai fare qualcosa a riguardo. È uno spreco di vita resistere al dolore. Vieni qui sciocco, basta scappare adesso. - Mi abbracciò con forza, stringendomi fra le sue braccia come mai aveva fatto.

Fu quello il momento in cui, riflettendo e abbracciando i miei migliori amici, mi resi conto che proviamo in tutti i modi a fuggire dal dolore: evitiamo le situazioni negative, fuggiamo da ciò che non conosciamo, mentiamo quando ci chiedono come stiamo, ma non dovremmo farlo. Alcuni dolori sono più pesanti di altri: a volte ti attraversano e a volte ti restano addosso, e li porti con te. A volte si prova a portarli via dalle persone che amiamo, come io desideravo liberare Victoria dal suo. A volte quando pensi che il ciclone sia passato capisci che ti trovavi proprio nel suo occhio e ti rendi conto che non puoi fare altro che viverlo, sperare che finisca al più presto e che tu sopravviva all'uragano. Non ne sarei uscito illeso e la cosa mi spaventava da morire, ma dovevo viverlo perché l'unico modo per sapere come sarebbe andata a finire era tentare, almeno, di sopravvivere, invece che lasciarmi morire e basta.

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