UNCONDITIONALLY

By wendygoesaway

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L'amore salva, oppure uccide? ⚠️⚠️⚠️ Trigger warning ⚠️⚠️⚠️ Ci sarebbero un'infinità di motivi per cui inser... More

CAPITOLO UNO - silence
CAPITOLO DUE - rebirth
CAPITOLO TRE - tko
CAPITOLO QUATTRO - dawn
CAPITOLO CINQUE - wake up
CAPITOLO SEI - blind
CAPITOLO SETTE - hurricane
CAPITOLO OTTO - wonder
CAPITOLO NOVE - ruthless heart
CAPITOLO DIECI - rondini al guinzaglio
CAPITOLO UNDICI - monster
CAPITOLO DODICI - fra mille baci di addio
CAPITOLO TREDICI - only for the brave
CAPITOLO QUATTORDICI.1 - stand tall
CAPITOLO QUATTORDICI.2 - stand tall
CAPITOLO QUINDICI - point break
CAPITOLO SEDICI - ghost riders
CAPITOLO DICIASSETTE - fiori di Chernobyl
CAPITOLO DICIOTTO - treading water
CAPITOLO DICIANNOVE - farfalla d'acciaio
CAPITOLO VENTI - city of fallen angels
CAPITOLO VENTUNO - paper moon
CAPITOLO VENTIDUE - l'arte di essere fragili
CAPITOLO VENTITRE - if the world was ending
CAPITOLO VENTIQUATTRO - ENDGAME.
CAPITOLO VENTICINQUE - a forma di origami
CAPITOLO VENTISEI - angels and demons
CAPITOLO VENTISETTE - under my skin.
CAPITOLO VENTOTTO - till the last breath
CAPITOLO VENTINOVE (prima parte) - piccola stella senza cielo
CAPITOLO VENTINOVE (seconda parte) - piccola stella senza cielo
CAPITOLO TRENTA - loner
for you
CAPITOLO TRENTADUE - la di die
CAPITOLO TRENTATRE - sweet lullaby
CAPITOLO TRENTAQUATTRO - TELL ME ABOUT TOMORROW
CAPITOLO TRENTACINQUE - YA'ABURNEE
CAPITOLO TRENTASEI - NEW MOON
!!!
EPILOGO - BANYAN TREE
GRAZIE

CAPITOLO TRENTUNO - interlude

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By wendygoesaway

"Everyone you meet is fighting a battle you know nothing about. Be kind. Always."

Ci tengo a ricordarvi che qualsiasi sia la vostra battaglia, non dovete per forza affrontarla da soli. Se avete bisogno di parlare con qualcuno potete tranquillamente scrivermi in privato, vi ascolto sempre. <3

vi lascio qui sotto dei numeri verdi da contattare nel caso sentiste di non farcela. sappiate che vi rialzerete, c'è sempre una luce che vi guida, sempre.

TELEFONO AMICO: 02 2327 2327
TELEFONO AZZURRO: 1969
NUMERO PREVENZIONE SUICIDIO: 800 334 343
NUMERO PREVENZIONE DISTURBI ALIMENTARI: 800 180 969
NUMERO VIOLENZA DOMESTICA: 1522
SUPPORTO PSICOLOGICO: 800 833 833
SUPPORTO PSICHIATRICO: 800 274 274
TELEFONO ROSA: 06 375 18282
SUPPORTO PER AUTISMO: 800 031 819

-> spazio autrice: ancora una volta scusate il ritardo.
spero vi piaccia lo stesso.
vi voglio bene
ila
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CAPITOLO TRENTUNO - interlude

Erano stati giorni e mesi difficilissimi.
Avevo creduto di aver perso tutto nel momento esatto in cui lei aveva chiuso gli occhi tre le mie braccia. Dal momento in cui Sam aveva seguito il protocollo del primo soccorso in attesa dell'ambulanza, con il mio aiuto, fino al suo risveglio qualche ora dopo, per niente contenta di avere aperto gli occhi e convinta al cento per cento che morire fosse la cosa più giusta da fare per non essere di peso a nessuno di noi, io mi ero sentito come se si fosse aperto uno squarcio nel mio petto e ogni suo sguardo, ogni sua singola parola così colma di dolore e così tormentata dal desiderio di non essere più lì con noi, lo allargava sempre di più.
Poi aveva deciso di farsi aiutare, di entrare in quel centro psichiatrico in cui probabilmente avrebbero potuto fare ciò che nessuno di noi poteva fare, purtroppo.
Credevo di poter fare molto di più per lei, perché sapevo come si sentiva ma nonostante ciò avevo creduto che il mio amore bastasse a farle capire che vivere ne valeva la pena, ma non era stato così: mi ero sbagliato, non avevo fatto abbastanza. Per quel motivo quando aveva scelto di farsi aiutare ed entrare in quel centro ero stato d'accordo fin da subito: come aveva detto mio fratello, quei posti ti cambiano la vita. Victoria era quel tipo di persona che aveva bisogno di bruciare per risorgere, come una fenice. Forse l'aver toccato il fondo in quel modo, le sedute che seguiva costantemente, il programma duro e faticoso che facevano lì dentro le avevano fatto capire quanto fossero preziosi tutti i momenti che viveva con le persone che amava, quanto preziosa ed effimera fosse la vita, perché da quando le terapie avevano iniziato a funzionare nei suoi occhi vedevo di nuovo la guerriera che avevo sempre creduto che fosse, fin dal primo giorno in cui l'avevo incontrata. Victoria era la persona più forte e fragile che conoscessi e stava risorgendo lentamente come una fenice, ero molto fiero di lei e di poterle stare accanto in un momento come quello.

Era passato da qualche giorno San Valentino, da qualche giorno era stato l'anniversario della morte del padre e della sparatoria. Non sapevo come mi sarei dovuto sentire a riguardo, sapevo soltanto che erano settimane che le mie nocche si squarciavano contro il sacco da box, anche in piena notte, e che non mi andava di parlare con nessuno. Mi chiedevano come stessi, come mi sentissi, cosa ci fosse che non andava e se potessero fare qualcosa per aiutarmi, ma la verità era che nessuno poteva farlo. Non mi potevano aiutare nemmeno i miei fratelli, non dal momento in cui nemmeno io sapevo cosa mi stesse accadendo. Non mi sentivo bene, avevo un costante senso di ansia, dormivo poco o niente, ero sveglio dalle quattro del mattino quasi ogni giorno e cercavo di occupare il tempo stando con i miei fratelli, con i ragazzi o con Victoria, mentre nel frattempo tutti si aspettavano qualcosa da me. Tutte quelle aspettative su di me mi mettevano profondamente a disagio, si aspettavano che facessi o dicessi qualcosa, che parlassi, che prendessi in mano la situazione in modi differenti, ma non ci riuscivo: avevo bisogno di tempo. Tutte le domande mi davano fastidio, tutta l'apprensione per il fatto che si fossero resi conto che non stavo bene mi dava fastidio. Sapevo di essere una persona molto difficile, sapevo che in momenti come quello era complicato starmi accanto per un'infinità di motivi, ma chiedevo solo un po' di comprensione. Non avevo bisogno di sentirmi ripetere quanto fossi scontroso, quanto il mio atteggiamento rendesse il tutto più difficile ancora e quanto in momenti come quello potessi essere la persona peggiore esistente sulla terra. Avevo bisogno di capire cosa mi stesse succedendo, capire come comportarmi, cosa fare con il loop infernale che c'era nella mia testa e dover valutare ogni singola cosa che dicevo o facevo mi faceva solo sentire peggio. La paranoia era una presenza costante nella mia testa, così come l'ansia e le grinfie del panico, gli incubi, la sparatoria e Victoria che moriva tra le mie braccia: era come se mi fosse stato dedicato un girone all'inferno, come se Lucifero avesse scelto la sua tortura e si stesse divertendo. Era esilarante il fatto che mentre lei stava bene, io continuavo a fare passi indietro. Lei un passo avanti e io tre indietro, costantemente. Non mi andava di parlargliene, non me la sentivo: non era tanto per il fatto che non mi fidassi di lei o volessi tenerle nascoste le cose, ma pensavo più a quanto stesse lavorando su stessa e quanto fosse faticoso farlo, soprattutto nella sua situazione, perciò avevo scelto di aspettare a parlargliene, di farlo più avanti e accertarmi che stesse davvero bene per non darle altro a cui pensare e altre preoccupazioni, dato che comunque sapevo che se le avessi detto cosa mi stava succedendo l'avrei fatta di certo andare nel pallone e in ansia. Parlavo con mio fratello Ryan, a dire la verità, quando vedeva che non riuscivo a dormire rimaneva con me e passavamo il tempo a guardare serie tv nonostante fosse notte fonda, qualcosa che potesse distarci, oppure a prendere a pugni il sacco da box. A volte scendevamo in giardino, guardavamo le stelle, e magari immaginavamo di fare viaggi ovunque, una volta finito tutto. Quando eravamo bambini avevamo fatto una lista dei posti in cui ci sarebbe piaciuto andare e sognavamo di girare tutti gli angoli del mondo insieme: speravo ancora in cuor mio di poterlo fare.

- Benjamin - La voce di mio fratello Arthur mi fece sobbalzare, tanto che fui costretto a chiudere gli occhi e posare una mano sul petto a causa dello spavento. - Puoi smetterla di torturare le tue nocche su quel sacco da box, per gentil cortesia? - Domandò entrando nella stanza e sedendosi sulla scrivania.

Corrugai le sopracciglia nel momento esatto in cui incrociai il suo sguardo: aveva qualcosa di strano. Sembrava che mancasse qualcosa, ma non riuscivo a capire bene che cosa. Mentre lo osservavo, scioglievo le fasce bianche dalle mani, arricciando il naso a causa del dolore dei tagli aperti sulle nocche, e mi asciugai subito dopo il sudore dalla fronte. Mi stavo allenando con il mio sacco, come ogni mattina, sorseggiando bevande energetiche e sperando che sfogare le emozioni represse in quel modo potesse essere d'aiuto. - Dove sono finite le tue cuffie? - Chiesi scrutandolo attentamente.

- Per oggi non le voglio portare - M'informò con aria seria. I suoi occhi chiari erano fissi nei miei, come se stesse cercando di capire qualcosa leggendo all'interno delle mie pupille. Arthur era un tipo così sveglio che talvolta mi dimenticavo con chi avessi a che fare: per lui certe cose erano così ovvie, mentre altri non le notavano nemmeno. - Devo stimolare il mio ippocampo cerebrale. -

- Ma che diavolo stai dicendo? Per quale motivo dovresti farlo senza avere le tue cuffie? - Lanciai le fasce sul letto e presi posto sul bordo, sfregandomi il viso con l'asciugamano e osservandolo in attesa di risposte proprio perché mi aveva incuriosito.

- Sono venuto a chiederti di scendere al piano di sotto perché devo parlare con te, mamma e papà. - Sospirò lui incrociando le braccia al petto. - Se avessi voluto fare un'intervista te lo avrei detto, smettila di fare domande. -

- Ma se te ne ho fatte due - Mi lamentai alzandomi nuovamente e scuotendo il capo. - Che tipo che sei, ti ho solo chiesto perché non hai le cuffie e tu mi hai risposto parlando di anatomia cerebrale - Esclamai alzando le braccia.

- Tempo al tempo Woods - Rispose indicandomi. - Ora muoviti e scendi, devo darti dei compiti. - Una volta sulla soglia della porta si voltò ad osservarmi nuovamente, tappandosi il naso e facendo un'espressione disgustata. - E lavati prima di vedere Vic: tu puzzi di cane bagnato. - Detto ciò lasciò la mia stanza e sbatté la porta lasciandomi solo e sbigottito mentre ripensavo sempre di più, ogni volta che mi parlava, a quanto mi facesse sentire uno stupido: non avrei mai dimenticato quel giorno in cui, durante un litigio, aveva affermato che fra i due quello autistico ero io. Non mi ero nemmeno offeso, a dire la verità, alla fine era divertente bisticciare con lui, mi faceva sentire a casa, in famiglia.

Scesi al piano di sotto dopo essermi dato una sciacquata veloce, scuotendo i ricci nell'asciugamano e lanciandomi sul divano arrotolando la salvietta attorno al collo, proprio mentre mio fratello sistemava una lavagna bianca al centro della stanza ed Elizabeth e Leonard si sedevano al mio fianco accompagnati da una tazza di tè e dei biscotti secchi.

- Buongiorno tesoro, come hai dormito? - Domandò Elizabeth dandomi un bacio sulla guancia e sistemandomi i ricci ribelli con un tenero sorriso.

- Ciao mamma - Risposi. - Non ho dormito granché, ma andrà meglio, credo - Sospirai e mi sfregai le palpebre con i palmi delle mani, mi stampai un sorriso in faccia e sollevai la mano per battere il cinque a Leonard, che mi fece l'occhiolino e sollevò la tazza di tè come se stesse brindando in mio onore.

- Figliolo ricordati che se sentissi di avere bisogno di parlare con qualcuno di esperto, qualcuno che ti possa aiutare, noi siamo sempre dalla tua parte - Mi disse il mio patrigno osservandomi con aria seria e decisa. - Voglio che tu sappia che noi ci rendiamo conto di ciò che hai passato e stai passando, quindi ricordati che di qualsiasi cosa tu avessi bisogno puoi parlare con noi. Non è un obbligo e non ti vogliamo assolutamente forzare a farlo, ci teniamo solo a ricordartelo -

Sorrisi, cercando di deglutire il nodo che avevo in gola e respingere le lacrime facendo un respiro profondo, annuii e alzai lo sguardo su di loro, le persone che mi avevano dato un tetto, una casa, una famiglia pur sapendo quando fossi difficile come persona e quanto si fosse sgretolata la mia vita. Mi stavano dando il mondo, nonostante fossi un disastro, e non avrei mai dimenticato ciò che avevano fatto e stavano facendo ancora per me. - Grazie - Dissi loro, stringendo la mano di Elizabeth e chiudendo gli occhi provando a nascondere quel lato debole e spaventato del mio carattere che stava uscendo in quel periodo. - Dal profondo del mio cuore. -

Sentii Arthur applaudire e richiamare il silenzio improvvisamente, tanto che mi lasciai sfuggire una risatina e scossi il capo osservandolo dalla testa ai piedi. - Si bene, Benjamin sei un Woods e fai parte della famiglia, già lo sai, che altro dire? Sei mio fratello per scelta - Esclamò puntando il pennarello al cielo. - Si ok, bene, tutto molto bello ed entusiasmante oltre che commovente, ti voglio bene ma ora stai zitto perché Arthur Woods deve parlare. -

Elizabeth scoppiò a ridere e posò la tazza di tè posandosi le mani sul viso e scuotendo il capo, soprattutto quando Arthur cominciò a puntellare il pennarello sulla lavagna e squadrare tutti e tre. - Bene ora che siete finalmente zitti e non rompete le palle come al solito, posso darvi la bella notizia - Esordì sospirando e mettendosi a scrivere sulla lavagna. - Quest'estate, dopo la sessione di esami, me ne vado in Thailandia - Esclamò con un bellissimo sorriso e mettendo le mani a mo' di preghiera.

- In Thailandia? - Elizabeth alzò le sopracciglia e lo fissò come se avesse appena detto che desiderava farsi prete.

- A fare cosa in Thailandia scusa? - Domandò invece Leonard.

- A vendere banane e coltivare papaveri da oppio per produrre un nuovo tipo di droga - Affermò battendo le palpebre. - Papà ma sei caduto da piccolo per caso? - Cercai di fare di tutto per trattenere la risata, ma fu impossibile farlo quando nella mia mente apparì un'immagine di Arthur che coltivava papaveri e spacciava cocaina. - E tu che diavolo ridi? Ho per caso la faccia di uno che scherza? -

Alzai le braccia in segno di resa e mi grattai il mento arrendendomi e lasciandolo fare: quando si metteva in testa una cosa era impossibile fargli cambiare idea. - E noi cosa dovremmo fare a riguardo? Sei qui a chiederci il permesso? - Domandai sollevando le sopracciglia.

- Ma mi hai visto in faccia? - Chiese indicandomi con il pennarello. - Ti sembra che io possa convocarti per chiederti il permesso di andare in Thailandia? Di sicuro non mi serve che tu mi dica di sì, disgraziato - Tuonò di rimando.

- Che belli i brunch in famiglia. - Intervenne Leonard. - A proposito, tuo fratello dove sta? - Chiese rivolgendosi a me.

- Con Gabriel e il padre di Kat, da ieri sera- Risposi. - Avevano da sbrigare delle questioni sul locale, per la questione di Katherine, l'FBI sta cercando di farlo chiudere da mesi, spero che ci riescano. Dopo provo a chiamarlo - Li informai con un sospiro. - Sapere che quei due siano ancora a piede libero mi fa imbestialire -

- E lo credo bene... - Sussurrò Elizabeth.

- Spero che questi stronzi vengano arrestati al più presto e che questa storia finisca, per il bene di tutti noi. Possiamo tornare a noi e parlare di cose più belle, che dite? - Esclamò Arthur esasperato.

- Scusa figliolo, siamo tutt'orecchi - Gli disse suo padre.

- Papà - Scrisse nome e cognome di suo padre sulla lavagnetta e si voltò ad osservarlo. - Tu mi aiuterai a gestire il denaro e risparmiare per partire. Mi serve un lavoro per mettere da parte dei soldi, per cui mi assumerai come tuo assistente e mi pagherai al prezzo che ti dirò io, in questo modo fra esattamente sessantadue giorni avrò i soldi necessari a comprarmi il biglietto areo, nel frattempo cercherò un alloggio e vedrò cosa fare. - Spiegò arricciando il naso.

- Facevi prima a chiedermi il numero della carta di credito - Replicò ridendo. - In pratica il mio compito è pagare e farti da banca - Disse sfarfallando le ciglia.

- Se vuoi proprio metterla così... - Fece spallucce e tornò a darci le spalle. - Mamma - Fece la stessa cosa di qualche istante prima e poi si voltò di nuovo verso di noi. - Tu invece, una volta alla settimana, dovrai cucinare un piatto tipico thailandese. Se voglio farmi là tutta l'estate devo abituarmi al loro cibo, altrimenti non mangio per mesi. Amy dice che sono troppo carino così per dimagrire, non ne vale la pena -

- A me non piace il thailandese - Gli disse Elizabeth. - Dobbiamo proprio? -

- E chi se ne frega? - Sbottò lui alzando le braccia. - Vuoi avere sulla coscienza la morte di tuo figlio perché per colpa tua non mangerà per i prossimi tre mesi lontano da casa? -

- Mi dissocio altamente - Intervenni ridendo e alzandomi per andare ad aprire la porta dato che avevano suonato il campanello.

- Tu dove corri? Stai qui, va papà ad aprire a Victoria e Sam. - M'indicò prima che lasciassi la stanza. - Papà apri la porta. -

Era così dispotico che decisi di obbedire senza batter ciglio, metteva quasi paura. Leonard si alzò e posò la tazza di tè sul tavolo scuotendo il capo ed eseguendo gli ordini esattamente come stavamo facendo io ed Elizabeth. - Perché non state prendendo appunti? Ma ve la date una svegliata tutti quanti oggi? Sono le undici del mattino, il sole è sorto da un pezzo. -

- Ok Hitler - Dissi posando i gomiti sulle ginocchia ed osservandolo con aria di sfida. - Quale sarebbe il mio compito in tutto ciò? Soldi da darti non ne ho, non chiedermeli. -

- È papà la banca - Rispose indicandolo quando entrò seguito da Victoria e Sam.

Vic mi saltò in braccio dopo aver salutato tutti e si accoccolò a me baciandomi la tempia e mandando un bacio volante a mio fratello. Sam, dal canto suo, si mise in piedi a braccia conserte e con la testa piegata di lato, mentre i suoi occhi verdi leggevano la lavagna e le sue sopracciglia s'incurvavano verso il basso, l'espressione confusa. - Che cosa sta succedendo qui? - Domandò incuriosito.

- Arthur sta scrivendo le leggi razziali - Replicai rivolgendogli un'occhiata divertita.

- Stai zitto imbecille - Tuonò lanciandomi il pennarello. - Victoria, per gentil cortesia, puoi chiedere al tuo ragazzo di stare zitto e ascoltarmi? Sto cercando di organizzare la mia vita per i prossimi mesi. -

- Se vuoi lo porto via direttamente e ti lascio Sammy - Gli disse indicando il
suo gemello.

- Ma allora sei stupida pure tu, ho detto che deve ascoltarmi - Si passò le mani sul viso, frustrato ed esasperato. I suoi occhi azzurri cercarono i miei e io, vedendo la sua espressione contenta al pensiero di quello che stava organizzando, tornai serio e indicai sia ai ragazzi che ai miei genitori di rimanere in silenzio qualche istante, mentre lui finiva di parlare. - Ben vorrei che tu mi accompagnassi alla visita medica e psichiatrica - Mi disse guardandomi negli occhi. - Per partire ho bisogno del certificato di approvazione dello psichiatra, che attesti che posso partire da solo a causa del mio disturbo dello spettro autistico, e dal medico vorrei che mi accompagnassi perché sono consapevole che da solo non ci andrei. Ho paura degli aghi e devo fare un prelievo del sangue. - Mi chiede sospirando.

- Certo, basta solo che mi dici quando, ti accompagno volentieri. - Gli sorrisi e alzai la mano mentre lui si avvicinava a battermi il cinque tutto contento.

- Anche a te Vic vorrei chiedere una cosa. - Si rivolse alla sua amica con un timido sorriso.

- Dimmi tutto, farò tutto quello che posso. - Rispose lei stringendo le braccia attorno al mio collo.

Victoria era uscita dal centro psichiatrico da un paio di settimane: il dottor Dustin aveva detto che aveva fatto enormi progressi e che la terapia aveva dato i suoi frutti, tanto che non desiderava più togliersi la vita. Infatti, da quando era ritornata a vivere nel nostro mondo lasciandosi quella prigione alle spalle, sorrideva molto di più e sembrava godersi ogni istante insieme a ognuno di noi. Usciva spesso di casa, frequentava tutti noi e non rimaneva più chiusa nella sua piccola stanza ad affrontare la sua malattia da sola. Non si nascondeva più quando aveva le allucinazioni anzi, attraverso dei piccoli gesti innocenti ci chiedeva aiuto. Prendeva le sue pastiglie senza obiettare e ci mostrava che le aveva prese: insomma collaborava. Piano piano stava cercando di riprendere in mano la sua vita e in cuor mio speravo con ogni cellula del mio corpo che ci riuscisse, perché non c'era persona al mondo che meritasse la pace e il sorriso più di lei.

- Vorrei chiederti se a te e Vanessa andrebbe di fare compagnia ad Amy ogni tanto, per non farla sentire troppo sola. Vorrei che si facesse delle amiche, in fondo ha sempre avuto soltanto me e mi dispiace per questo, mi sento un po' in colpa. È un problema? - Disse Arthur osservandola con gli occhi lucidi e la mano posata sul petto.

Victoria si alzò in piedi e gli andò incontro, posando le mani sulle sue spalle e abbracciandolo forte. - Sarei molto felice di esserle amica - Rispose mentre lui la stringeva a sua volta. - Ti prometto che la inviteremo a uscire con noi il più spesso possibile. Sono sicura che anche ai ragazzi faccia piacere, vero? - Si voltò verso me e Sam, con un sorriso stampato in faccia e battendo le palpebre annuendo.

- Certo - Rispondemmo in coro io e Sam.

Vic accarezzava la guancia di Arthur in maniera dolce e premurosa: il modo in cui si prendeva cura di lui, il modo in cui lo proteggeva come se fosse un fiore di cristallo, mi faceva sorridere dal profondo del mio cuore. Lei e Arthur avevano un rapporto così particolare e speciale, vederli faccia a faccia mentre si guardavano in quel modo in cui avresti detto che avrebbero fatto i salti mortali pur di non lasciar solo l'altro scaldava veramente il cuore. Arthur era il più felice del mondo quando era con Victoria, credevo fosse una delle persone più importanti per lui, tanto che nel periodo in cui era al centro psichiatrico soffriva perché non la poteva vedere e non le poteva parlare come voleva lui. Aveva provato a chiedere a mamma e papà se potesse venire con me a trovarla ma, giustamente, loro avevano detto che non era il caso e non volevano avesse una crisi facendo sentire male anche Victoria. Quando era uscita dal centro la settimana precedente, lui era venuto a trovarla a casa insieme a me proprio il giorno stesso, e l'aveva abbracciata così forte che avevo creduto le stesse rompendo le costole. Victoria era stata felice di vederlo, di abbracciarlo e scompigliargli i capelli come aveva sempre fatto, tanto che passarono ore a ridere insieme e guardare film, analizzando ogni cosa proprio come le aveva insegnato lui. Vic provava a entrare nel piccolo mondo di mio fratello, tentava di comprenderlo e amarlo, così come lui faceva con lei. Erano due frammenti di cieli entrambi, così belli da togliere il respiro.

- Vorrei chiedervi un'ultima cosa - Esclamò all'improvviso mio fratello osservando sia me, che Victoria, che Sam. - Ho bisogno del vostro aiuto per poter condurre una vita il più normale possibile. -

- Che intendi dire? - Domandò Sam arricciando il naso. Se c'era una cosa che lo infastidiva molto era quando lui e Victoria parlavano di loro stessi in quel modo, quando affermavano di non poter condurre una vita come quella di tutti noi, cosa assolutamente non vera, perché loro erano esattamente come noi, solo più speciali. - Arthur tu sai benissimo che per me sei sempre una persona tale e quale a tutti gli altri. Non ti ho mai trattato diversamente, così come non l'ha mai fatto nessuno di noi, perché non hai nulla che non vada e non ti manca niente rispetto a ciò che abbiamo noi. Quindi, per favore, non parlare come se fosse così, perché mi da molto fastidio quando ti sminuisci in questo modo. - Gli disse osservandolo attentamente e a braccia conserte. Lo aveva detto così tante volte, anche a sua sorella, che avevo perso il conto. Persino il fatto che non lo avessero fatto venire a trovare Victoria lo infastidiva, o che non gli lasciassero prendere i mezzi di trasporto da solo per paura che possa avere una crisi senza nessuno di noi presente. Io comprendevo l'apprensione di Leonard ed Elizabeth, però ero anche convinto che forse se avesse avuto un po' più di spazio e un po' più di libertà non avrebbe pensato di essere diverso da noi.

- Non intendevo farlo - Rispose mio fratello. - Voglio solo arrivare a non essere più infastidito dai rumori troppo forti, dalle luci di mille colori che continuano a cambiare e a non avere più paura di uscire da solo. Volevo chiedervi se mi potreste aiutare in questo, così prima di partire riuscirò a non avere sempre al collo le cuffie e potrò visitare la Thailandia senza alcun tipo di problema, anche se magari non ci sarà nessuno con me. -

- Era questo che intendevi quando mi hai detto che vuoi stimolare il tuo ippocampo cerebrale? - Domandai sorridendo e rompendo il mio silenzio avvicinandomi a lui.

Vic mi guardò di sbieco e accarezzò il mio braccio finché la sua mano non si intrecciò alla mia, dandomi i brividi. Mi era mancato averla intorno in quel modo: la guardavo e sentivo il cuore impazzire quando mi rendevo conto che potevo di nuovo abbracciata quando volevo senza essere costretto a fare un'ora e mezza di auto solo per vederla un paio di ore in mezzo ad altre persone.

Arthur fece scorrere lo sguardo dai miei occhi alle nostre mani intrecciate, sorrise e piegò la testa di lato. - Sì, intendevo proprio questo. - Rispose. - E vorrei anche che tu cercassi di tirarti su e stare bene Ben, per favore. Voglio partire sapendo che un po' di quel peso che porti sulle spalle si sia alleviato, perché più passa il tempo più ti vedo fare passi indietro, invece che farne avanti. Prenditi cura di te, questo è il tuo compito, ti prego. -

Cercai di trattenere le lacrime con tutte le mie forze, soprattutto quando mi accorsi che mi stavano guardando tutti. Erano situazioni che mi mettevano terribilmente a disagio quelle: ero consapevole che lo dicesse perché teneva a me, ma non mi piaceva avere tutti gli occhi puntati addosso, soprattutto per quelle ragioni. - Sì - Replicai distogliendo lo sguardo. - Però smettetela di guardarmi in questo modo, sto bene, basta per favore - Dissi sciogliendo la mano da quella della mia ragazza e facendo un passo indietro infilandomi le mani fra i ricci.

- Posso chiedervi di lasciarmi un po' da sola con Benjamin? - Domandò Victoria osservando i miei genitori, mio fratello ed il suo.

- Certo - Rispose Leonard. - Se aveste bisogno di qualcosa non esitate a chiamare. Dovete uscire? - Chiese osservandola.

- No, non adesso- Intervenni io guardandolo di sbieco. - Più tardi, verso l'ora di pranzo - Circondai il collo di Victoria con un braccio e le baciai la testa, mentre lei si strinse nelle spalle chiudendo gli occhi e godendosi il contatto. - Vieni amore mio, saliamo a vedere un film, ti va? -

Abbassai gli occhi per incrociare i suoi e mi accorsi che lei mi stava già osservando, con quei suoi occhi grandi come il mondo e brillanti come stelle. Lei annuì, sorridendo e stringendo le braccia attorno al mio torace, perciò le presi la mano e m'incamminai al piano di sopra seguito da lei e dal rumore dei suoi passi.

Una volta saliti al piano di sopra, chiusi la porta dandole le spalle e posando la fronte sulla freddo legno. La sentii avvicinarsi a me, finché posò la testa sulla mia spalla e mi accarezzò la schiena intrecciando le braccia in modo che potessi stringerle la mano e chiudere gli occhi baciandole il dorso. - Dimmi la verità - Sussurrò stringendo la presa nella mia mano. - Cosa ti sta succedendo? -

- Nulla - Le risposi voltandomi verso di lei per guardarla negli occhi, attirandola a me e sorridendo. L'abbracciai forte, perché quando non avevo potuto farlo sentivo come se mancasse una parte di me, quella migliore, la mia metà speciale. - Nulla di importante. Sto bene, qui con te -

- Non è vero - Disse allontanandosi e sbuffando. - Smettila di mentire, tu non stai bene Benjamin. Ma perché non vuoi ammetterlo, perché non lasci che ti aiuti, perché continui a scappare in questo modo? -

Avevo stretto i pugni, deglutendo il groppo che avevo in gola che continuava a stringere, che minacciava di soffocarmi da giorni. Chiusi gli occhi proprio quando li sentii pizzicare per la voglia di piangere che sentivo nel petto, ma continuavo ad evitare di farlo. - Non sto scappando - Sussurrai a denti stretti. - Sto solo provando a non crollare, non posso farlo adesso, non è il momento. -

- Non lo puoi decidere tu quando è il momento Ben - Replicò Victoria. I suoi occhi azzurri mi scrutavano intensamente, analizzandomi e sperando di vedere un segno, nei miei di occhi, che potesse dimostrarle che non mi stessi arrendendo. - Se continui così, se continui a non lasciarti andare, farai solo in modo che sia ancora più doloroso. Lasciati aiutare, per favore. Non c'è bisogno che tu mi dica tutto quello che ti passa per la testa, voglio solo sedermi accanto a te, tenerti la mano ed essere pronta a sorreggerti se e quando cadrai. Ti amo Ben e non voglio lasciarti da solo, ho bisogno di starti vicino, esattamente come tu dici sempre a me. Rischiamo tutto insieme: ti prometto che finché ci guarderemo le spalle a vicenda, non dovremo più scappare. -

Rimasi in silenzio qualche istante, guardandola mentre le sue iridi brillavano come pietre preziose: il mio cuore scandiva intensi battiti, tanto forti da sentirne il rumore nelle orecchie. Sentivo l'amore per lei circolare nelle vene, ogni mia cellula voleva urlarle quanto l'amavo, ma invece che dirlo a voce alta chiusi gli occhi, mi passai le dita fra i capelli e, dopo un profondo respiro, mi morsi il labbro e le scoccai un'occhiata. Aveva la testa piegata di lato, il labbro le tremava, così come tremavano le sue mani e i suoi occhi per le lacrime che stava trattenendo. - Vaffanculo - Sussurrai.

Misi una mano dietro al suo collo e l'attirai a me baciandola intensamente, come se fosse la prima volta. Victoria inspirò di scatto, sorpresa dal mio gesto, ma non ci mise molto a ricambiare il bacio e alzarsi in punta di piedi, per fare aderire i nostri corpi uno all'altro, farli combaciare come pezzi di puzzle.

Feci qualche passo avanti, mentre Victoria indietreggiava lentamente fino a sdraiarsi sul letto e sorridere sulle mie labbra, mentre mi baciava e mi accarezzava, mentre si godeva le mie carezze e mentre i nostri respiri si mescolavano. A volte avevo la sensazione che il mio cuore battesse all'unisono con il suo, proprio come in quel momento. Credevo fossimo una sola persona, l'uno la metà dell'altra. Sapevo perfettamente che non potevo vivere senza la mia metà, ma andava bene così, non volevo nemmeno pensare di vivere senza quei nostri momenti, gli attimi in cui volavamo tre metri sopra il cielo, dove non contava assolutamente nulla al di fuori di noi due.
Intrecciai la mia mano alla sua, la mia vita alla sua, spogliandomi di ogni cosa e indossando soltanto il nostro amore, l'unica cosa che mi dava davvero pace. Non avevo paura, con lei al mio fianco, non pensavo a quanto schifo facessero le nostre vite, a quanto il destino si fosse preso gioco di noi, ma pensavo al fatto che nonostante tutto, nonostante fossimo due disastri, la vita ci aveva fatto un regalo facendoci incontrare e mi aveva dato una ragione per lottare e andare avanti. Lei era il mio punto fermo, il raggio di sole che era riuscito a fare il suo ingresso in una stanza buia, regalandomi la speranza e dimostrandomi che c'era sempre una luce, sempre.


- Devo farti vedere una cosa - Esordii mentre io e Victoria passeggiavamo per la città mangiando uno yogurt dopo il pranzo. Alla fine eravamo usciti e mi aveva costretto a portarla a mangiare il sushi, che io detestavo. Andavo con lei soltanto perché ai ristoranti asiatici c'era una varietà infinita di pesce, disponibile in ogni modo, quindi lei mangiava sushi e io mangiavo il resto. Mi lanciò un'occhiata curiosa, nascondendo un timido sorriso mordicchiando la palettina di plastica. Estrassi dalla tasca un foglio sgualcito, spiegazzato e scarabocchiato numerose volte, glielo porsi e sospirai, distogliendo lo sguardo e mettendo le mani in tasca dopo aver lanciato la coppetta di yogurt vuota nel cestino della spazzatura.

- Cos'è?  - Sussurrò leggendo e girando svariate volte il foglio, tornando poi a guardarmi negli occhi.

-Credo una canzone - Spiegai incrociando le braccia al petto. - L'ho trovata in camera di mio fratello, mentre gli davo una sistemata. Era accartocciata sulla scrivania. Hai letto in fondo? -

Victoria distolse lo sguardo da me e lo posò di nuovo sul foglio, sospirando e massaggiandosi le palpebre. - Per Kat -  Deglutì rumorosamente e, pensai, a causa del groppo doloroso in gola. - Non è finita - Disse poi guardandomi di sottecchi.

- Lo so, per questo non l'ho buttata. Voglio finirla io e poi ridargliela. Ti va di aiutarmi? - Domandai sorridendo leggermente e accendendo una sigaretta.

- Ma è arrangiata con la chitarra, vuoi continuare con quella? - Chiese di rimando. - Partiamo magari dandole un titolo visto che non ce l'ha. Guarda qui, questa frase la ripete in entrambi i ritornelli, potrebbe essere questo il titolo -

Sorrisi baciandole la testa e annuii, mentre lo squillo del mio cellulare interruppe la nostra conversazione. - Ciao Arthur, dimmi - Risposi a mio fratello prendendo Victoria per mano e corrugando le sopracciglia quando lo sentii agitato.

- Ho trovato un biglietto anonimo indirizzato a te, vieni subito a casa - Mi disse nervosamente. - Corri qui Ben, velocemente-

- Arriviamo - Chiusi la chiamata e tirai fuori le chiavi della macchina, strinsi più forte la mano di Victoria, la guardai negli occhi e lessi la confusione sul suo viso. - Dobbiamo tornare a casa subito, in macchina ti spiego tutto - Tagliai corto mentre, distogliendo lo sguardo e con il cuore che batteva a mille, corsi mano nella mano con lei raggiungendo la macchina e sgommando a tutta velocità verso casa mia.

Arthur ci accolse con gli occhi fuori dalle orbite, con l'espressione confusa e tirandosi le ciocche di capelli dietro la nuca, respirando affannosamente. Non appena ci vide, nel suo sguardo riuscii a leggerci un po' di sollievo, nonostante fosse spaventato. Si morsicchiava il labbro inferiore e, una volta raggiunto la cucina, fece scorrere il biglietto sul tavolo allungandolo verso di me e lanciando un'occhiata a entrambi. Mi sembrò di essere tornato indietro nel tempo, di almeno un anno, a quando Paul si divertiva a giocare con sua figlia facendo impazzire lei e tutti quanti noi. - Non so cosa ci sia scritto - Esordì un po' nel panico continuando a far scorrere lo sguardo da me a Victoria. - Scusatemi non vi volevo disturbare, ma mi sembrava urgente -

- Tranquillo Arthur - Gli disse Victoria prendendolo per mano. - Hai fatto bene a chiamare Benjamin. -

- Ve la siete cercata - Sussurrai dopo aver scartato la busta e arricciato il naso. - Ma che diavolo vuol dire? -

- Non lo so - Rispose Victoria sospirando e sfregandosi gli occhi con le dita. Era turbata, così come lo eravamo tutti. Cercava in ogni modo di calmare Arthur che, nel frattempo, si era nascosto sotto al tavolo della cucina, accovacciato in se stesso, chiuso a chiocciola, con le sue cuffie che coprivano le orecchie e ciondolando avanti e indietro respirando affannosamente. - Chiama Gabriel o tuo fratello. Sarebbe meglio Gabriel, dato che è un agente - Disse inginocchiandosi a terra per aiutare mio fratello mentre io estraevo il telefono dalla tasca.

- Non serve - Sussurrò Arthur alzando la testa. - Li ho già chiamati io, stanno arrivando, sarà questione di minuti. -

Vedendolo in quello stato, posai il telefono sul tavolo e chiusi tutte le porte finestre e le ante con il chiavistello, lasciai le luci spente e accesi una candela in cucina perché sapevo che l'unica cosa che poteva aiutarlo a rilassarsi era il buio e l'unica luce che non lo turbava mai era la fiamma della candela.

Ero sempre più agitato, più innervosito, l'ansia mi mangiava vivo e stavo per esplodere come una bomba a orologeria. Cominciai a camminare avanti e indietro per la stanza mangiandomi le unghie e attendendo mio fratello e Gabriel con ansia, mentre nel frattempo mi occupavo di Arthur che, dal canto suo, si teneva ancora la testa fra le mani preso da una crisi. Victoria stava cercando di mediare alla situazione in ogni modo possibile, ma vedevo quanto stesse vacillando e quanto, purtroppo, temesse di cedere in una situazione di quel tipo.

Sentii la serratura della porta scattare e subito dopo Ryan entrò in casa seguito da Gabriel, che si guardava attorno arricciando il naso e infilandosi le dita fra i suoi capelli biondi. - Come diavolo fate a sapere che abbiamo chiuso il locale? Non abbiamo ancora fatto divulgare la notizia -

Esordì il biondo scrutandomi attentamente. Mi voltai di scatto ad osservarlo, assottigliando gli occhi ad una fessura e roteandoli poi al cielo mandandolo al diavolo. - Di che cosa stai parlando? - Domandai fissandolo dopo aver lanciato un'occhiata a Victoria che, nel frattempo, si era alzata in piedi e mi stava fiancheggiando.

- Avete chiuso il locale? Quello della notte di Halloween? - mi strinse il braccio, gli occhi fuori dalle orbite e lo sguardo fisso su mio fratello e Gabriel.

- Sì, ci siamo riusciti - Intervenne Ryan a quel punto.

- Ci siamo? - Domandai sollevando le sopracciglia osservandolo di sbieco, con sguardo torvo e soprattutto sorpreso. Cominciai a far roteare l'anello di famiglia nervosamente, mentre mio fratello si scambiò un'occhiata con Gabriel, il quale allargò il braccio e annuì con la testa, come se gli stesse dando il consenso di fare ciò che voleva.

Victoria porse il biglietto al biondo, il quale arricciò il naso e se lo sfregò con il dorso della mano, si passò le mani sul viso premendo sugli occhi e poi incrociò lo sguardo di Victoria, la quale era immobile a fissarlo in attesa di qualche sua parola che potesse essere in qualche modo confortante.

- Benjamin - Mi disse mio fratello richiamando la mia attenzione prendendomi per il polso. - Sei sicuro di sentirti bene? -

Alzai gli occhi al cielo e scossi il capo capo  in preda alla frustrazione: me lo avevano già chiesto mille volte da quando mi ero svegliato, non ce la facevo più. - Non lo so, Ryan. Non lo so se mi sento bene, non so un cazzo. Ma è quello che dovrei dire, giusto? Dovrei dire che sto benissimo e tiro avanti, perché qui tutti si aspettano che io per eliminare la preoccupazione dica questo. Perciò sì, fratello, sto benissimo, guardami, salto di gioia. - Sbottai dandogli le spalle e aprendo lo sportello della dispensa per bere un bicchiere di whisky.

- Non posso vederti così. - Ryan si avvicinò lentamente, con cautela, come se temesse che io stessi per esplodere. - Lo sai che se hai bisogno di parlare io sono sempre qui, sono tuo fratello, farei qualsiasi per te -

- Parlare? - Domandai voltandomi ad osservarlo. - E di cosa? Dei miei incubi? Del fatto che sogno costantemente la notte in cui mi hanno sparato e sono quasi morto? Della mia ragazza che ha tentato il suicidio e il fatto che io non abbia fatto nulla per impedirlo? Di una delle mie migliori amiche che è morta? Della mamma che ha sposato un pazzo psicopatico trafficante di prostitute, oltre che di droga? - Sorrisi e bevvi, tutto d'un fiato, l'alcol contenuto nel bicchiere, sbattendolo poi sul tavolo e fissandolo, richiamando naturalmente l'attenzione di tutti. - Sai di cosa voglio parlare piuttosto? Di quello che non mi stai dicendo da quando sei arrivato in città, a Stratford, un anno fa. Come ci sei arrivato? Perché sei uscito prima di prigione? Vuota il sacco, credo sia arrivato il momento, vista la minaccia che incorre -

- Quale minaccia? - Chiese spalancando gli occhi. - Ti hanno minacciato? -

- Così si dice - Esclamai teatralmente avvicinandomi a Gabriel, Victoria e mio fratello, che stavano parlando attorno al tavolo, ma erano stati distratti dal fatto che avevo fatto rumore e avevo alzato il volume della voce. Strappai il biglietto dalle mani di Gabriel, che brontolò tirando fuori il cellulare e facendo cenno a Ryan di parlare senza problemi.

Porsi il biglietto a mio fratello e attesi, in silenzio, qualche reazione da parte sua che potesse in qualche modo tranquillizzarmi, ci speravo in realtà. Ryan sospirò sedendosi sulla sedia e alzando gli occhi su di me, per poi posare il foglio sul tavolo e guardare prima Victoria, poi Arthur e, infine, me. - Sono uscito prima di prigione perché ho accettato di patteggiare. - Spiegò guardandomi dritto negli occhi. - Sapevo esattamente dove trovarti perché me lo ha detto Gabriel, hanno usato i database. Sarei dovuto entrare nel programma protezione testimoni, ma non potevo farlo perché dovevo venire da te e tenerti al sicuro e all'oscuro da tutta questa merda. -

- Perché nel programma protezione testimoni? - Intervenne Arthur rigirandosi tra i pollici, nervosamente, degli elastici anti stress. - Il programma protezione testimoni non è quello che ti da una nuova identità? -

Ryan annuì silenziosamente e tornò ad osservarmi. - Non ho potuto perché dovevo fare in modo che non arrivassero a te. Ho patteggiato con la polizia e ho fatto tutti i nomi che conoscevo, delle persone che collaboravano con Vincent. Ero a conoscenza di qualcosa e tutto ciò che sapevo l'ho detto a loro. In seguito a ciò ho ricevuto delle minacce, l'ho detto a Gabriel e lui mi ha proposto di entrare PPT, ma l'ho rifiutato perché se avessi accettato non sarei potuto venire qui da te e tenerti sotto controllo, fare in modo che tu fossi sempre al sicuro diciamo. Avevano minacciato di ucciderti se avessi parlato già da prima e dal momento che io avevo ugualmente raccontato tutto avevo estremamente bisogno di sapere che ti trovassi al sicuro e che stessi bene. Non potevo dirtelo prima, dovevo tenerti all'oscuro il più a lungo possibile, ma abbiamo fallito e ormai devi sapere ogni cosa. Non ho mai ripreso a spacciare Ben, anche quando Victoria mi ha visto in quel vicolo io ero con Gabriel e gli stavo comunicando ciò che avevo scoperto sui fornitori della droga al locale di Vincent. -

- Tu hai collaborato con la polizia e con l'FBI per tutto questo tempo? - Chiesi sconvolto e sfregandomi il viso. Mi girava la testa, perciò presi di nuovo il bicchiere e ci versai una generosa quantità di alcol, scolandolo tutto d'un fiato. - Stavi aiutando Gabriel e hai preferito che io credessi che fossi tornato ad aiutare Vincent? -

- Potevi credere a qualunque cosa tu volessi, ma non poteva dirti ciò che stava succedendo in realtà, saresti stato troppo esposto, e in automatico lo sarebbe stata Victoria, così come Arthur, Elizabeth, Leonard e tutte le persone che ti girano attorno. - Fu Gabriel a parlare a quel punto. - Devi sapere che Vincent non è chi credete che sia. Non si chiama Vincent Turner, ma Luka Gatta: è un mafioso italo-americano che la polizia e i servizi segreti cercano di arrestare da anni. -

- La mafia? - Esclamò Arthur sconvolto. - Stai scherzando? -

A quel punto scoppiai in una fragorosa risata, interrompendo tutti, molto molto isterica a dire la verità, e alzai le braccia in segno di resa scuotendo la testa. - No io non ce la faccio - Esclamai guardando Ryan e poi Gabriel. - Non posso farcela: tutto questo è troppo. -

Detto ciò feci qualche passo indietro, afferrai le chiavi della macchina e corsi fuori dalla porta.

- Benjamin! - Victoria mi chiamava in continuazione, con disperazione, e prima di chiudere il cancello mi voltai ad osservarla con le lacrime agli occhi, perché stavo scoppiando, perché mi sentivo come il vaso di pandora. - Ben fermati, aspettami, portami con te -

Quando fu abbastanza vicina, corse fuori da casa raggiungendosi sul marciapiede e facendo sbattere il cancello, poi posò la fronte sulla mia e chiusi gli occhi mentre lei mi asciugava le lacrime e mi baciava il viso in ogni angolo, cercando di tranquillizzarmi. Sfiorai le sue labbra con le mie, sentendomi come un gatto che faceva le fusa perché nonostante il pessimo momento ed il modo in cui mi sentivo desideravo profondamente rimanere da solo con Victoria e stringerla fino a scomparire fra le sue braccia. - Dimmi che andrà tutto bene, ti prego - Sussurrai mentre lei mi arricciava i miei capelli con delicatezza mentre mi abbracciava.

- Non può - Mi allontanai da Victoria improvvisamente per guardare di chi fosse quella voce e di chi si trattasse ma in quel momento mi crollò il mondo addosso perché nell'istante in cui lo feci sentii la canna della pistola puntata alla mia testa e quando, purtroppo, aprii gli occhi, notai Victoria nella stessa identica situazione, con una mano non sua sulle labbra, le lacrime di disperazione a bagnarle il viso. Si stava dimenando, probabilmente perché l'uomo la stava toccando e l'aveva colta alla sprovvista.

- Lasciatela andare, lei non c'entra niente - Cercai di mantenere la calma ma nel momento in cui parlai l'uomo strinse la presa al mio collo e tolse la sicura dalla pistola. Non mi chiuse la bocca con la mano come stava facendo quello che teneva Victoria, semplicemente stringeva, stringeva la presa sempre di più, quasi fino a farmi soffocare.

- Stai zitto e soprattutto non urlare, altrimenti dovrai guardare la tua ragazza morire proprio davanti ai tuoi occhi. -

Guardai Victoria negli occhi, piangendo e chiudendoli tirando su con il naso. Ero così stanco, così senza forze, mi chiedevo semplicemente cosa avessi fatto di male nella mia vita.

Senza dire più nulla, alzai le braccia in segno di resa, abbandonandomi alla loro volontà e allora i due uomini ci strattonarono e spintonato per farci camminare e seguirli, ma quale fosse la destinazione lo sapevano solo loro due.

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