Anime dimenticate.

By SofiaCraia98

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[Completa] Matilde è criptica, solitaria. Esce poco e odia la confusione. Se ne sta spesso a guardare dalla f... More

Aesthetic.
Prologo.
Capitolo 1.
Capitolo 2.
Capitolo 3.
Capitolo 4.
Capitolo 5.
Capitolo 6.
Capitolo 7.
Capitolo 8.
Capitolo 9.
Capitolo 10.
Capitolo 11.
Capitolo 13.
Capitolo 14.
Capitolo 15.
Capitolo 16.
Capitolo 17.
Capitolo 18.
Capitolo 19.
Capitolo 20.
Seconda Parte.
Capitolo 21.
Capitolo 22.
Capitolo 23.
Capitolo 24.
Capitolo 25.
Capitolo 26.
Capitolo 27.
Capitolo 28.
Epilogo.
Ringraziamenti.

Capitolo 12.

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By SofiaCraia98

"Avremo letti pieni di leggeri odori,
divani profondi come tombe,
fiori strani sulle mensole
aperti per noi sotto i più bei cieli.

I nostri cuori saranno due grandi fiaccole
nello sprazzo a gara degli ultimi ardori:
come rifletteranno i loro doppi splendori
negli specchi gemelli delle nostre anime!"

-Charles Baudelaire, La morte degli amanti (1851)

Il cielo si faceva sempre più grigio e le nuvole minacciose, rimaste in un angolo a guardare lo spettacolo di gradazioni aranciate, carminie, di una stella incandescente, si erano affrettate a coprirne la luminosità. Invidiose di tanta brillantezza, si erano fatte aiutare dai soffi del vento per imprimere nei colori accesi dei prati sfumature scure tendenti al nero. Anche il viso di Matilde si incupì non appena venne sovrastato dall'imponenza dei tronchi dei pini, dalla folta vegetazione strabordante di fiori e foglie ancora verdi. Alcune avevano iniziato a prendere un colorito giallastro, ma erano sempre pronte a donare un posto sicuro, un luogo in cui nascondersi: animali spaventati, due anime dimenticate che si rincorrevano a vicenda, senza sapere dell'esistenza l'uno dell'altra. Non avrebbero mai smesso di cercarsi, dal giorno in cui i loro sguardi si erano sciolti e fusi insieme, l'universo aveva cambiato aspetto. Samaele era allettante da studiare, le sue lacrime e le sue parole taglienti ancora le inumidivano la memoria. Restavano in bilico tra i sussurri del vento e il baratro di un inferno pronto ad accoglierli.

La giovane era rimasta a spiarlo tra cespugli di alloro e rami secchi di vecchie piante morte, edere rampicanti rimaste attorcigliate per vivere in un perenne abbraccio mortale. Le scarpe chiare si erano impregnate di polvere, terra e pennellate di verde lasciate dall'erba fresca. Si muoveva con eleganza, passi felpati tra la vegetazione, mentre due occhi color dell'ambra non smettevano un minuto di osservare Samaele rivolto di spalle. Si accingeva a tornare nel punto in cui lo aveva visto appeso a un cappio. Voleva urlargli, inveire contro di lui, minacciarlo con il coltello di non provare di nuovo a togliersi la vita. Non avrebbe più ascoltato le sue parole deliranti, ma la lama sarebbe stata la sua lingua tagliente tra le venature del collo. Provava una fervida rabbia verso il mingherlino, le mani si strinsero a pugno nelle tasche per nascondere lo strano comportamento. Non si accorse di aver stretto forte tra le dita il trinciante e una linea scarlatta si materializzò in mezzo al palmo. Un forte pizzicore le fece ritrarre la mano, osservò un rivolo di sangue uscire fuori dalla ferita. Non si curò di coprirla con un pezzo di stoffa o pulirla nel rigagnolo poco lontano, era ammaliata dal denso colore di icore vischioso. Spezzava la monotonia di un pallore tendente al rosa, una sbavatura all'interno di un quadro impressionista. Il suo obiettivo, però, era uno solo e si trovava proprio a pochi metri di distanza. Alberto le aveva insegnato le basi della caccia: se si puntava una preda non si lasciava mai scappare; le pupille dovevano essere un secondo foro di canna, un mirino calibrato al millimetro per non dare speranze a chi si trovasse nel loro campo visivo.

La coltre di ricci vermigli venne travolta dalla vegetazione e lo perse di vista per alcuni istanti, si avvicinò ancora senza calpestare rami troppo secchi o foglie morte. Il terreno morbido e i sussurri del vento frizzantino coprivano i passi di Matilde. Erano attratti l'uno dall'altra come calamite: volevano unirsi al metallo, ma qualcosa in mezzo le teneva lontane, smagnetizzandole. Non era la paura a distanziarli, ma i pensieri amalgamati tra di loro in un vortice di urla e parole sputate come veleno.

Non appena girò il viso oltre un tronco spezzato, riempitosi di muschio, piante, ragni e vermi ritrovò la piccola radura con in mezzo la grande quercia. Si innalzava imperiosa davanti ai suoi occhi. Samaele si avvicinò al busto centenario, accarezzò la corteccia rugosa e piena di canali stretti, ideali per colonie di formiche e tarme. Rimase fermo solo qualche istante, come se sentisse una presenza girare intorno al suo corpo fremente. Si voltò di scatto, ma nel momento in cui lo sguardo si puntò oltre l'orizzonte, Matilde era già scomparsa dietro le frasche e con il cuore in gola. Il volto impassibile e calcolatore, occhi persi nel vuoto oltre le sfumature del bosco, celava il suo senso di inadeguatezza tra le sterpaglie. Non poteva rimanere lì per sempre, doveva escogitare un piano al più presto.
Aspettò qualche secondo prima di ritornare a spiarlo, voleva essere sicura di non ritrovarsi occhiate simili a quelle di un cerbiatto impresse sulla carne. Soprattutto, si assicurava di non diventare preda delle sue iridi cangianti; era lei quella con l'arma nascosta sotto un sottile strato della gonna.

Samaele si era seduto in ginocchio e stava unendo con dei forti nodi le estremità del ceppo con un paio di corde. Tolse il vecchio moncherino rimasto ancora aggrappato al ramo silente e testimone di atti folli, suicidi, colmi di morte e pianti interrotti. Agganciò il tutto con cura senza mai prendersi dalla fretta, si stava godendo il momento della sua piccola creazione. Non aveva mai costruito un'altalena e nell'istante in cui il pezzo di legno rimase sospeso, dondolando per il vento e per gli strattoni di mani affusolate, tra le labbra piene di efelidi scorse una leggera soddisfazione. Si sedette su di essa e guardò in alto per assicurarsi che reggesse il suo peso e restò girato di spalle per un tempo lunghissimo.
Matilde non comprendeva cosa stesse facendo. Era convinta di doverlo salvare dai suoi istinti distruttivi, invece era complice di un perdono rimasto intrappolato tra fili di canapa e schegge di pino.

Le spalle larghe del rosso erano incurvate verso il basso e si lasciavano cullare dal ritmo lento dell'altalena. La luce fioca del sole illuminava i ricci carmini ribelli; coronavano la testa di fiamme incandescenti. I piedi, coperti da scarpe di tela sporche di terriccio, accompagnavano il moto ondoso di un dondolio piacevole e confortante. Ripensò ai momenti passati insieme a sua madre, i pomeriggi trascorsi fuori in giardino e la gomma del trattore appesa a una corda della quercia dietro casa: era il loro posto preferito. Suo fratello maggiore voleva sempre andarci per primo e litigavano spesso per quanto tempo dovevano darsi il cambio. I loro sguardi complici, però, di marachelle e dispetti erano soltanto un ricordo lontano. Michele non era più quel bambino gentile, dopo la morte della loro genitrice era rimasto traumatizzato e addossò tutta la colpa al più debole. Il dominio del più forte è un fatto naturale, gli ripeteva di continuo fino allo sfinimento. Una litania rimasta impressa nel cervello, infuocava le meningi e martellava nella scatola cranica. Erano arrivati a odiarsi, a distruggersi a vicenda fin quando qualcuno non ci avrebbe rimesso la vita. Giochi sadici di menti instabili.

Nello stesso istante in cui iridi allocroiche si perdevano in un orizzonte di pensieri, dietro alti cespugli sbucò un'ombra minuta. Si avvicinava furtiva, il vento dissimulava i rumori ovattati dei suoi passi nell'erba alta. Arrivò fin quasi a toccare con il ventre la spina dorsale, coperta da un leggero strato di una camicia bianca sporca di fango e polvere. Il cuore di Matilde pompava sangue nelle vene senza sosta, segregato in una gabbia d'ossa e soffocato da arterie per quietare i suoi continui lamenti.
Pochi centimetri li separavano, le loro menti erano colme di demoni che ridevano, sibilavano parole crude e perverse. Lo sguardo abbassato della giovane ricadeva sulle ciocche sanguigne di Samaele, aveva desiderio di toccarli, di intingere le sue dita in un acrilico vivo e denso.

All'improvviso, tutte le distanze si dissolsero: una spinta più energica delle altre e i loro corpi entrarono in contatto per alcuni secondi. Samaele sussultò dall'inaspettato morbido tocco e curioso alzò di scatto il viso verso l'alto, le bende sul suo collo accompagnavano movimenti lenti e affaticati. Le pupille si allargarono di colpo nel vedere lineamenti spigolosi di una pallida carne, occhi melliflui e privi di emozioni. Si spaventò a morte per l'inattesa apparizione, provò ad alzarsi, ma si intrecciò nei movimenti e cadde sull'erba, attutendo il dolore alle natiche.

Matilde rimase immobile come una statua di marmo, osservò il volto pieno di lividi e sangue secco. Rabbrividì al solo pensiero di cosa fosse successo tra le pieghe della sua carne macchiata di gocce di caffè. Inclinò il capo di lato per studiarlo meglio e perdersi nelle curve di uno slanciato e snello corpo sdraiato, impaurito dalla sua presenza. Riusciva quasi a percepire il ritmo incessante dei polmoni sotto la stoffa ruvida.

«Che diavolo stai facendo? Cosa hai fatto alla faccia?» domandò, spezzando il silenzio come un fulmine a ciel sereno. La voce dura e senza sentimenti si impresse nei timpani del giovane rimasto ancora a terra.
«M-mi hai terrorizzato,» balbettò, «da quanto tempo sei qui?» si fece forza con le braccia per alzarsi e avvicinarsi con cautela, animale velenoso in procinto di attaccare.
«Ho fatto prima io le domande» ribatté senza vergogna.
«Potrei chiederti la stessa cosa, hai la mano che sanguina» osservò il giovane con un colpo d'occhio nel vedere rivoli di icore scarlatto attorcigliarsi tra le sue dita sottili.
«Non ti azzardare a cambiare argomento, rispondimi» proferì impettita, stringendo le falangi a pugno senza scomporsi, mentre gocce di liquido denso cadevano attratte dalla gravità, colorando l'erba di tinte cremisi. Le teneva testa, ma non si sarebbe fatta convincere in poco tempo a sputare la verità.

«Ero venuto qui a costruire un'altalena, dopo avermi visto in quelle condizioni volevo sdebitarmi in qualche modo» sussurrò le ultime parole, vergognandosi di se stesso.
«Ti avevo detto di portare una scacchiera» proferì, senza lasciarlo finire di parlare.
«Non ce l'ho, non so nemmeno come si gioca», si posizionò davanti alla piccola figura. Il viso spigoloso gli arrivava al petto, l'ombra alta e slanciata del rosso ricopriva per intero la presenza di Matilde, lasciandole un colore grigiastro sulla pelle liscia come il marmo. Solo un tronco sospeso li divideva dal toccarsi, premere polpastrelli su luoghi inesplorati, carne contro carne.
«E le ferite?» chiese di nuovo, mentre due occhi color dell'ambra si divertivano a percepire la paura farsi strada nelle vene del malcapitato. Non riusciva nemmeno a sostenere il suo sguardo inquisitorio.
«Cicatrici di guerra» sibilò, un filo di ironia nella voce, mentre le sue mani provavano a nascondere il sangue rimasto a seccare tra le guance e i capelli. Voleva pulirsi le ferite come un gatto dopo aver combattuto per il territorio. Gli squarci nella carne urlavano più di tante anime dannate, volevano essere ascoltate per una volta senza soffrire o ricucite di nuovo per non sentire mani maligne penetrare al loro interno.

Un accenno di sorriso si fece strada tra le dure increspature delle labbra, macchiate da un minuscolo taglio rossastro, ricordo di mani rabbiose. Durò per qualche secondo per poi tornare seria subito dopo. Si mise seduta sul legno ruvido, diede le spalle al giovane rimasto immobile a guardarla come un quadro di rara bellezza. Dondolò leggera, la sua schiena entrò in contatto col basso ventre di Samaele e una vampata di calore gli colorò le gote piene di efelidi. Rimase fermo senza sapere cosa fare, poi il volto di Matilde si alzò verso l'alto per scrutarlo, le sopracciglia folte contratte.
«Dai, spingimi. Che fai lì impalato?» domandò seccata dalla poca reattività del ragazzo.

Senza dire una parola fece come le aveva ordinato, afferrò titubante la corda portandosela verso di sé e con un altro leggero tocco di dita poggiate su un fianco spinse l'altalena e il corpo di Matilde in avanti. Ondeggiò maldestra, ma lo slancio fu abbastanza forte da sentire il vento intrufolarsi sotto il vestito e tra le ciocche dei capelli neri come la notte di un freddo inverno.

Oscillava come un pendolo, avanti e indietro, si godeva quell'attimo di pace tra il silenzio della natura e i boati lontani di tuoni isterici. I palmi aggrappati a fili di canapa, l'epidermide scossa da brividi ogni volta che Samaele carezzava la sua schiena dritta; si potevano contare le vertebre sotto il sottile strato di tela. Le gambe toniche e nude si beavano della frescura prima del temporale, l'aria tentatrice alzava leggeri strati di stoffa della gonna facendo intravedere cosce muscolose, in tensione per il movimento continuo dei piedi ciondolanti.

«Ti ho visto alla finestra» parlò, scuotendo il giovane da un'ipnosi di pensieri viziosi, «pensavo volessi di nuovo impiccarti. Ho portato un coltellino con me,» se lo tolse dalla tasca, dopo aver rallentato di molto il suo altalenare «credevo volessi farlo davvero, toglierti la vita, ma nonostante tutto avrei ancora chiesto il motivo.» Si fermò per un istante pensando che avrebbe ripetuto le sue azioni all'infinito pur di lasciarlo in vita: «Chi lo sa, forse ti avrei dato una botta in testa ancora più forte» ironizzò scherzosa.
«Per questo ti sei ferita» sussurrò, interrompendo il flusso di parole di Matilde. Guardava la lama sporca di sangue maneggiata con cura tra le falangi ossute.

Annuì senza neanche dubitare, la sua franchezza riusciva a scuotere anche le anime più bugiarde. «Non volevo ucciderti, ma l'idea di farlo se ti avessi visto di nuovo in quelle condizioni non sarebbe svanita,» sospirò. «Mi sono fatta male a causa tua» sussurrò infine, incurvando verso il basso il collo, complice delle sue azioni affrettate. Una mossa troppo azzardata, si era sentita come un pedone isolato, una debolezza da difendere con altri pezzi degli scacchi e sprecare mosse fondamentali durante il mediogioco.

«Anche mia madre provò la stessa sensazione a causa mia» rivelò Samaele, una doccia fredda sulla pelle calda, i brividi si fecero strada tra le cavità dei pori. Nessuno aggiunse altro, la frase rimase incompleta, un segreto sibilato nel vento. Era una verità che entrambi condividevano, ma nessuno dei due era capace di ammettere.
«Tutti abbiamo dei rimpianti» parlò la voce schietta, mentre le labbra dall'arco di cupido pronunciato si stendevano in un accenno di amaro sorriso. Si alzò dall'altalena e con una leggera torsione del busto si girò a guardarlo. Iridi ambrate si perdevano nel contare ogni sua efelide, ogni sua sfumatura di verde impressa nella rotondità perfetta degli occhi e si sentiva riscaldata dalle fiamme delle sue ciocche ribelli, simili ad anelli solari.

Lo intimò di sedersi, voleva fare anche lei la sua parte e provare a studiare un divertimento nuovo, troppo semplice per la sua mente in continuo movimento: sinapsi impazzite da pensieri e ricordi opprimenti.
Si accomodò, senza replicare, aveva paura di dire qualcosa di sbagliato. Non voleva intaccare la tranquillità di un viso inespressivo. Era curioso di sapere cosa si celasse sotto il suo sguardo vuoto, comprendere il suo punto debole. Nessuno nasceva senza difetti.

Passarono lunghi momenti a spingersi a vicenda, i loro nervi si distesero e piccole risate bambinesche uscirono fuori dalle loro labbra rimaste in silenzio per troppo tempo. Samaele si sentì libero, spensierato come un bambino con in mano il suo giocattolo preferito. Compensavano i vuoti delle loro anime curandosi le ferite con leggere carezze di dita sottili, di capelli intrecciati e di complici sguardi. Avevano trovato il loro posto felice dove poter dimenticare torture, schiaffi, urla strazianti di una vita crudele e senza scrupoli. La natura intorno era testimone di un evento raro, anche gli uccelli avevano smesso di cantare, rimasti sorpresi da tanta meraviglia.

Un boato improvviso li ridestò dal loro utopico Eden, non si erano accorti del cielo sopra le loro teste; nubi cariche di elettricità erano impazienti di inondare il terreno di acqua fresca e rigenerante. Guardarono verso l'alto e non appena i loro nasi sfiorarono l'infinito, delle gocce pesanti e ferrose si intinsero sui volti. All'inizio, riuscivano quasi a contarle, ma poi una cascata di pioggia penetrò nei vestiti. Inumidì epidermidi martoriate, ciocche corvine e rossastre, bocche rimaste spalancate per lo stupore di sentirsi parte di un universo fatto di lacrime.

Samaele aspettava quel momento da tanto tempo, amava restare in mezzo alla pioggia. Girò lo sguardo verso Matilde ancora scossa dall'accaduto, stava per dire qualcosa, ma non voleva lasciarla andare. Prese d'impulso la sua mano e la portò via dal bosco, la giovane sussultò nel sentire grandi mani scheletriche, fredde, stringere le sue. La ferita sfrigolò a contatto con un'epidermide sottile, impiastricciandogli i palmi di sfumature purpuree, ma non se ne curò affatto. Venne strattonata di forza e corsero tra le fronde basse di alberi e piante spontanee.

Le loro gambe si dimenavano tra foglie secche, fiori di campo, viole, mughetti, erbacce e terra morbida. Potevano sentire le frustate dei gambi duri dei denti di leone e del grano selvatico tra le ginocchia e i polpacci. Più si dimenavano più venivano invasi da una pioggerella fitta. Una leggera nebbia era calata all'orizzonte e il cielo plumbeo donava sfumature di un blu intenso misto al grigio, coloravano le loro carni bagnate con pennellate di ombre scure.
«Dove mi stai portando?» urlò di colpo la ragazza, rimasta ancorata alla presa ferrea del mingherlino, per farsi sentire sotto i potenti scrosci d'acqua dolce.

Non rispose, la guardò con la coda dell'occhio un istante e continuò a correre tra i campi di grano. Le spighe erano in continuo movimento, somigliavano a dune del deserto in piena tempesta di sabbia. Continuarono a inseguirsi tra le colline ingobbite e dall'erba schiacciata dalla pesante quantità di pioggia. Era uno spettacolo di lacrime cadenti, Matilde si sentiva estasiata nel camminare tra una goccia e l'altra, percepire l'umidità sulle sue ciocche nere come la pece, assaporare la freschezza di liquido limpido scorrergli sulle braccia, lavandole le ferite piene di sangue. Anche il volto martoriato del giovane si pulì dalle impurità, esaltando la purezza di efelidi edeniche.

Portò lo sguardo verso l'orizzonte e scrutò i mattoni rossastri della sua casa spuntare tra i campi non ancora arati. Non mancava molto al raccolto, suo padre stava già preparando le attrezzature per dare una mano a portare via tonnellate di grano e fieno. Settembre era alle porte e i contadini del paese dovevano sbrigarsi per non lasciare gli animali senza cibo per sopravvivere.
A un tratto, Samaele si fermò e rimasero immobili per lunghi e interminabili secondi, mentre l'acqua donava loro carezze gentili e piccole puntellate di spilli sulle loro gote.

«Sdraiati con me» sibilò la voce del rosso, sussurri leggeri di un vento estivo. Si insinuò nelle cavità più interne di un corpo inondato di brividi e da un vestito zuppo, intriso di dolori urlati nell'eco rimasti intrappolati tra le nuvole. Lo vide abbandonarsi alla terra, di lato e sotto di lui si erano formate conche di steli appiattiti, aveva un sorriso stampato sulle labbra e la bocca semiaperta per far entrare più aria possibile nei polmoni. Percepiva il pizzicore alla gola farsi sempre più prepotente, ma si lasciò trasportare dalle onde dorate del prato e da pianti di una natura sofferente.

Si avvicinò a passi lenti e cadenzati, studiò il suo ventre rivolto verso l'alto, la camicia bagnata faceva intravedere vecchi lividi e fresche ferite sotto un velo di vergogna. Avrebbe voluto alzare la stoffa e sentire il calore corporeo sulla sua mano, come il giorno in cui le loro anime dimenticate si erano ritrovate per la prima volta dopo anni passati nella più completa solitudine.
«Perché dovrei farlo?» gli domandò, con aria cupa e incuriosita al tempo stesso.
«Se te lo dicessi, non ci crederesti» rispose, mentre le sue ferite venivano lavate dalle gocce di pioggia, sangue raggrumato diventato acqua in poco tempo. Squarci sulle tempie e sulle gote erano ancora pulsanti di icore carminio, risultato di dolori fisici rimasti ancora in superficie.

Senza aggiungere altro, si sdraiò accanto a lui, le fece spazio per far in modo che la conca nell'erba alta li accogliesse entrambi. Così, tra gambi bruciati dal sole e la rivoluzione sopra le loro teste, due corpi fragili si piegarono alle lacrime naturali di un mondo troppo crudele per poter donare loro un'esistenza piacevole. Matilde boccheggiava per non annegare, sentiva il freddo vento nella trachea e le ciglia folte inglobarono microscopiche gocce d'acqua, mentre le più pesanti scivolavano lungo le palpebre fino a frenare la loro corsa all'inizio delle guance. Ogni tanto assottigliava lo sguardo, cercava di non soffocare la cornea e la sclera, scatti muscolari involontari per preservare la purezza di uno sguardo rimasto nudo senza il vetro degli occhiali.

«Credo che la pioggia sia stata creata per non lasciare da solo l'essere umano a compiangere la sua infelicità,» due labbra morbide, piene di macchie, presero vita accanto alla minuta figura, «siamo grati a essa perché è l'unica ad alleviare ogni dolore. Cade, ma non si ribella» fece un lungo e straziante sospiro scrutando le fronde dorate. Le spalle di entrambi si sfioravano curiose di sentire calore umano, mentre i loro cuori cominciavano a battere all'unisono. «È più suggestivo quando il grano è ancora verde e il vento si diverte a creare onde marine con le spighe acerbe. È appagante quanto questo cielo triste». Sorrise timido, beandosi della dolce atmosfera. «Sai, tra le nuvole grigie rivedo mia madre, i miei vecchi ricordi persi e le sere d'inverno passate davanti al camino, mentre dita femminili mi accarezzavano la testa per farmi addormentare. Mi piaceva ascoltare i battiti del suo cuore ferito»

Matilde lo ascoltò parlare, ma nell'ammasso di tuoni e scariche elettriche non vedeva i suoi pensieri, non sognava a occhi aperti. Era solo un mucchio di tempo sprecato.
Fece una leggera pressione con i gomiti per alzare di poco il busto e girarsi verso Samaele, stava per dirgli che nel vuoto non avrebbe mai trovato le risposte di un passato ormai perso, ma non appena i suoi occhi d'ambra si fusero con sclere vermiglie colme di lacrime perlacee, le parole le morirono in gola. Era rimasta ammaliata da stille chiare, colme di rancore verso qualcosa ancora a lei sconosciuto. Accennava spesso a sua madre, ma Matilde non ricordava quasi nulla della sua infanzia. Un buco nero si era formato all'interno del muscolo cardiaco e aveva inglobato tutte le emozioni, mischiandole tra di loro. Non comprendeva più cosa significasse essere felici.

«Perché mi stai dicendo tutto questo?» sussurrò la ragazza, in preda a forti spasmi di brividi di freddo. La colonna vertebrale tremava sotto la pelle candida, intrappolata in un vortice di una strana perversione.
Le sopracciglia sanguigne erano in tensione, provava un tale dolore al petto da straziare anche i più audaci. Il suo volto era la rappresentazione della sofferenza, mai urlata e mai compresa. Si abbandonava a un pianto sommesso, nascosto dalle gocce di pioggia, solo per non sentire grida demoniache dentro la sua testa.

Portò il busto verso l'alto aiutandosi anche lui con le braccia, arrivando alla stessa altezza di Matilde. I loro visi erano a pochi centimetri di distanza, riuscivano quasi a sentire uno i respiri dell'altra, solo le gocce di pioggia li divideva dallo sfiorarsi con le punte dei nasi. Era diventato un gioco di sguardi, di rincorrersi con gli occhi, mentre il mondo assisteva all'esplosione di una supernova da distruggere l'intero universo.
«Perché il cielo non dimentica, Matilde» sussurrò Samaele, ammaliato dalla vicinanza di quella ragazza rimasta impigliata nei nodi del suo cervello.

Il cuore le martellava nella trachea, voleva uscire fuori per cibarsi di gocce gentili, nutrirsi di acqua perlacea al posto del sangue. Era tentata di leccargli le guance, assaporare l'amaro e il dolce delle sue lacrime sulla lingua: nettare prezioso simile al succo dei chicchi di melagrana. Voleva sentirle scolare agli angoli della bocca, eccitarsi di fronte alla perfetta espressione della sofferenza.

Le dita affusolate del rosso si fecero curiose, fremiti leggeri si diradarono sui polpastrelli fin dentro i nervi sottili a contatto con la pelle umida di un'anima fragile, rinchiusa in un corpo privo di emozioni. Le solleticarono il centro della fronte, le sopracciglia e le palpebre degli occhi, fin quando l'ampio palmo non accolse una delle sue gote, abbandonando le falangi tra ciocche bagnate di capelli corvini.

Un calore anomalo le infuocò le guance, non riusciva a comprendere cosa stesse succedendo al proprio corpo, inondato di brividi intensi. Si divincolavano sotto i pori per uscire all'aria aperta, microscopiche dune si erano formate sulle braccia e non volevano andarsene. Non capiva le sue mosse, era una tecnica a lei sconosciuta e si sentiva come un pesce senz'acqua per vivere. Boccheggiava, annaspava in cerca di aria, mentre il suo cuore rimbombava nel torace, lo si vedeva urlare sotto un sottile strato di pelle nuda.

Poi, arrivò la cacciata dall'Eden. Uno sparo, seguito da un altro più vicino si librarono in aria. Non erano tuoni o scrosci di pioggia, ma il fucile di Alberto con ancora la canna fumante rivolta verso l'alto.
Gli occhi di Matilde si spalancarono di colpo, le pupille divennero una sfera scura di puro terrore. Si girò di scatto, mentre con uno slancio atletico issò le sue membra intimorite dall'instabilità del padre. Samaele si mise in ginocchio dietro l'ombra della ragazza, il solo corpo lo proteggeva da una minaccia lontana.
Lei sapeva a cosa andava incontro, ma l'istinto le ordinava di rimanere immobile e difendere una volpe ferita.

«Tu, figlio del diavolo,» urlò a squarciagola Alberto, mentre puntava l'arma contro di loro, «prova una sola volta a toccare mia figlia e giuro che ti pianto una pallottola nel cervello.»
La sua voce rude, mischiata dallo scroscio della pioggia sembrava provenire dalle profondità dell'inferno.
«Babbo,» piagnucolò Matilde, trovandosi di fronte a una situazione inaspettata, «non fargli del male, non ha fatto nulla»

Samaele si alzò di scatto vedendo la canna del fucile puntata su di lui e indietreggiò di poco. La figura dai capelli neri si voltò e gli sussurrò di andarsene, di correre il più lontano possibile. Qualcosa, però, nel volto dell'uomo lo fece tentennare nel fuggire a gambe levate. La sua stazza, il suo burbero portamento gli ricordò qualcosa rimasto sotto il pelo dell'acqua.
«Siete Alberto, non è vero? Voi mi avete aiutato con mio fratello» proferì persuasivo, mentre i suoi occhi verdastri controllavano il foro dell'arma.

«Non l'ho fatto per puro piacere, avrei preferito lasciarti nelle mani di Michele, ma se t'avesse ucciso, avrebbe addossato la colpa a me e causato una marea di problemi. Lascia in pace la mia famiglia, l'hai già distrutta una volta, non te la farò passare liscia una seconda!» gridò inferocito e sputò a terra, non molto lontano dai piedi infreddoliti del mingherlino.
«Vattene, non dire altro» gli ordinò Matilde fredda come il ghiaccio, confusa dal discorso del padre e dalla paura che potesse far del male all'unica persona ad averle scavato dentro un cuore fatto di sola pietra.
«Tu, vieni con me» la strattonò per un braccio, facendola allontanare dal giovane. Era stata scoperta, aveva commesso l'errore di esporsi troppo. Scacco al re, rimbombava la voce nella sua testa. Stava perdendo e le mosse diminuivano sempre di più.

Cercò di divincolarsi, di tornare da Samaele, i loro sguardi pieni di sgomento erano la raffigurazione pittorica della paura, del peccato: un Saturno in preda ai crampi della fame. Erano un continuo divorarsi di attenzioni, di tenersi stretti quasi a inglobarsi l'uno con l'altra. La loro legge di attrazione era più forte di qualsiasi altro campo magnetico.
«Matilde!» gridò verso di lei la figura alta e slanciata dalla pelle macchiata da costellazioni di nei, mentre un pianto di vergogna risaliva sulle caruncole. Provò ad avvicinarsi, ma Alberto gli puntò di nuovo il fucile in testa urlandogli di andarsene e di non fare un altro passo.

Gli occhi tondi, solcati dalla vecchiaia e dalla stanchezza della vita, erano sbarrati nel tentativo di intimidirlo, di sottolineare la rabbia, la frustrazione nelle sue vene e dal rimorso di averlo aiutato a ricordare momenti terribili della sua vita.
«Non avrai mai mia figlia, demonio!» urlò con disprezzo l'ultima parola, mise i brividi anche a Matilde rimasta senza più le forze di controbattere. La sua lingua si fermava alla sola presenza oscura e imponente del padre. Era andato fuori di testa, ma la figlia non ricordava nulla, amnesia completa di un passato diventato effimero.

«Corri!» strillò la ragazza, mentre mani tozze e rugose la presero per i capelli e la trascinarono verso un castigo fatto di dolore, frustate, sofferenza pura. La bocca spalancata, gemente di dolore, di singhiozzi strozzati, i suoi occhi assottigliati e colmi di livore erano l'inizio di una discesa verso la più totale pazzia, la sua mente non contemplava più la realtà. Stava cadendo nell'oblio e nessuno sarebbe venuta a salvarla. Il suo ultimo momento di luce fu vedere una coltre di ricci rossi ondeggiare tra i campi di grano, come un fuoco rimasto acceso a incenerire sterpaglie e anime oppresse dalla malvagità dell'esistenza.

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Athena,ragazza di Sidney, lavora da quando aveva 16 anni nel ristorante di George ,conoscente dei suoi genitori e descritto da lei come "il suo dolce...
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Raccolta di One shot, di genere misto, la maggior parte delle quali scritte per partecipare a diversi contest. Buona lettura 🖤