UNCONDITIONALLY

By wendygoesaway

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L'amore salva, oppure uccide? ⚠️⚠️⚠️ Trigger warning ⚠️⚠️⚠️ Ci sarebbero un'infinità di motivi per cui inser... More

CAPITOLO UNO - silence
CAPITOLO DUE - rebirth
CAPITOLO TRE - tko
CAPITOLO QUATTRO - dawn
CAPITOLO CINQUE - wake up
CAPITOLO SEI - blind
CAPITOLO SETTE - hurricane
CAPITOLO OTTO - wonder
CAPITOLO NOVE - ruthless heart
CAPITOLO DIECI - rondini al guinzaglio
CAPITOLO UNDICI - monster
CAPITOLO DODICI - fra mille baci di addio
CAPITOLO TREDICI - only for the brave
CAPITOLO QUATTORDICI.1 - stand tall
CAPITOLO QUATTORDICI.2 - stand tall
CAPITOLO QUINDICI - point break
CAPITOLO SEDICI - ghost riders
CAPITOLO DICIASSETTE - fiori di Chernobyl
CAPITOLO DICIOTTO - treading water
CAPITOLO DICIANNOVE - farfalla d'acciaio
CAPITOLO VENTI - city of fallen angels
CAPITOLO VENTUNO - paper moon
CAPITOLO VENTIDUE - l'arte di essere fragili
CAPITOLO VENTITRE - if the world was ending
CAPITOLO VENTIQUATTRO - ENDGAME.
CAPITOLO VENTICINQUE - a forma di origami
CAPITOLO VENTISEI - angels and demons
CAPITOLO VENTOTTO - till the last breath
CAPITOLO VENTINOVE (prima parte) - piccola stella senza cielo
CAPITOLO VENTINOVE (seconda parte) - piccola stella senza cielo
CAPITOLO TRENTA - loner
CAPITOLO TRENTUNO - interlude
for you
CAPITOLO TRENTADUE - la di die
CAPITOLO TRENTATRE - sweet lullaby
CAPITOLO TRENTAQUATTRO - TELL ME ABOUT TOMORROW
CAPITOLO TRENTACINQUE - YA'ABURNEE
CAPITOLO TRENTASEI - NEW MOON
!!!
EPILOGO - BANYAN TREE
GRAZIE

CAPITOLO VENTISETTE - under my skin.

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By wendygoesaway

Ricordo a tutti che, se lo voleste, potete contattarmi in privato per entrare nel gruppo WhatsApp 🌸
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Buona lettura! 💘

spazio autrice:
🚨🚨!!! TRIGGER WARNING !!!🚨🚨
ci sarebbero un miliardo di motivi per cui metterlo, perciò non posso specificare riguardo a che cosa. Perdonatemi, lo so che lo metto sempre.

spazio ilaryyy clintoooon:
siamo nel mezzo di un ciclone e mi rendo conto che le tragedie sembrano non finire mai, ma non mi odiate 🥺
spero il capitolo vi piaccia<3
fatemi sapere cosa ne pensate con commenti e stelline.

ila
x

ps -> mentre leggete la prima parte del capitolo ascoltate (si in questo ordine) chiave e sabbia di ultimo, fa tutto un altro effetto giuro.
ilysm

CAPITOLO VENTISETTE – under my skin

Costa cara la fragilità, per chi un posto nel mondo non ha.

Era quasi mezzanotte, l'aria fredda di novembre mi tagliava il viso e scompigliava i miei capelli facendomi rabbrividire. Aveva iniziato da poco a nevicare, ma nonostante ciò avevo deciso di rimanere sul tetto e ammirare il manto bianco che decorava la mia città, cercando le stelle e contandole, addirittura, tra la coltre di nuvole bianche e la fitta nebbia caratteristica dell'inverno e della neve. Aprii il palmo della mano accogliendo un piccolo fiocco di neve osservandolo posarsi sul mio guanto di lana mentre, nel silenzio e nel mio amato inverno, fumavo una sigaretta e sorridevo al piccolo fiocco danzante.

Ero salita sul tetto principalmente perché avevo bisogno di stare da sola e smettere di pensare, ma da un'ora a quella parte tutto ciò che riuscivo a pensare era proprio che dovevo smettere di farlo. Il mio problema principale era che la mia mente viaggiava troppo, e spesse volte i miei pensieri si trasformavano in sussurri, bisbigli fastidiosi, risatine frustanti e deliri. A volte i sussurri erano così tanti, tutti sovrapposti e troppi contemporaneamente, che l'unica cosa che riuscivo a fare per metterli a tacere era prendermi la testa tra le mani e gridare. Le urla erano talmente forti che sovrastavano il volume delle risate, dei pensieri velenosi, e alla fine riuscivo a zittirli qualche volta. Per la prima volta, dopo una vita in cui non avevo fatto altro che temerlo ed esserne terrorizzata fino ad avere il panico nelle ossa, ero arrivata a cercare disperatamente il silenzio. Quando mi ero resa conto che desideravo la pace che solo il silenzio era in grado di darmi, avevo capito di avere superato il mio limite massimo di sopportazione del dolore.

Ad ogni modo, mentre i fiocchi di neve facevano lentamente diventare bianchi i miei capelli, una bottiglia di acqua riempita con vodka liscia giaceva al mio fianco, incastrata tra una tegola e l'altra, e mi faceva compagnia riscaldandomi mentre l'inverno mi raffreddava fino a entrarmi nelle ossa. Principalmente era quello il motivo per cui lo amavo: mi faceva rabbrividire lungo tutta la spina dorsale, e i brividi erano la dimostrazione del fatto che fossi ancora viva. Sollevai il naso ghiacciato all'insù alzando la bottiglia al cielo e sorridendo dopo aver mandato un bacio verso la luna e portandomela poi alle labbra, assaporando il calore bruciante dell'alcol che scendeva lentamente lungo l'esofago, facendomi chiudere gli occhi e godere di quella sensazione di meraviglioso formicolio alla testa che regalavano i super alcolici. Ormai stavo bevendo da un'ora, avevo i capogiri, ma onestamente non me ne importava più di tanto, pensavo che dopo tutto sarebbe potuta essere l'unica cosa in grado di farmi realmente smettere di pensare. – Cin cin Kat – Biascicai con i denti che battevano e stringendomi le gambe al petto posando la testa sulle ginocchia. – Ti penso ogni giorno – Bevvi un altro sorso di alcol e arricciai il naso mordicchiandomi il labbro, presi un respiro profondo e deglutii rumorosamente, guardandomi un po' attorno e ricordando la prima volta che avevo portato la mia migliore amica sul tetto a contare le stelle. Le avevo raccontato che era una cosa che io e Sammy facevamo da sempre, immaginando di creare disegni smontando le costellazioni e unendole tra di loro creandone di nuove, sempre diverse, con storie diverse.
Katherine aveva sempre sofferto di vertigini, per cui quando eravamo salite sul tetto si era messa a insultarmi e ripetermi quanto io e Sam fossimo fuori di testa per farlo, soprattutto da ubriachi oppure mentre fumavamo e ci passavamo lo spinello persi nel nostro piccolo mondo. Fumavamo guardando le stelle, viaggiando nel cielo, creando le nostre storie raccontandoci sempre cose nuove, anche piccoli dettagli che per chiunque potevano sembrare insignificanti, ma per noi erano tutto. In quel momento riuscivo solo a pensare a quanto ogni secondo e ogni istante fossero preziosi, ricordando i momenti vissuti con Katherine e le notti a dormire abbracciate. Ricordavo la mia mano e quella di Sam intrecciate, io con la testa posata sul suo petto, e lui e che mi accarezzava i capelli, intrecciava le ciocche corvine tra le sue dite, e diventava il mio cantastorie. Avevamo costruito una tradizione, io e lui, e volevo mostrare me stessa a Katherine quella notte, presentarle la vera Victoria. – Ovunque tu sia, spero che il mio pensiero ti arrivi. – Dissi alla fine.

Mi alzai in piedi tenendo stretta la bottiglia fra le mani e mi avvicinai al bordo del tetto, guardando in basso e domandandomi cosa sarebbe successo se fossi caduta da lì. Mi chiesi nuovamente cosa sarebbe potuto accadere nel qual caso fossi scomparsa per sempre e come sarebbe stato dormire per sempre. Sicuramente morire era più semplice che vivere, ogni cosa sarebbe stata più semplice piuttosto che essere me stessa e vivere la mia vita. Per un istante mi ritrovai a pensare a quelle due settimane rinchiusa in quello scantinato, sola con i miei pensieri e il silenzio. Anche in quel momento i miei pensieri facevano rumore, ma non così tanto, non gridavano come stavano gridando in quel momento. Ricordai quanto mi terrorizzasse in quei giorni, quanto lo stessi odiando e quanto avevo desiderato chiudere gli occhi e non riaprirli mai più convinta di avere toccato il fondo. Mi ero anche illusa pensando che non potesse esserci niente di peggio, che quello significava toccare il fondo, ma ero stata soltanto una stupida perché il peggio doveva ancora arrivare. Tornai perciò di nuovo a pensare a quanto tutto fosse così paradossale, a quanto in quel momento pregavo perché mi fosse regalato un minuto soltanto di silenzio, a quanto me lo sarei goduto, a quanto avrei ringraziato Dio per avermelo concesso.

Feci ciondolare un piede nel vuoto, bevendo un sorso di vodka sperando che l'alcol mi aiutasse a spegnere la mia mente ed i miei pensieri velenosi. Avevo promesso che non mi sarei mai lasciata andare e che avrei lottato per non affogare, ma tutto ciò che riuscivo a sentire era una voce, che mi ripeteva che il buio era il mio posto, che nel silenzio avrei trovato la pace e la libertà che chiedevo da tempo. Perciò pensai a come sarebbe stato rinchiudermi di nuovo in una stanza, al buio, come mesi prima. E mi resi conto di quanto fosse triste il fatto che stavo pensando che lì sarei stata molto più al sicuro di quanto lo ero in quel momento, nonostante sapessi che il dolore non mi avrebbe abbandonata nemmeno in quel luogo, però in quel buio e in quella stanza vuota, c'era tutto ciò che a me in quel momento mancava: il silenzio. Non mi piacevano quei pensieri e sapevo che avrei dovuto smettere, perché ero terribilmente vicina alla caduta libera, ma non ce la facevo, non potevo. Un altro sorso e mi sarei potuta lasciare andare, se avessi chiuso gli occhi ci sarebbero stati soltanto i brividi e, una volta toccato il fondo, sarebbe finalmente arrivato il silenzio. Mi chiesi perciò, mentre fissavo il vuoto sotto i miei piedi se, anche nella morte, la mia malattia e le mie allucinazioni mi avrebbero seguita, perché se non fosse stato così, se l'unico modo per liberarmi di tutte quelle grida era abbandonarmi al vuoto, perché se morire era l'unica soluzione allora forse avrei dovuto prenderlo in considerazione sul serio. C'era qualcosa nella mia testa che stava dicendo che quello non era più il mio posto, che il sonno permanente era l'unica soluzione perché io ero persa, troppo persa. Non mi sentivo più al sicuro nemmeno nella mia solitudine e nonostante avessi sempre pensato che lo stare con me stessa fosse il mio solo rifugio, capii che non era più così. Volevo scappare via, non volevo più stare lì, perché non ce la facevo più e avrei dato qualsiasi cosa, anche la mia vita, per liberarmi di quel peso. La luce della luna filtrava debolmente fra le nuvole bianche, illuminando i fiocchi di neve e portandomi a danzare con loro, sotto la coltre di quei pensieri che si nutrivano di ogni mia emozione positiva e lasciavano il vuoto, e facendomi credere di essere un fiocco di neve nonostante non ci fosse più nulla di puro in me, nonostante non potesse più entrare la luce nel mio cuore. 

Lo squillo del mio cellulare mi fece sobbalzare e arretrare di scatto, fino a tornare a sedermi e sospirare rumorosamente quando lessi il nome di Vanessa sul display. – Porca puttana – Sbottai rispondendo alla videochiamata. – Sei impazzita? Mi sono spaventata – Le dissi con il cuore che palpitava e posandoci una mano sopra battendo le palpebre freneticamente.

Vanessa aveva il dolce sorriso che solo quando era ubriaca aveva, tanto che scossi il capo e roteai gli occhi al cielo sollevando il dito medio, soprattutto quando invece che rispondermi scoppiò a ridere e inquadrò Carter alle sue spalle. – Ma dove sei? – Domandò il mio amico passandosi le dita fra i capelli biondi.

- Sono sul tetto di casa mia – Risposi lanciando l'ennesimo sguardo al cielo e sospirando quando tornando a guardare lo schermo notai i loro sguardi preoccupati e confusi. – Non guardatemi in quel modo, lo faccio da sempre. Io e Sam veniamo sempre sul tetto a guardare le stelle – Spiegai sfarfallando le ciglia e accendendo una sigaretta.

- Ah quindi Sammy è lì con te? – Vanessa mi offrì un primo piano della sua fronte e dei suoi occhi marroni truccatissimi e decorati da lunghe ciglia finte, che indossava ogni qualvolta dovesse uscire. Riuscii a intravedere la sua chioma bionda, nonostante fossero illuminati soltanto dalla luce del lampione alle loro spalle e, quando mi guardò in quella posizione e con gli occhi spalancati, non riuscii a trattenere più le risate. – Che diavolo ridi adesso? – Sbuffò passandosi un dito sotto la ciglia di destra e brontolando, come sempre, quando era leggermente fuori posto e le dava fastidio.

- Rido perché sei un pagliaccio – Le dissi guardandola e sghignazzando. – Comunque no, non c'è Sam, sono da sola. -

- E cosa ci fai da sola sul tetto? – Esclamò Carter strappando il telefono di mano alla sua ragazza. – Sembri anche ubriaca. Sei ubriaca Vic? E dove diavolo è Benjamin? -

- Ma vi volete calmare tutti e due? – Sbuffai teatralmente e tornando nella mia stanza dopo aver spento la sigaretta. – Benjamin è a casa sua, con i suoi fratelli per una volta nella vita, dove deve stare in questo momento. Deve occuparsi anche di se stesso, non può sempre stare dietro a me e ai miei problemi. Sono salita sul tetto perché mi andava, fine – Tagliai corto arricciando il naso infastidita. A dire la verità, non volevo che l'attenzione rimanesse così a lungo su di me, perché non volevo che arrivassero a pensare a ciò che realmente stavo per fare su quel tetto. Mi chiesi se veramente lo avrei fatto, se sarei riuscita ad avere il coraggio necessario per lasciarmi cadere giù da quel tetto, se non ci fosse stata la chiamata della mia migliore amica. Cercai di accantonare il pensiero soprattutto contando che i miei amici mi stavano osservando attentamente come se tentassero di leggere ciò che provavo e le mie reali intenzioni, per cui dovevo scostare l'attenzione da me, in quel frangente. Mi stampai un sorriso in faccia, alzando gli occhi su di loro che mi stavano fissando, ogni tanto mi sembrava che Carter provasse a psicoanalizzarmi. – A proposito di mio fratello, visto che siete in giro come degli ubriaconi, non è che per caso lo avete visto o sentito? Sono preoccupata per lui. -

Carter dischiuse le labbra come se volesse dire qualcosa ma allo stesso tempo ci fosse un pensiero, o altro, che lo bloccasse, mentre Vanessa dal canto suo sospirò e scosse la testa, concordando con me. – No – Disse la mia amica. – E onestamente sono molto preoccupata. Non ho mai visto Sam in questo stato, anche quando ha scoperto di essere tuo fratello, quando gli avevo parlato, lui era sconvolto dal fatto che gli avessero mentito ma era, ed è in realtà, molto contento di avere te come sorella, di averti con lui. -

- In quel caso c'era una nota di positività in tutta la faccenda – Intervenne a quel punto Carter. – E quella eri tu. In questo caso non c'è. Lui ha perso la persona che amava davanti ai suoi occhi, non ci può essere niente di peggio. È una cosa troppo grande, non credo la supererà facilmente, se mai la supererà. -

- Carter – Chiesi arricciando il naso e con le lacrime agli occhi. – Ho una bruttissima sensazione ogni volta che penso a Sammy, proprio alla bocca dello stomaco... - Lasciai la frase in sospeso e deglutii il nodo che avevo in gola, che stringeva talmente forte da bloccarmi il respiro. Mi sentivo soffocare al solo pensiero di poterlo perdere o che qualcosa di male gli accadesse, qualsiasi cosa. Mi faceva stare male sapere che lui volesse stare da solo, che stava così male da non volere nemmeno la mia compagnia. Non era mai stato così: io e lui avevamo sempre condiviso tutto e io ero convinta che lui non mi volesse al suo fianco per non farsi vedere in quelle condizioni da me. Il fatto era che io non ero abituata a stare lontano da lui nemmeno per un secondo e sapere che non mi voleva vedere, che fosse per il mio bene o per se stesso non importava, mi spezzava. Io volevo stare al suo fianco, avevo bisogno di stare con lui per assicurarmi che qualunque cosa fosse accaduta lui mi aveva al suo fianco. Non volevo perdermi nulla riguardo a Sam, mi sentivo troppo male sapendo che non ero con lui, che lui era distrutto fino al punto di non volere vedere nemmeno me, e avevo paura, terribilmente paura, che gli accadesse qualcosa quando io non c'ero. – Mi sento uno schifo. – Sussurrai chiudendo gli occhi. – Mio fratello sta uno schifo, e io non sono con lui. Non ci sono per aiutarlo. -

- Vic – Mi chiamò Carter. – Punto uno tu sei ubriaca, stai parlando a ruota libera e non lo fai mai. Che cazzo fai? - Domandò infastidito dal mio comportamento. Lo scaccia con la mano, arricciando il naso e roteando gli occhi al cielo ignorandolo completamente, tanto che lui sollevò il dito medio come risposta. - Punto due: stai rispettando la sua richiesta. Ha chiesto di essere lasciato solo per un po', stai rispettando la sua scelta. Vedrai che quando sarà pronto sarà lui a chiamarti e a venire da te, sono sicuro che recupererete tutto il tempo perso. Sam non ti lascerebbe mai, lo sai, così come lui sa che tu ci sei per lui. -

Era la verità, ma mi feriva comunque saperlo solo, distante e così pieno di dolore. Sam aveva gentilmente chiesto a tutti noi di essere lasciato solo per un po' di tempo, perché ne aveva bisogno. Stavo facendo il possibile per non chiamarlo, per non presentarmi a casa sua alle due di notte come avevo sempre fatto, per aspettare che fosse lui a telefonarmi e parlare con me, ma era più difficile del previsto. Sospirai rumorosamente battendo le palpebre e guardando ancora una volta i miei amici, i quali mi osservavano con una certa aria preoccupata e pensierosa. – Vuoi che venga lì? – Mi chiese la mia amica sorridendomi dolcemente.

Scossi il capo e ricambiai il sorriso, passandomi le mani sul viso e sfregandomi successivamente il viso dopo aver sbadigliato. – No – Le dissi tossicchiando. – Non è necessario, ora andrò a dormire. Ho bisogno di stare un po' da sola. – Risposi poi deglutendo rumorosamente e distogliendo lo sguardo dallo schermo trattenendo a stento le lacrime.

- Sei sicura di stare bene? Vic lo sai che puoi... – Intervenne di nuovo Carter soffiando una nuvola di fumo verso il cielo e tornando a guardarmi negli occhi.

- Sì – Replicai interrompendolo, piegando la testa di lato e mentendo palesemente: non stavo affatto bene. – Sì, sto bene, davvero. Piuttosto voi smettetela di ubriacarvi a chiamarmi durante la notte. Già dormo poco, ci mancate solo voi due. - Sollevai le sopracciglia fissandoli di sottecchi e osservando i due ragazzi biondi alzare le braccia in segno di resa.

Vanessa mi fece una linguaccia e mi salutò con la mano, mentre Carter la strinse a sé e mi mandò un bacio volante, finsi di afferrarlo e me lo portai al cuore, poi sorrisi e chiusi la chiamata sospirando.

A quel punto, stanca e priva di forze, con i miei pensieri che ancora strillavano nella mia mente, posai la testa sul cuscino e chiusi gli occhi, sperando di crollare in un sonno profondo al più presto possibile, trovare un po' di pace e assaporare, almeno mentre dormivo, un po' di silenzio.

Specchi.
Specchi ovunque.
Camminavo in un vicolo cieco ed ero circondata da specchi. Vedevo il mio riflesso avanzare, passare da uno specchio all'altro e ciò non faceva altro che farmi rabbrividire intensamente. Mi girava la testa, per quanto fossi confusa, il mio cuore accelerava il battito sempre di più, ad ogni passo che facevo, ad ogni respiro che facevo. Mi sentivo come se mi stessero strangolando, come se avessi un cappio al collo e da un momento all'altro potessi smettere di respirare, tanto che presi ad annaspare in cerca di aria, portandomi una mano al collo e un'altra sul cuore, nella speranza che quel gesto mi potesse aiutare.

Continuavo a camminare e più avanzavo più notavo che in ogni specchio c'era qualcosa insieme a me, che camminava al mio fianco, come se le ombre mi inseguissero ovunque andassi. Era come se fossi circondata dalle voci nella mia testa, che si erano materializzate tutte lì in un solo momento, ognuna in uno specchio diverso. Mi sembrava quasi che volessero dirmi che ero marcia dentro, che era quello il luogo da cui provenivo e nel quale sarei dovuta rimanere. Strinsi i pugni conficcandomi le unghie nei palmi della mano, chiusi gli occhi accorciando i passi e camminando più veloce, sperando di arrivare alla fine di quel tunnel di specchi il più velocemente possibile, cercando di non pensarci, come tutti non facevano altro che ripetermi. Mi dicevano che dovevo chiudere gli occhi e non pensarci, ma l'unico motivo per cui i chiudevo gli occhi era perché speravo di allontanarmi da ciò che c'era dentro alla mia testa ogni minuto, di ogni giorno. Che poi ero consapevole di non potermi allontanare, di non poter sfuggire a nulla, perché era tutto nella mia testa e non c'era modo per me di scappare, io ero in trappola, da tempo ormai.

Arrivai, finalmente, in fondo al tunnel ma trovai davanti l'ennesimo specchio, non una porta come pensavo. Non c'era una via d'uscita: mi ero illusa di poter attraversare una porta e varcare la soglia trovando qualcuno disposto ad aiutarmi dall'altra parte, ma avevo trovato solo un altro specchio. Era famigliare: la cornice color oro, imponente come il trono di una regina, e vuoto.

Svegliati, pensai. Respira, svegliati, respira ancora e svegliati.

Non c'era nessun riflesso, nulla. Non vedevo nulla, nemmeno me stessa, e quando mi voltai per guardarmi attorno tutti gli specchi erano spariti. Ero rimasta soltanto io, con quello specchio imponente che non mi permetteva nemmeno di poter osservare ciò che era rimasto di me. Si diceva che lo specchio rifletteva l'anima delle persone, quella vera, ma io non vedevo nulla quindi l'unica cosa che riuscivo a pensare era che, forse, un'anima non l'avevo. Forse ero vuota, forse non c'era niente dentro di me ed era per quel motivo che non vedevo il mio riflesso. Oppure ero morta: i fantasmi non avevano un riflesso.

Dopo interminabili secondi a fissare lo specchio decisi di arrendermi perché non avrei mai ottenuto una risposta, mi lasciai andare perché almeno avevo un po' di silenzio, perché non sentivo più nulla, per una volta. Mi appoggiai alla cornice dello specchio, nonostante avessi la sensazione di essere sospesa nel vuoto assieme a lui, e scivolai lungo il legno sedendomi a terra con il viso alzato verso l'alto, dove non c'era un cielo e non c'erano stelle, dove il sole e la luna non esistevano ed erano stati risucchiati lasciando un vuoto.

- Perché sei triste bimba mia? – Solo sentire quella voce mi fece scattare sull'attenti e rabbrividire lungo tutta la spina dorsale.

Spalancai gli occhi nel momento esatto in cui il mio cuore prese a battere talmente velocemente da farmi pensare che saltasse dei battiti, per quanto stesse correndo. Avevo i nervi i tesi, il respiro incastrato in gola e i pugni serrati posati sulle cosce. Un conato di vomito mi serrò la gola, e pregai qualsiasi cosa pur di non crollare in quel momento: non dovevo farmi vedere in quel modo, non davanti a lui. Mi terrorizzava ancora così tanto che il solo rumore del suo respiro mi fece desiderare di morire e sentirlo alle mie spalle, sentire la sua presenza terrificante e abominevole proprio dietro di me, non fece altro che peggiorare la cosa.

La sua mano scostò la mia cascata di capelli neri su una spalla e, quando fu libera, sentii il suo polpastrello percorrere la mia scapola silenziosamente, aprendo ogni ferita nuovamente. Nonostante indossasse, almeno così pensavo, un paio di guanti il suo tocco ustionava la mia pelle, bruciava come stavano bruciando i ricordi, la sua voce mi faceva rabbrividire ed il suo respiro sul mio collo mi faceva venire da vomitare. Era tutto terribilmente sbagliato: era sbagliato che lui fosse lo stesso mostro di sempre, sbagliato che nonostante tutto quello che avevo passato ancora non riuscivo ad innescare la reazione necessaria a scacciarlo. La paura era troppa, palpabile, sentivo i suoi sussurri filtrare panico nella mia mente. Chiusi gli occhi istintivamente, rendendomi conto solo in quel momento che stavo piangendo solo perché una lacrima calda e salata sfiorò la mia guancia cadendo poi sul dorso del mio pugno chiuso, che tremava a causa della paura. – Mia piccola regina. – Disse mio padre alle mie spalle senza smettere di accarezzarmi. Volevo dirgli di smetterla, di non toccarmi, di lasciarmi in pace, ma non riuscivo a muovere un muscolo. Ero bloccata, intrappolata nei miei incubi peggiori di nuovo. – Sai perché ti ho chiamato Victoria? – Domandò sfiorando la mia pelle con il suo respiro abominevole. – Perché sapevo che saresti stata una regina, la mia regina. Questo non è il tuo posto, devi stare al mio fianco per sempre. -

- Mi fai vomitare. – Fu l'unica cosa che riuscii a dirgli in quel momento, anche perché era assurdo il fatto che sentissi il suo tocco e i suoi respiri sulla mia pelle anche attraverso lo specchio. Non riuscivo più a pensare lucidamente, tremavo così tanto che sperai con tutta me stessa che il mio cuore si fermasse perché stavo impazzendo e non ce la facevo più.

- Tu sei uguale a me. – Disse lui uscendo dallo specchio e sedendosi al mio fianco. Non avevo ancora trovato la forza per aprire gli occhi e guardarlo in faccia: il solo pensiero di averlo così vicino aveva scaturito una serie di reazioni che derivavano dal mio istinto di protezione e, tra queste, c'era il voler tenere gli occhi chiusi ad ogni costo. La sua voce era sufficiente per proiettare innumerevoli e spiacevoli ricordi all'interno della mia mente, senza contare che temevo che se avessi aperto gli occhi mi sarei ritrovata catapultata in uno di quei momenti, non più davanti a quello specchio. – Sei mia figlia, abbiamo lo stesso sangue. Che ti piaccia o no, noi siamo uguali ed è proprio per questo motivo che ti dico che il tuo posto è al mio fianco. – Lo sentii sfiorare la mia spalla con la sua e alla fine la paura ebbe a meglio: sobbalzai allontanandomi da lui e osservando il mostro che era, disgustata. La cosa che mi sorprese, però, era non vedere il suo viso. Aveva il volto coperto da una maschera completamente nera, fatta eccezione per qualche riga bianca. Era di plastica e lasciava scoperti soltanto i suoi occhi, azzurri proprio come i miei. Indossava una felpa nera con un cappuccio, e pantaloni della tuta del medesimo colore. Non importava che avesse il volto completamente coperto, era la sua voce, era lui a parlarmi, bastava quello.

- Non mi devi toccare. – Sibilai scostandomi e stringendomi in me stessa, con gli occhi spalancati e sull'orlo dell'isteria. Non riuscivo a respirare: avevo le mani posate a terra e arretravo continuamente, ma lui avanzava e lo specchio ci seguiva, come un'ombra, come se mi stesse dicendo che ovunque fossi andata i miei incubi peggiori mi avrebbero seguita. Non c'era via di scampo per me, lo sapevo da tempo. – Io non sono come te. -

- Siamo molto più simili di ciò che pensi, figlia mia. – Non potevo vederlo al di sotto della maschera, ma ero certa che stesse sorridendo: quel sorriso malvagio che avevo sempre odiato. Aveva sempre avuto quell'espressione da pazzo che mi terrorizzava ancora nei miei peggiori incubi; l'espressione che aveva quando mi si avvicinava da ubriaco e scagliava le bottiglie contro il muro alle mie spalle, incastrandomi in un angolino senza via d'uscita. Quell'angolo della mia piccola camera infernale in cui ero costretta a fare tutto ciò che voleva lui, sempre. Quelle quattro pareti avevano visto le cose peggiori ed erano state la mia prigione per anni. Per tanto tempo avevo sperato che qualcuno venisse a salvarmi, ma alla fine avevo pensato che ciò che meritavo era restare in quella fortezza protetta da un mostro, in cui non ci sarebbe stato nessun finale da favola ed in cui, anche se fossi stata liberata, i ricordi vissuti lì dentro mi avrebbero perseguitata fino al giorno della mia morte. Ero stata a lungo alla finestra, a guardare il cielo anche in piena notte, sognando di essere in una fiaba in cui magari Peter Pan sarebbe venuto a salvarmi, invitandomi a danzare tra l'eleganza delle stelle e a dimenticare chi ero sull'isola che non c'è. Ma la verità era che io ero all'inferno, che non c'era nessun principe e nessun Peter Pan.

- No – Scossi il capo prendendomi la testa tra le mani e stringendo i capelli nei pugni, disperata e agonizzante, di nuovo sola alla sua mercè. Ancora una volta mi ero ritrovata da sola, nessuno era lì per salvarmi. – No, noi non siamo uguali, non lo saremo mai. Tu sei un mostro. Sei cattivo, non troverai mai la pace, nemmeno morendo potresti trovarla. – Singhiozzai con il cuore che batteva all'impazzata.

- Perché tu pensi di trovarla? – Domandò scoppiando a ridere divertito. Rideva di me, come sempre, come quando ero bambina e credevo a ogni cosa che raccontava. Come quando diceva che mi amava e che era l'uomo della mia vita e io come una stupida gli credevo perché lui era mio padre, perché era il mio eroe, perché mio padre non mi avrebbe mai fatto del male. – Con tutto quello che hai fatto, il tuo destino è l'inferno. -

- Io sono già all'inferno, papà. – Replicai alzando il viso per guardarlo negli occhi. Desideravo terribilmente guardare le espressioni del suo viso mentre glielo dicevo, volevo vedere fino a che punto si sarebbe spinto. – Ci sono da tutta la vita, per colpa tua. L'unica cosa che hai saputo darmi, l'unica cosa che mi hai mostrato davvero, è stata il dolore. Grazie a te l'ho scoperto, mi sono trovata all'inferno vero e proprio, e non conoscerò mai altro posto che questo. Ecco chi sei: colui che mi ha portata all'inferno. -

Mio padre rise ancora di più, come se andasse fiero di ciò che aveva fatto e di quello che gli avevo detto. Come se fosse una cosa bella l'avermi trasformata in qualcuno che non aveva più un'anima e che era l'equivalente di un fantasma. Sapeva che il mio destino era quello di vagare per le strade per tutta la vita, in cerca della pace, ma senza trovarla mai. Sapeva che la colpa era soltanto sua, ma non gli dispiaceva, ne andava persino fiero. Ero consapevole del fatto che non si fosse mai pentito di ciò che mi aveva fatto, di ciò che aveva fatto a Benjamin quella notte, ma non credevo che fosse vomitevole fino al punto di riderci sopra in quel modo.  – Guarda tutte le cose brutte che hai fatto e capirai perché ti ho detto che siamo uguali. – Disse solamente.

Non risposi: non guardai nulla, rimasi ferma e tornai accovacciata in me stessa, a stringere le mie gambe e tapparmi le orecchie tentando di proteggermi da lui, ma consapevole che non ci sarei mai riuscita come non ci ero riuscita da bambina. – Guarda nello specchio, Victoria. – Esclamò urlando all'improvviso e facendomi sobbalzare nuovamente. La sua voce rimbombava nel silenzio, echeggiava spezzandolo e tornando a regalarmi sussurri e voci indesiderate che ripetevano la stessa identica cosa in continuazione.

Esasperata e priva di forze alzai la testa e mi voltai a guardare lo specchio, singhiozzando e piangendo con il mento poggiato sulle ginocchia. Mi mostrò il momento in cui avevano arrestato mio padre, quando mi aveva urlato che per colpa mia ci avevano separati e che io lo avevo tradito. Mi ricordò il giorno in cui avevano fatto del male a Benjamin, quando lo avevano picchiato in mezzo alla strada; rivivevo il momento in cui, al lago, Sam si ruppe la gamba in quel locale, per colpa di Michael e Christian, seguito dalla frattura scomposta di Ben, per cui era stato operato e aveva portato i chiodi per settimane. Mi mostrò il mio compleanno, quando avevo lasciato che la mia famiglia si sgretolasse dopo la scoperta del certificato di nascita di mio fratello, la casa a soqquadro e il compleanno distrutto. Rividi gli occhi di Sam riempirsi di dolore dopo aver scoperto che per colpa mia gli avevano nascosto la verità per tutta la vita, solo per proteggere me e rividi anche la sua relazione con Katherine distruggersi soltanto per far sì che rimanesse al mio fianco, concentrandosi esclusivamente su di me, per il mio bene. Lo sparo la notte di San Valentino, quando credevo che Ben fosse morto tra le mie braccia, le sue ultime parole e il mio grido disperato. La pistola che avevo impugnato, il grilletto che avevo premuto e il corpo di mio padre che lentamente si dissanguava davanti ai miei occhi. Io lo avevo ucciso: io avevo ucciso mio padre perché lui aveva tentato di uccidere noi. Il processo e Benjamin in carcere per colpa mia; la sofferenza delle nostre famiglie, per colpa mia; Sam che rinunciava a se stesso per starmi vicino, mentre perdeva l'unica persona che amava. Katherine che moriva tra le sue braccia perché io non avevo fatto ciò che mi era stato chiesto di fare: stare ferma. Se io fossi stata ferma lei non si sarebbe mossa, se non si fosse mossa lei sarebbe ancora viva e sarebbe ancora al mio fianco. Era tutta colpa mia: non facevo altro che far soffrire le persone che amavo, come una parassita. Ero io la malattia, non era lei ad essere dentro di me.

Tornai a guardare mio padre, al mio fianco, accucciato mentre fissava lo specchio con la testa piegata di lato. Appariva interessato, ogni tanto annuiva e indicava il riflesso divertito, facendomi soltanto sentire peggio.

Alla fine ci trovammo faccia a faccia: applaudiva come se avesse appena assistito a uno spettacolo teatrale ed io fossi l'attrice protagonista. Si inginocchiò e abbassò la testa, rizzò la schiena e scrocchiò le spalle, poi tornò a guardarmi negli occhi. C'era una luce diversa nel suo sguardo, tanto che mi spaventò al punto di farmi arretrare ancora di più. Si tolse la maschera, in quel momento, e quando abbassò il cappuccio e mi sorrise spalancai gli occhi percorsa da intensi brividi lungo tutta la spina dorsale, ancora più terrorizzata di prima. Chi si nascondeva sotto la maschera non era mio padre: avevo sentito la sua voce, avevo immaginato le espressioni del suo viso e rivissuto momenti con lui, mi aveva ugualmente terrorizzata però non era lui.

Ero io: ero sempre stata io.

Osservando me stessa di fronte a me con un ghigno perfido in viso, mi ritrovai a pensare che quello era il momento che definitivamente stava decretando la mia fine perché sentii il mio cuore fermarsi improvvisamente, il respiro venire a meno mentre lei avanzava verso di me gattonando. Io arretravo in preda al panico, annaspando in cerca di ossigeno, mentre lei camminava verso di me. Nonostante gli svariati tentativi per sfuggirle, riuscì ad afferrarmi per una gamba e trascinarmi più vicina. Mi sovrastava completamente con il suo corpo, dopo una risatina e un intenso sguardo, e una luce brillò intensamente nei suoi occhi azzurri come l'oceano, che mi riflettevano mentre sceglievo di arrendermi e abbandonarmi, nuovamente, alle lacrime. Non sarebbe servito più a niente combatterla, mi avrebbe presa comunque. Non disse niente, semplicemente mi osservò e, dopo un profondo respiro, posò le mani attorno al mio collo e strinse. Strinse sempre di più, prosciugandomi di ogni forza che mi era rimasta, risucchiandomi via la vita fino a farmi chiudere gli occhi, ma quella volta per sempre.

Mi svegliai di soprassalto alzandomi a sedere in preda al panico infame. Avevo il respiro affannato, mi sentivo caldissima e sentivo i capelli incollati al viso a causa del sudore. Cercai di mettere a fuoco le immagini e, dopo aver lanciato un'occhiata alla sveglia ed essermi resa conto che praticamente ora di pranzo, accesi la lampadina sul mio comodino per dare un po' di luce alla stanza buia: il piumino e il lenzuolo erano spiegazzati ai piedi del letto, facendomi ben notare quanto tormentato fosse stato il mio sonno, soprattutto perché erano terribilmente intrecciati fra di loro.

Mi accovacciai in me stessa, attirando le gambe al mio petto e stringendole come a volermi consolare da sola del fatto che avessi avuto l'ennesimo incubo. Posai il capo sulle ginocchia, chiudendo gli occhi e abbandonandomi alle lacrime: non sapevo nemmeno più per quale motivo continuassi a vivere. Ero stanca di esistere in quel modo, stanca di svegliarmi nel panico per incubo, di sentire bruciare le mie ferite in quel modo ogni giorno. Mi avevano sempre detto che il tempo curava ogni ferita e sistemava sempre tutto, che dovevo pazientare perché tutto sarebbe andato per il meglio, che non dovevo avere paura e non dovevo piangere, ma a me sembrava che più il tempo scorreva peggio le cose andavano. Non riuscivo a smettere di piangere, a smettere di sognare mio padre, a smettere di vedere la mia migliore amica danzare e ridere al mio fianco come se non se ne fosse mai andata. Le voci nella mia testa non si zittivano mai, avevano sempre qualcosa da dire e spesse volte ripetevano che la mia vita fosse vuota e priva di significato, sottolineando che se me ne fossi andata avrei fatto soltanto un favore a tutte le persone che amavo. Sembrava un viaggio di andata verso una sola meta, che di certo non era la felicità.

Gattonai trascinandomi fuori dal letto per farmi una doccia dato che probabilmente sarebbe arrivato Benjamin a breve visto che i miei genitori dovevano uscire e, prima di uscire, notai un tovagliolo poggiato sul comodino con le mie pastiglie che giacevano luminose sotto la luce della lampadina. C'era il risperidone, una pillola bianca e piccolissima e, accanto, le capsule colorate che prendevo da ormai anni, purtroppo. Pensandoci su mi sfuggì una risatina, per il semplice fatto che nonostante fossi in terapia da quando avevo praticamente tredici anni, poco prima, e nonostante prendessi quelle pastiglie da tutto quel tempo, non avevano mai funzionato. La verità era che gli attacchi di panico erano una costante per me, l'ansia, la paura, non se n'erano mai andate, nemmeno con tutte le pastiglie e i calmanti del mondo. Accanto alle pillole giaceva un bicchiere di spremuta d'arancia con un post it incollato sopra: andrà tutto bene, diceva.

Scossi il capo e roteai gli occhi al cielo: Richie. Al momento feci un piccolo sorriso, per la tenerezza che mi faceva quel gesto, ma quando mi soffermai a rileggere all'infinito quelle parole, l'istinto fece sì che stracciassi il post it e lo gettassi nel cestino accanto alla scrivania. Presi le pasticche in mano e spalancai la finestra lanciandole fuori senza nemmeno rifletterci troppo sopra e poi, come era già mia intenzione, mi dileguai a farmi una doccia.

*

Scesi al piano di sotto andando a sbattere contro la ringhiera delle scale e imprecando a voce fin troppo alta, tanto che sentii mio fratello scoppiare a ridere divertito e lo vidi venirmi incontro con un luminoso sorriso e il piatto di pasta stretto in una mano, nell'altra la forchetta. Mangiava masticando mentre rideva e mi osservava con la testa piegata di lato e un'espressione curiosa dipinta in viso. – Buongiorno fior di loto! – Esclamò con un sorriso.

Osservandolo mi venne da vomitare: non avevo assolutamente fame, soprattutto perché ero sveglia da meno di un'ora e avevo ancora lo stomaco sotto sopra a causa dell'incubo che avevo fatto. Vederlo mangiare come se non toccasse cibo da un mese fece stringere il mio stomaco ancora di più, tanto che mi posai una mano sulla pancia e arricciai il naso distogliendo lo sguardo e facendo gli ultimi gradini. – Chiudi la bocca quando mangi, schifoso -

- Che dire Vic, m'illumini d'immenso ogni volta. – Rispose Richie affiancandomi mentre mi dirigevo in cucina per bere un caffè. Sollevai il dito medio e alzai gli occhi al cielo senza fargli notare il sorriso che mi aveva regalato, nonostante la giornata fosse iniziata malissimo.

Varcare la soglia della cucina non fece altro che aumentare la mia nausea mattutina e la mia voglia terrificante di vomitare, dato che c'era odore di cibo a causa di Nicole che stava finendo di preparare il secondo piatto del pranzo.

Salutai Alexander con un bacio sulla guancia, mentre mangiava la sua pasta in silenzio e osservando sua moglie che armeggiava ai fornelli facendo cuocere il bacon. – Buongiorno tesoro, ti va della pasta? – Domandò scoccandomi un veloce bacio sulla guancia mentre gli rubavo il bicchiere di acqua.

- Ma mi hai vista in faccia? – Replicai indicandomi il viso e sollevando le sopracciglia.

Richie scoppiò a ridere così intensamente che Alexander, confuso, prese a sfarfallare le ciglia e alla fine non riuscì più a trattenersi. Mio fratello era rosso come un peperone e, in tutta onestà, non riuscivo nemmeno a capire per quale motivo stesse ridendo in quel modo a dir poco imbarazzante. – Sembri un'oca – Gli dissi indicandolo.

Richie si mise a imitare il verso dell'oca come un bambino, tanto che Nicole si girò per lanciargli lo strofinaccio in testa, soffermandosi però quando notò che Alexander stava lanciando pezzi di pane in faccia a mio fratello. L'obiettivo, teoricamente, era quello di centrare la sua bocca ma i pezzi di pane era ovunque fuorché in bocca a Richie. Osservando l'espressione di Nicole non riuscii proprio più a trattenermi e mi abbandonai alle risate nello stesso momento in cui lei si arrese sollevando le braccia e borbottando come se fosse esasperata da quei due. – Caffè o uova e bacon? – Mi chiese quando mi avvicinai a lei e posai la testa sulla sua spalla dandole un bacio sulla guancia.

- Che domande mi fai? – Sussurrai a denti stretti e tirando su con il naso.

Mi bruciavano ancora gli occhi, tanto che fui costretta ad allontanarmi da Nicole e passarmi le mani sul viso con un po' troppa enfasi. Erano terrificanti quel giorno: erano diventati grigi a causa delle ombre che passeggiavano nella mia mente e del ricordo di me stessa uccisa dall'altra me stessa, erano rossi e gonfi e, per regalarmi un tocco di classe in più, decorati da splendide occhiaie.

- Doppio in tazza grande? – Domandò vedendomi fare quel gesto.

Le sorrisi e presi posto accanto a Richie, poggiando la testa sulla sua spalla e chiudendo gli occhi accompagnata dal suono della sua risata. Sapevo che lo stava facendo per distrarmi e strapparmi un sorriso, tanto che dopo quel gesto mi pizzicò il naso con le dita e sorrise scompigliandomi i capelli. – Spero di averti migliorato la giornata – Sussurrò quando nostro padre si alzò per posare il piatto nel lavandino e aiutare la mamma. Strusciai la testa sulla sua spalla, non per qualche motivo in particolare, ma per il semplice fatto che avevo bisogno di non sentirmi sola. Richie sembrava comprendere, mi baciava fra i capelli e mi osservava in religioso silenzio. Il più delle volte non mi faceva domande, generalmente dipendeva dalle circostanze e da come apparivo ai suoi occhi. Era successo ancora che mi svegliassi nel cuore della notte a causa degli incubi o degli attacchi di panico e che uscissi dalla camera con l'intenzione di farmi un tè caldo, e quando succedeva lo trovavo fuori dalla porta, seduto a terra e con la testa poggiata contro il muro e gli occhi chiusi. Quando gli avevo chiesto per quale motivo lo facesse aveva risposto che voleva accertarsi che non avessi incubi quando lui non mi poteva sentire e non mi poteva aiutare. Era un gesto troppo dolce, uno di quelli che non meritavo, e apprezzavo davvero tantissimo il fatto che fosse disposto a dormire sul pavimento pur di accertarsi che stessi bene, ma non doveva. Nonostante gli avessi promesso che se fosse capitato qualcosa lo avrei chiamato, lui continuava a farlo nelle sere in cui mi vedeva meno tranquilla. – Ti ho sentita stanotte. Sono venuto da te sperando che ti tranquillizzassi, ma non sono nemmeno riuscito a svegliarti. Così sono rimasto con te il più possibile, magari avermi vicino avrebbe potuto aiutarti in qualche modo. -

Sollevai il capo incrociando i suoi occhi scuri e gli sorrisi dolcemente. I raggi del sole illuminavano le sue lunghe ciglia, proiettando ombre delicate sui suoi zigomi che mi ricordavano tanto una ragnatela. Gli lasciai un delicato bacio sulla guancia, poi afferrai la tazza di caffè e distolsi lo sguardo scuotendo il capo. – Non posso più vivere così. – Bisbigliai in maniera completamente apatica e fissando il vuoto, lo stesso vuoto che sentivo nel mio petto. – Io non ce la faccio. - Richie fece per afferrarmi la mano e parlarmi, ma prima che potesse farlo mi alzai in piedi e mi diressi verso il piano di sopra, dove sarei rimasta di nuovo sola con la mia ombra e la mia malattia. – Scusatemi. – Conclusi tornando, poi, a fare le scale.

Mi trascinavo nella mia stanza completamente catatonica, nella più totale disperazione consapevole che una volta chiusa quella porta nella mia testa se ne sarebbe aperta un'altra ancora peggiore, portando il mio inferno in quella stanza. Talvolta, quando rimanevo troppo nel regno delle ombre, mi sentivo come se io stessa stessi diventando un'ombra, sbiadendo lentamente sotto agli occhi delle persone che amavo. Lo sentivo sotto pelle quanto tutto ciò fosse reale, anche se nessuno vedeva ciò che vedevo io. Nessuno sapeva come fosse vivere nelle tenebre, io sapevo che fosse tutto nella mia testa, che i demoni giacevano attorno a me prendendosi gioco della mia fragilità e che soltanto io potevo vederli. Mi incatenavano a terra, graffiavano la mia pelle e distruggevano la mia mente ogni secondo di più, e ogni singola cosa mi chiedeva di smetterla di combatterli, di smetterla di lottare per salvarmi la vita, perché tanto non sarebbe servito a niente. Non mi sarei mai potuta salvare, sarebbe stato un loop infernale per l'eternità e mi chiedevo spesso quale fosse il momento in cui il diavolo avrebbe deciso di mostrarsi al mio cospetto, per guardarmi bruciare e morire ogni giorno lì nel suo regno, nel mio regno, dove non ero altro che la triste proiezione di un'ombra destinata a svanire nel nulla per sempre, perché anche la luce mi stava abbandonando per sempre e perché, senza quella, le ombre non esistevano. 

*

Era giunta nuovamente la sera.
Il mio angelo custode era arrivato in mio soccorso proteggendomi con le sue bellissime ali bianche, portandomi un angolo di pace là dove angeli e demoni gridavano in lotta fra di loro. Non potevo evitarlo, per cui rimanevo al buio lasciandoli fare consapevole che non potessi impedire che urlassero in continuazione. Ero caduta dall'Eden ancora una volta, ma il mio angelo era arrivato spiegando le sue ali e attutendo la mia caduta stringendomi al suo petto. Mi chiesi se fosse possibile la storia d'amore fra un angelo e una principessa dell'inferno fosse possibile, perché anche se non fosse stato così ero troppo innamorata di lui e del fatto che, entrambi, ci saremmo buttati nel fuoco pur di salvare la vita dell'altro. Lui sapeva quale fosse il mio destino, lo aveva sempre saputo ma non gliene era mai importato. Si era innamorato di me ugualmente, aveva lasciato che accadesse, e mi veniva da piangere solo a pensare a quanto quell'amore scavasse in profondità dentro di me. Lo percepivo sotto pelle, dentro le ossa, in ogni cellula del mio corpo.

Stavamo passeggiando mano nella mano sotto ai fiocchi di neve dopo che mi aveva portato una pizza e mi aveva obbligato ad uscire di casa promettendomi che non me ne sarei pentita e, in quel momento, pensai a quanto mi stessi perdendo rimanendo chiusa nella mia stanza per tutto quel tempo, soprattutto quando mi voltai ad osservare Benjamin decorato dall'eleganza e dallo splendore della neve candida. Le lunghe ciglia scure erano puntellate da qualche fiocco bianco e mentre sorrideva e mi faceva fare una piroetta in mezzo alla strada riuscii, una volta di fronte a lui, ad ammirare quell'opera d'arte come meritava di essere osservata. – Sei bellissimo – Dissi all'improvviso, rompendo il silenzio che quella danza elegante illuminata dal chiaro di luna aveva creato.

Ben si avvicinò a me posando le mani sulla mia vita e avvicinandomi a lui come se quel gesto fosse l'unico che avrebbe potuto salvargli la vita. Mi stringeva facendomi pensare che desiderasse sciogliersi tra le mie braccia, ma non sapeva che era solo nei suoi occhi che io riuscivo a trovare un appiglio, una piccola luce che smettesse di farmi sentire un fantasma. Ben sorrise così dolcemente, mentre posava la fronte sulla mia e i nostri nasi si sfioravano in quell'attimo prima del bacio, che il mio cuore perse un battito, portandomi ad allacciare le braccia dietro al suo collo e a farmi più vicina, per sentire il suo cuore palpitare insieme al mio e desiderando di fondermi con lui per trovare, finalmente, la pace. – Tu lo sei di più, nana – Disse prima di regalarmi un bacio che causò brividi intensi lungo tutta la mia spina dorsale.

Ben tuffò il viso fra i miei capelli e mi fece volteggiare nella notte e posandomi a terra solo per baciarmi di nuovo. Avrei tanto voluto raccontargli ciò che avevo sognato, come mi ero sentita, come ero stata per tutto il giorno, e avrei voluto dirgli che soltanto quando era arrivato lui avevo visto un lume di speranza ed era tornata la luce, nonostante sapevo non fosse permanente, nel regno delle ombre, scacciando i demoni per qualche istante.

– Perché mi hai portata qui? – Chiesi quando lui mi fece sedere sulla panca di fronte al bar in cui ci eravamo conosciuti mesi prima.

Avevo le sopracciglia corrugate e lo osservavo mentre lui, nervosamente, scrocchiava le dita delle mani e si mordicchiava il labbro come se non sapesse che cosa dire. Per un istante sentii l'ansia mangiarmi lo stomaco perché vederlo così agitato innervosiva anche me, per cui presi le sue mani e lo guardai negli occhi cercando di tranquillizzarlo. – A settembre dello scorso anno ti ho vista per la prima volta, proprio in questo locale. – Esordì voltandosi a guardare le porte d'ingresso con un timido sorriso. – Quando ti ho guardata ballare ho pensato di non aver mai visto niente di più bello al mondo. Eri così bella che tutto il resto sembrava insignificante, a confronto. Avresti potuto ballare anche senza musica, perché io avevo la sensazione che tu lo stessi facendo seguendo i battiti del tuo cuore. Più ti guardavo più continuavo a pensare che la musica la portassi nel cuore. – Disse tornando a guardarmi negli occhi e sorridendomi dolcemente. Mi accarezzò il viso con la mano, regalandomi un brivido e un sorriso, strusciai la guancia sul palmo della sua mano e chiusi gli occhi, pensando che fosse troppo prezioso per una persona come me, per questo mondo. – E quando mi hai guardato negli occhi sono letteralmente rimasto senza respiro. Non c'era mai stato niente che mi avesse tolto il respiro in quel modo, era come se vedessi l'oceano ghiacciarsi nel tuo sguardo e faceva paura, ma allo stesso tempo era uno spettacolo meraviglioso a cui non riuscivo a rinunciare, e al quale tutt'ora non posso rinunciare. Non posso credere che sia già passato un anno, anzi di più, che eravamo proprio qui e che ti ho incontrata completamente inconscio di ciò che saresti diventata per me. Credevo che non ti avrei mai più rivista, ma poi ti ho incontrata di nuovo, mi sono innamorato di te così intensamente da pensare che avrei rischiato ogni cosa pur di stare insieme a te e l'ho fatto. – Continuò prendendomi le mani mentre io tentavo di trattenere le lacrime. Non smettevo mai di piangere, era incredibile. – Ascoltami bene: tutto ciò che ho fatto lo rifarei, ogni giorno della mia vita. Affronterei le conseguenze di tutto ancora una volta, prenderei di nuovo quel proiettile per te perché ti amo e perché morirei per te, ma soprattutto senza di te. – Avrei voluto rispondergli, ma non me ne diede il tempo, perché mi guardò negli occhi e lasciò un lieve bacio sull'angolo della mia bocca, poi tornò a guardare l'ingresso affollato del locale e sorrise ancora di più. – Oggi ho fatto una cosa – Disse quando posai la testa sulla sua spalla. – Non te l'ho detto prima perché non mi sembrava il caso in un momento come quello. – Detto ciò tirò su le gambe e le incrociò sulla panca in modo da essere esattamente di fronte a me. Ormai i fiocchi di neve avevano colorato di bianco anche i riccioli che uscivo dalla cuffia nera che portava, e il cappotto che indossava. I miei capelli sembravano costellati da luminose stelline, secondo ciò che lui aveva detto poco prima, ma io pensai che l'universo si trovasse nel suo sguardo, soprattutto quando tornò ad osservarmi e sorrise, di nuovo, asciugandomi una lacrima. Tolse il giubbotto e sollevò la manica della felpa, lasciando spazio ai brividi di freddo che costellavano la sua pelle. Quando mi mostrò il braccio spalancai gli occhi incredula, sfiorando la sua pelle arrossata e ancora un po' gonfia attorno alle linee scure disegnate con cura e precisione. Aveva fatto un tatuaggio, il suo primo a dire la verità. Sapevo avesse l'intenzione di farlo prima o poi ma non avevo la più pallida idea di che cosa volesse fare. Aveva disegnata una rondine, in stile realistico, con le ali spiegate per il volo e all'interno del becco stringeva una rosa, dal gambo spinato. Il fiore era sfumato di nero, non erano presenti colori ne nulla di quel genere, ed era così realistico così che rimasi incantata ad osservarlo per infiniti minuti. Avrei voluto chiedergli perché avesse scelto proprio la rondine e la rosa, ma sapevo che il tatuaggio fosse una cosa prettamente personale e, soprattutto, m'infastidiva moltissimo quando le persone mi chiedevano il significato dei miei, per cui pensai che se avesse voluto dirmelo lo avrebbe fatto di sua spontanea volontà. – Le rondini sono conosciute, metaforicamente parlando, perché rappresentano i viaggi e le libertà. Una delle cose che ho capito amandoti è che il mio, di viaggio, è stare insieme a te, per sempre. Inoltre, la rondine rappresenta anche l'eterno ritorno: io tornerò sempre da te, Victoria, sempre.  Il mio cuore ti appartiene, tu mi hai permesso di trovare il mio posto nel mondo, di sentirmi libero, ed è per questo che tornerò sempre tra le tue braccia. Ovunque tu andrai, io sarò con te, in qualsiasi luogo tu vada. Una volta mi hai detto che per te le rose rappresentano l'amore eterno, e che quelle nere rappresentano la rinascita. Adesso siamo eterni, anche sulla mia pelle, e ti prometto che tutto questo finirà e troveremo la felicità, insieme. Non ho scelto di amarti in questo modo, e lo so che a volte ti sembra troppo, ma non c'è stato un momento soltanto in cui io mi sia pentito di tutto questo, mai. Queste spine sono la dimostrazione del fatto che non importa cosa accadrà, sono disposto a sacrificare tutto pur di non lasciarti andare mai, anche se questo dovesse significare avere milioni di spine sotto pelle dopo aver scelto di stringere la mia rosa nel palmo della mano. Perché stare con te è la scelta migliore della mia vita, quella che rifarei per sempre. Mi hai regalato un anno pieno di amore e libertà, e non potrò mai ringraziarti abbastanza per questo. – Concluse guardandomi negli occhi e facendomi sciogliere come se fossi ghiaccio sotto al calore del suo tocco.

Non c'erano parole per descrivere tutto l'amore che provavo per lui, per esprimere tutto ciò che portavo nel mio cuore da quando lo avevo incontrato, tutte le emozioni che mi aveva regalato. Mi aveva insegnato ad amare, nonostante non sapessi nemmeno cosa fosse l'amore, mi aveva fatta sentire amata, protetta, supportata in ogni passo che facevo. Da quando c'era lui nella mia vita non ricordavo una sola volta in cui fossi caduta senza le sue braccia a proteggermi ed era proprio per questo che lui era il mio angelo custode, e lo sarebbe sempre stato. – Tu sei pazzo, Woods. – Risposi accarezzando il suo viso e posando la fronte sulla sua. – Ogni cellula del mio corpo ti ama alla follia, perché sei l'unica cosa reale in questo regno di ombre, ricordatelo sempre. Ricordati che ti amo, qualunque cosa accada, tu promettimi che non te ne dimenticherai, mai. – Dissi con voce tremante e abbandonandomi fra le sue braccia strusciai la testa sul suo petto, solo per ascoltare il battito del suo cuore cullarmi dolcemente. – In questo mondo buio e popolato dalle ombre, tu sei l'unica luce. -

Ben mi guardò confuso qualche istante, ma alla fine mi sorrise, asciugando le lacrime che bagnavano continuamente le mie guance e stringendomi fra le sue braccia baciandomi fra i capelli. Abbassò il viso, cercando il mio, come se solo avermi vicina in quel modo lo facesse respirare per davvero. Sfiorai il suo tatuaggio con il polpastrello della mano e poi alzai lo sguardo incontrando i suoi occhi, nei quali non leggevo altro che amore, eternità, vita. – Buon anniversario, luce dei miei occhi. – Sussurrò avvicinando lentamente alle mie labbra.

Non gli risposi se non con un sorriso e allacciando le braccia dietro al suo collo per baciarlo più intensamente e respirare solo il suo amore. Non esisteva altro che lui, in quel momento. I fiocchi di neve che danzavano eleganti attorno a noi, facendomi pensare che stessere benedicendo quel folle amore che provavo per lui. Ben mi era entrato sotto pelle fin dal primo istante in cui avevo incrociato il suo sguardo, aveva portato un raggio di sole dove c'era sempre stato solo il buio. Aveva distrutto la foresta di rovi che incatenava il mio cuore da tutta la vita e mi aveva dato un motivo per cui lottare, sempre. E sapevo che qualunque cosa mi avrebbe riservato il futuro, qualunque cosa fosse accaduta, ci sarebbe sempre stata la sua luce a proteggermi.

Restammo lì per tutta la notte, su quella panchina, ad aspettare l'alba insieme. Io fra le sue braccia, persa nei suoi baci e nel suo amore, a contare le stelle e a immaginare di volare sulle nuvole insieme a lui, danzando fra i fiocchi di neve e trovando veleno e antidoto nelle sue carezze e in quei baci al cianuro di cui ero ebbra da sempre. Era tutta la vita che aspettavo di vedere l'alba, quella vera, e lui me l'aveva appena regalata.

___

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