I - Ordinary Day

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Okay, innanzitutto, più di 23mila visualizzazioni su Brand New Style. Senza parole, siete incredibili. E io che mi ero emozionata dopo aver raggiunto le mille...GRAZIE GRAZIE GRAZIE!
Adesso però vi lascio al primo capitolo, giuro, ma già che ci siete, votate e commentate anche questo :)
Un mega iper super abbraccio,xx
Ps: Happy birthday @harrystyles!

Just a day, just an ordinary day,
Just tryin' to get by,
Just an ordinary boy
(Vanessa Carlton, Ordinary Day)

Ad Harry sembrò di tornare a respirare di nuovo una volta varcato il cancello della scuola. Rimettendosi le cuffie dell'iPod nelle orecchie, il suo piccolo mondo ricominciò ad avere un senso. Camminava in fretta, le mani nelle tasche dei jeans strappati sulle ginocchia, il cappuccio della felpa oversize tirato sulla testa, lo sguardo perso nel vuoto davanti a sé. Cercò di scacciare i pensieri assillanti che affollavano il suo cervello. Doveva trovare una soluzione, non poteva permettersi di sbagliare. Il fallimento era diventato una parte integrante della sua vita, ma quel semestre non era previsto. Non poteva perdere la borsa di studio, semplicemente non poteva. Quella era la sua ancora di salvezza, il suo salvagente, l'unica cosa in grado di tenerlo a galla ed impedirgli di affondare una volta per tutte nel mare della follia. Non si pentì di aver gettato il biglietto che gli aveva dato il signor Dabrowski, non si pentì di non aver ascoltato i suoi consigli. Ce l'aveva sempre fatta da solo, questa volta non sarebbe stato diverso. Più raschiava il fondo del barile dell'auto-convincimento, più il respiro gli si faceva pesante. Scosse la testa. Non poteva fallire. Non poteva.
Il cielo grigio sopra Holbrook si scuriva col passare dei minuti, densi cumuli neri carichi di pioggia, sospinti dai venti autunnali dell'Atlantico, si ammassavano formando una coltre impenetrabile. Nell'aria si respirava già l'odore della pioggia. Harry odiava la pioggia. Odiava quella fragranza umida e acre, il battere incessante delle gocce sui vetri della sua finestra, il ticchettio costante dell'acqua che gli rimbombava nella mente. Rabbrividì, sforzandosi di non lasciarsi travolgere dai ricordi. I ricordi facevano male, mentre Harry il dolore aveva imparato ad ignorarlo. I calci, i pugni, gli schiaffi, niente lo scalfiva ormai. Ma i ricordi, le parole taglienti come lame, le immagini vivide e rosse, quelli provocavano un dolore al quale ancora non era in grado di sottrarsi.
Giunse a casa, notando il vialetto ancora vuoto, così com'era ancora vuota l'abitazione. Poteva fare tristezza guardare quel giardino trascurato, con l'erba troppo alta, rinsecchita dalla calura estiva, ma ad Harry invece piaceva. Gli trasmetteva un senso di calma e pace. Il simbolo di tutto ciò che rimaneva immutato.
Chiuse la porta blindata dietro di sé. Fece per fare qualche passo, ma poi tornò indietro. Girò la chiave e riaprì. Poi la richiuse. Una volta, due, tre. Alla quarta fu soddisfatto ed abbandonò lo zaino ai piedi del tavolo in cucina. Accese l'interruttore, poi lo spense. Poi lo accese di nuovo. Riempì una tazza di latte ed afferrò la scatola dei suoi amati Lucky Charms, che più o meno comprendevano la quasi totalità della sua dieta. Dal primo cassetto accanto ai fornelli estrasse un cucchiaio. Lo esaminò con cura, prima di decidere di rimetterlo a posto e prenderne un altro. Ci meditò su, per poi riprendere quello che aveva appena scartato. Seduto a tavola, sorrise, le labbra umide di latte. Quando ci rifletteva, riusciva in parte a capire lo sgomento dei suoi compagni di scuola, o di chiunque avesse a che fare con lui in effetti. Sapeva di essere ridicolo, sapeva quello che le persone pensavano guardandolo, ma non riusciva a smettere. Era più forte di lui.
Lavò la tazza vuota per almeno un quarto d'ora prima di riporla nell'anta sopra il forno, quando udì il rombo del motore di un'auto che parcheggiava. Afferrò lo zaino da terra e corse su per le scale, sbattendo la porta della sua stanza prima che quella di ingresso si aprisse.
(A/N: Lucky Charms, una nota marca di cereali negli Stati Uniti)

Farsi la doccia dopo l'ora di ginnastica per alcuni studenti poteva essere paragonata ad una sorta di tortura, tanto fisica quanto psicologica, costretti in uno stanzone colmo di vapore e nudissimi giocatori di football. Ad Harry non importava. Lo scherno e le pessime battute non lo sfioravano nemmeno; una volta fatto il callo, la pelle diventa insensibile. Erano i suoi compagni che avevano un problema con lui. Era contagioso, dicevano. Era pazzo. Dividere lo spogliatoio con lui era pericoloso. Ed ecco che quindi si ritrovava costretto ogni santissima volta a lavarsi per ultimo. Il che non era nemmeno male, a lui la solitudine piaceva. Nell'isolamento ci trovava quasi conforto. Ma il dover aspettare che tutti gli altri ragazzi lasciassero la palestra, gli imponeva di fare in fretta, o arrivare in ritardo alla lezione seguente.
Quella mattina il suo orologio biologico era rimasto fra le calde coperte della sua stanza, a seguito di un'altra notte insonne. Così il suo personalissimo rituale post educazione fisica aveva subito un rallentamento notevole. Con la testa perennemente incassata nelle spalle, lo sguardo puntato al pavimento, Harry percorse a passo svelto il lungo corridoio che conduceva alle scale del secondo piano. La sua postura non era da confondere con quella di una persona insicura; non desiderava alcun contatto umano, d'accordo, ma gli occhi concentrati sui propri passi avevano una ragione ben precisa. Harry non calpestava mai le fughe fra una piastrella e l'altra. Prestava meticolosa attenzione a non posizionare mai il piede sulle righe. Per questo motivo andare a sbattere contro un compagno, appena girato l'angolo, era piuttosto comune. In quel preciso istante, dopo la botta contro quel torace ampio, contro quel ragazzo che torreggiava su di lui di almeno quindici centimetri, si sentì sbilanciare all'indietro, e goffo com'era, non riuscì ad evitare di cadere all'indietro, atterrando con un tonfo sordo sul freddo pavimento in gomma dura. Digrignò i denti, sibilando per l'urto e per aver inavvertitamente poggiato la mano proprio su una delle fughe tra due mattonelle.
"Stupido coglione! Non guardi dove vai?" Wayne Tanner, il quarterback della squadra di football. Le ragazze volevano stare con lui, i ragazzi volevano essere come lui. Harry avrebbe desiderato vederlo bruciare. L'energumeno che aveva sorprendentemente soltanto diciassette anni per una stazza simile, lo tirò in piedi trascinandolo per il cappuccio della felpa, mandandolo a sbattere contro la parete di cartongesso. Una botta un poco più forte e la testa riccioluta di Harry avrebbe lasciato il segno sul muro.
"Parlo con te, psicopatico," sbottò di nuovo Wayne. Il volto di Harry rimase impassibile, senza tradire la più piccola emozione, come una tela bianca. Non sbatté nemmeno le palpebre. La montagna di muscoli e steroidi avrebbe potuto urlare e menare le mani all'infinito, ma Harry non si era mai piegato e non l'avrebbe fatto nemmeno in quel momento. Tutto ciò che lo preoccupava adesso era quella maledetta fuga fra le piastrelle che aveva toccato con il palmo della mano. Wayne avrebbe potuto morire di autocombustione ed Harry non avrebbe battuto ciglio.
Vide il suo pugno mastodontico serrarsi fino a che le nocche non gli divennero bianche ed alzarsi fino al livello del suo naso, poi chiuse gli occhi, aspettando l'inevitabile. Li riaprì nel sentire una voce familiare e non l'urto sul suo viso.
"Cosa sta succedendo qui?" Il professor Dabrowski era in fondo alle scale e li fissava con le braccia conserte. Wayne si affrettò a ritrarsi e a sorridere mettendo in mostra i denti bianchi.
"Nulla signore, io e Styles ci stavamo solo scambiando qualche parola," disse, sul volto un ghigno che sembrava dipinto dal diavolo in persona. Harry lo guardò aggrottando le sopracciglia, poi tornò ad abbassare la testa, evitando di incrociare lo sguardo del professore, che nel frattempo li aveva raggiunti. L'uomo emise quello che sembrava un grugnito di disapprovazione, prima di chiedere, "Harry, sicuro che vada tutto bene?"
Il riccio non alzò il capo, ma si limitò ad annuire lentamente.
"Bene. Signor Tanner, le consiglio di andare in classe se non vuole che la mandi dal preside. Ora," ordinò con un tono che non ammise repliche. Wayne si congedò rapidamente e sparì dietro l'angolo, non prima di aver lanciato un'occhiata glaciale ad Harry. Il prof di matematica si schiarì la gola e poi sorrise gentile.
"Harry, visto che sei qui...hai sentito il tutor di cui ti avevo parlato? È passata una settimana e non mi hai più detto nulla." Al riccio si contorsero le budella. Era abituato al silenzio, non alle menzogne.
"Ehm, sì, cioè, no...ecco, non-non mi ha risposto," e si diede mentalmente dell'idiota. Il signor Dabrowski lo studiò con un sopracciglio alzato, prima di sospirare. Mise una mano sulla spalla di Harry, sperando di essergli in qualche modo di conforto. Sbagliato. Harry odiava essere toccato. Dio solo sa quanto germi e batteri avrebbe potuto trasmettergli quel contatto. Senza considerare quelli che sicuramente si era già scambiato con quello scimmione di Wayne.
"Fammi sapere quando lo senti, d'accordo? Vorrei davvero aiutarti, Harry," ecco di nuovo quella vocina irritante. Compassionevole, carica di un'empatia che suonava così tristemente falsa. Harry annuì ancora, regalandogli un mezzo sorrisetto pur di farlo contento.
Non si presentò alla lezione di chimica, era già tremendamente in ritardo. Tanto valeva nascondersi nel bagno più vicino e lavarsi le mani fino a che tutti i germi non se ne fossero andati. Sarebbe stato un lungo processo.

Destiny Deranged - A Larry/Ziam FFOù les histoires vivent. Découvrez maintenant