1.2 ┃ ACQUA

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La portarono dentro, subito oltre la soglia.

Leuce tremava. Il freddo di quel luogo le penetrava la pelle come non mai in quei giorni, le risaliva lungo le gambe attraverso le ciabattine dal pavimento gelido. Qualcuno la teneva. Non sapeva chi. Leuce riusciva solo a piangere, e a guardare fuori dal portone dove la folla si stava disperdendo.

La corte di Poseidone se ne stava andando senza di lei.

Pianse più forte. Chiese a chi la tratteneva di lasciarla andare, o almeno ci provò. Non ottenne nulla. La disperazione le stava divorando gli organi come un lichene soffocante, crescendole dentro, uccidendola.

Solo quando vide Ade e i suoi collaboratori entrare, si buttò in ginocchio.

Cadde di peso e si fece male alle ossa, ma non le importò. Si abbassò contrita, si strinse nel peplo bianco, quello corto che ormai si vergognava di portare. Stupidamente, le venne in mente quello celeste, che stava tessendo con sua madre, e le venne da piangere ancora di più.

Che sciocca che era... davvero una sciocca, a pensare a un vestito, in quella situazione.

Sentì il re avvicinarsi e vide i suoi piedi color marmo grigio, imprigionati nei sandali, fermarsi davanti a lei. Non osò alzare lo sguardo.

"Vi prego!" la voce le uscì tutta rotta, "Vi prego, rimandatemi a casa! Non posso stare qui!"

"Se ti rimando indietro, Poseidone penserà che sei stata negligente."

"Non mi importa! Sono negligente, lo sono! Ma voglio tornare a casa, le mie amiche, mia madre..."

"Preferisci essere punita da Poseidone che ignorata da me? Le tue priorità sono alquanto discutibili, ninfa."

Leuce alzò la testa solo per provare a implorare meglio, anche se fino a quel momento non era servito ad altro che a spaventarla di più. Per la seconda volta, incontrò lo sguardo della certezza e si sentì trafiggere. Dal basso, quel Dio immenso sembrava una montagna, portava ombra anche nel regno delle ombre eterne.

Ade non disse nulla, ma pareva disgustato. La mascella gli si irrigidì, poi fece per abbassarsi e afferrarla.

Leuce scattò indietro, fin dove poteva. Urtò le gambe di un servitore e si rannicchiò. Non voleva essere toccata da quell'uomo, e che fosse un re o un Dio non aveva più importanza.

Ade rimase solo un secondo con la mano a mezz'aria, il palmo rivolto verso l'alto. E solo allora, con quella brevissima esitazione, in un minimo momento di lucidità, Leuce si rese conto che non voleva afferrarla: si era abbassato per porgerle la mano.

Fece in tempo a sentirsi in colpa solo un momento, perché subito il Dio ritirò l'offerta e si raddrizzò di nuovo, in piedi, irraggiungibile. La guardò fisso, la rimproverò con la certezza.

"Cosa pensi che ti faccia? Sei solo una ragazzina."

Leuce interpretò il suo tono neutro come estremamente disgustato. Non l'avrebbe mai detto, ma si sentì umiliata. Non voleva sembrargli adulta, ma quelle parole l'avevano ferita dentro, e le facevano sembrare il peplo corto ancora più corto.

"Io... mi..."

"Alzati da terra e poni un freno a questo piagnisteo. Miriam ti mostrerà il gineceo. E non temere, non ti obbligherò ad amarmi. Basta solo che non crei scompiglio nella corte, per il resto fa' ciò che credi."

Non fece né disse altro. Si volse e, quieto eppure rigido, si incamminò lungo il corridoio, il chitone che svolazzava dietro di lui.



Miriam era una donna molto pragmatica e di soluzioni drastiche e repentine: Leuce se ne rese conto subito, appena questa tentò di farla alzare dal pavimento. A parole era gentile, ma con i gesti secca, imperativa.

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