#1 "Angels in the Dark"

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Le 3:00 di notte, la gente dorme, protagonista dei suoi sogni e dei propri incubi. Forse è così che mi piace pensarli. Inerti, con gli occhi chiusi, il respiro leggero e regolare, il viso d’angelo senza svegliare il loro lato assassino. Mi piace l’idea di non sentire le loro parole, i loro giudizi, tanto ascolterei solo bugie.
Ho un misto di rabbia, tristezza, e delusione per le persone, che ormai mi fanno solamente schifo.
In questo momento vorrei facesse davvero freddo, avere solo una felpa addosso e potermi risentire viva tramite i brividi e i tagli di gelo che lascia il vento sul mio corpo e sulle mie guance rosee; vorrei  star seduta a gambe incrociate sugli scogli ed essere circondata dal nulla se non dal mare davanti a me. Vorrei aver lo sguardo fisso lontano, perso verso l’orizzonte, vorrei che il cielo fosse grigio, e di riflesso, anche l’acqua del mare. Grigio. Non c’è colore più adatto di come mi senta ora. Un’anima bianca di purezza, ingrigita dalle ceneri dell’inferno in cui si trova e vive.
E invece sono qua, immersa nel buio della mia stanza, con le gambe attorcigliate alle coperte, che con la luce della luna proveniente dalla finestra sopra il mio letto, sembrano di un colore bianco sporco e antico.
Ho appena avuto un incubo, e nonostante sia già metà dicembre, sono tutta sudata, coi capelli annodati e spettinati dai troppo giri e rigiri durante quelle ore. Un incubo: non c’è differenza tra il giorno e la notte.
È da un po’ che sono sveglia, ma non voglio sapere quanto tempo sono stata sdraiata sul letto a pensare a cose senza senso, guardando un punto non preciso del cielo attraverso i vetri della finestra; non mi interessa sapere che ore si son fatte, né pensare che domani avrei dovuto svegliarmi presto per andare a prendere quel treno vecchio e malconcio verso quella prigione di scuola. Dicono che qui ti insegnano a vivere. Io ho imparato solo a come morire.
Vorrei fermare il tempo, rimanere lì per sempre in quella buia e notturna tranquillità, eppure non vedo l’ora che questa notte passi, che tutto passi.
Ed il mio istinto è ancora quello di andarmene da un mondo in cui io non mi sento più parte.
Mi alzo dal letto e nonostante abbia solo una maglia bianca e leggera che uso per dormire, apro la maniglia di quella finestra che da sul tetto, e sento già il freddo invadermi il sangue.
Non importa.
Mi arrampico, e come ogni notte trascorsa nella mia solitudine, mi ritrovo ad osservare la vita notturna da lì sopra.
Le luci della città sono spente, così come la speranza, fiamma di una candela che resiste al gelo e alla neve, ma che si spegne per una piccola lacrima, un piccolo dettaglio che nessuno noterebbe.
Nessuno sveglio, a parte qualche rara persona innamorata, come me, delle stelle. Nessuno sveglio, se non quel groviglio di milioni di nodi, pensieri incasinati e taglienti come lame gelate. Brividi di freddo, ogni volta che uno di loro sfugge al mio controllo nella notte scura, che mi indebolisce e riemerge ogni mia paura.
Rimango sola, ancora una volta, ad osservare la notte, la parte morente del giorno, cullata dal vento che scompiglia i miei capelli, e che cerca invano di spegnere i pensieri, di far morire la mia dannata mente. Magari per un po’. Magari per sempre.
Mi sdraio sulle mattonelle rosse del tetto, per vedere le stelle. È una cosa che faccio fin da bambina, mi ha sempre rilassato, mi calmava quando piangevo, come se essere circondata da quella moltitudine di stelle mi facesse sentire meno sola. Ma quando i miei occhi si posano sul cielo, l’unica cosa che vedo è un colore cupo, velato, senza la presenza di quei piccoli fari di speranza. Si sta facendo brutto tempo, un po’ come dentro me. Passata la notte, la pioggia e il vento lasceranno spazio al sole. Ma la tempesta delle mie lacrime finirà mai?
Seguo la linea chiara e infinita che formano le nuvole col riflesso della luna, e la mia mente ne fa uno svago personale, finché non vengo strappata dalla mia quiete da delle risate, parole urlate troppo forti che stonano col dolce silenzio della notte, e poi il suono di una bottiglia di vetro che cade, che si spacca in mille pezzi. Ma qua non è l’unica cosa andata in frantumi.
C’è un ragazzo, alla fine della via. Corre, e trascina con sé una ragazza che lo segue senza smettere di ridere. Nella mano libera regge una bottiglia, di birra credo. Immagino gli occhi di lei brillare come stelle in mezzo al buio della notte. Li conosco quei pensieri, ragazza, il desiderio di essere felice, la speranza di essere amata per sempre.
Ma i desideri sono sogni che vorresti ma non puoi avere. E la speranza non è una certezza, è solamente un'illusione che pian piano si affievolisce e muore. E poi muori anche un po’ tu.
A volte mi domando perché tutto dipenda da degli stupidi pensieri, da immagini che vediamo , o parole che sentiamo. Condizioniamo il nostro umore, la nostra salute, e perfino la nostra vita, in un modo troppo semplice: gli altri causano avvenimenti che facilmente ricadono tutti su di te. Loro dettano la tua vita, e tu, come un protagonista di un libro, sei destinato ad obbedire ai loro voleri e a morire alla fine di quelle pagine. Perché chi ti vuole buttare giù inciderà parole indelebili che ti faranno affondare in acque buie e profonde, anche nel più secco dei deserti: non hai potere, loro dettano parole, e le parole dettano legge.
Sento un bruciore improvviso alle braccia: sta iniziando a piovere, come se avessi contagiato il cielo con la mia tristezza, e volesse riempire il vuoto che ho nel petto con le sue lacrime. I tagli si gonfiano e fanno male, ma sfortunatamente non troppo da poter deviare il pensiero da ciò che ho dentro. Ti avevo promesso di non farlo mai più. Perdonami.
Guardo la mia pelle, prima bianca come il latte, ora marchiata da lividi e da permanenti cicatrici, segnata per sempre da ricordi che bruciano di urla, e odorano di una vita passata a morire.
Le persone mi definiscono forte, nonostante mi diano della debole. È un controsenso, lo so, nemmeno io l'ho mai capito. Credo che ti diano aggettivi asseconda della situazione, di come viene comodo a loro.
Ma su una cosa sono tutti d'accordo: trasmetto forza alle persone, le metto un senso di tranquillità e di pace da poter affrontare ogni momento buio, assieme a me. Già, questo non lo nega nessuno, sono tutti bravi a prendere ciò che dai, senza che ti ritorni qualcosa in cambio. Amici. Questa parola contiene al suo interno la parola amore. Ma a quanto pare è uno sbaglio, non credo che amare voglia dire approfittare dell'altro per poi lasciarlo pieno di false speranze, ricordi che fanno male e cicatrici che non potrà più risanare. Amici. Questi non dovrebbero lasciarti in disparte perché han trovato qualcuno migliore di te. Amicizia non è usare e andarsene dopo averti consumato.
Eppure è ciò che lei ha fatto, ciò che fanno tutti. Avete presente quando ad un certo punto della vostra vita, vi sentite finalmente capiti da qualcuno, quando trovate qualcuno che vi fa ridere, con la quale ridere? Certo che lo avete presente. Almeno una volta nella vita ci siamo sentiti tutti amici di qualcuno. E io mi sentivo amica sua. O meglio, ho sempre pensato che lei fosse mia amica. Ma il tempo vola, le persone cambiano, i sentimenti passano. Ma chissà perché, tra due persone, tutto questo succede solo ad una, mai ad entrambi. E l’altra rimane lì, a chiedersi perché, a guardare le persone allontanarsi, a sentire crollare il tutto. Cosa fanno gli amici? Sbaglio o si aiutano? Si confortano? È davvero questo il loro compito, o è solo una stupida recita che si scrive nei libri? Le raccontavo tutto, la rendevo parte della mia vita, e lei faceva lo stesso con me. Ero felice quando lo faceva. Credevo fosse normale, ma purtroppo credo a troppe cose. Sarò strana, ma sono felice quando le persone si aprono con me: la vedo come un segno di fiducia, o semplicemente, di amicizia. Ma a quanto pare in molti lo percepiscono come un peso, ciò che vogliono è recitare la loro parte e fare finta di tenerci. In effetti è anche colpa nostra. Abbiamo sminuito troppo il termine “amico”, ormai chiamiamo così anche chi conosciamo da poco, non diamo differenza tra chi lo è davvero un amico, e chi non. Forse perché non ce ne rendiamo conto. Troppo felici a pensare di avere qualcuno al nostro fianco. E poi arriva quel momento in cui ci rendiamo conto che siamo sempre stati soli. Amicizia è sostenersi a vicenda, esserci. E allora perché lei mi ha rinfacciato di ogni cosa che le raccontavo? Ho sempre messo lei prima di tutto, nel nostro rapporto, perché per me era importante. Ogni cosa che le raccontavo la alleggerivo, perché odio far pesare i miei problemi alle persone, eppure lei era stanca di questo, stanca di me, e mentre lo diceva, non ha più pensato ai momenti in cui l’ho fatta ridere.
Non ci provo più a definire qualcuno come ‘migliore amica’. Le persone sono tutte uguali, nessuno è migliore. O almeno, non con me.
Da quel giorno non mi sono mai più aperta con nessuno. E forse questo mi sta uccidendo: ogni cosa che mi tengo dentro è una lama di un coltello, un’arma, che graffia, squarcia, uccide piano piano, ogni parte di me. Ma almeno sono io a farlo. Non voglio più dare questo potere agli altri. O forse è esattamente ciò che sto facendo?
Tutti così fanno, ogni volta che rientro a casa, felice di aver incontrato qualcuno, mi aspetto sempre il giorno in cui lasceranno un vuoto dentro di me, che felice quasi non lo sono neanche più.
E mentre a me la pelle brucia, I due ragazzi prendono la pioggia elemento di gioco, finché sotto la luce dell'unico lampione sulla strada, lui la bacia, facendo ritornare il silenzio, nonostante il rumore della pioggia che cade, nonostante i pensieri che urlano.
Chissà che sapore hanno i baci, quelli veri, quelli dove è il cuore che parla, e non uno stupido meccanismo a cui non si è mai dato il giusto valore. Chissà come è baciare senza sperare disperatamente di valere qualcosa, aggrapparsi alle labbra di qualcuno come se ti stessi aggrappano al suo cuore. Chissà come è baciare senza pensare a nulla di tutto questo. E chissà come è essere sicuri che le braccia che ti stringono ora non ti lasceranno mai, avere la mente libera dal pensiero di perdere quella persona.
E io ne ho baciate di labbra, da cui pendeva solo veleno, ne ho strette di mani, le stesse che tenevano il coltello dalla parte del manico e la lama puntata al mio cuore.
Quanto posso essere ingenua, dare troppo con la sola speranza di essere un giorno ricambiata. E poi passano i giorni, ma di quel giorno nemmeno l’ombra. Ne arriva un altro, invece, quello in cui con le lacrime agli occhi, ti fa schifo la tua immagine riflessa, perché la dignità la hai, è che hai solo troppo cuore, e ti accorgi troppo tardi che tutto quanto ti ha tolto più di quanto avevi prima.
Non è colpa mia. Però glielo urlo sempre, alla ragazza riflessa allo specchio. A quella dagli occhi rossi per il pianto, le labbra insanguinate, le costole troppo evidenti, e la pelle segnata.
Il freddo inizia a farsi sentire più di prima, d’istinto mi riscaldo le braccia con le mani, ma non ho voglia di tornare dentro, resto a giocare coi brividi che il vento da. Mi è sempre piaciuto, convincere il mio corpo di essere più forte del freddo. Convincere me stessa di essere più forte di tutto.
Le mie mani fredde mi stringono in un abbraccio, sotto la pioggia di dicembre. Mani. Con queste puoi ricevere l’affetto migliore di cui nessuno parla: puoi far sentire una persona meno sola, soltanto afferrando e stringendo la sua; puoi ricevere abbracci e morirci dentro e rinascere allo stesso tempo, scordando tutto quello che ti tormenta. Non serve che vado avanti, sono l’ultima persona che può spiegare modi per dare e ricevere affetto. Eppure, le carezze, le mani che sfiorano dolcemente la pelle, lo trovo un gesto tanto dolce… Il problema è che le mani di certe persone, per quanto bianche di purezza siano, sono impregnate del rosso del mio sangue.
Anni dopo, la fobia non passa. Non può passare, quando fin da bambina hai imparato da sola che servono per fare del male. Ricordo ogni maledetta volta, ogni bruciore e ogni ferita. Ricordo troppo bene, come se fosse ieri, eppure ero ancora troppo piccola.
Avevo la mania di tenere un diario, da bambina, e non perché mi intrigava la cosa di tenere i miei segreti da qualche parte, ma perché quello era il mio sfogo personale, e nessuno avrebbe mai letto e giudicato. E quelle parole venivano lasciate lì, mai più rilette, ma mai più dimenticate.
Cosa può scrivere una bambina di 7 anni? Magari delle prime amicizie, delle marachelle a scuola, cose così. Non lo so, io non scrivevo queste cose. Quelle pagine non sanno più di carta, ma solo di lacrime. Su quelle pagine riportavo il disprezzo degli altri nei miei confronti, riportavo ogni rissa, ogni livido.
Scoppio a piangere, in silenzio, ricordando le lacrime di quella bambina che si rifugiava dentro i libri, e nella scrittura. La sua infantile grafia, le sue parole da matura.
E il mio pianto si unisce alla pioggia, mentre ripercorro ciò che mi ha ferito, ogni loro frase, attaccata al muro, le mani a proteggermi gli occhi, ma con nessuno a proteggere me. Nemmeno io lo facevo.
Cosa ho fatto per meritare questo già da bambina? I bambini dovrebbero crescere spensierati, avere ancora la testa fra le nuvole.
Io invece mi consideravo una nullità già a 7 anni. D’altronde, cresci con le idee che ti mettono in testa, con i discorsi e le parole che ascolti di più. E io sentivo solo quelle.
E le sento ancora ora, ogni giorno, mi ripeto che voglio essere perfetta per me, ma in testa ho ancora la perfezione che han dettato gli altri.
Non riesco a toccare cibo senza pensare i giudizi che hanno sempre avuto sul mio corpo. Prima troppo grassa, poi troppo magra.
Basta. Non voglio pensare a questo.
Voglio cancellare tutto dalla mia mente, spegnerla, azzerarla, ma non ci riesco.
Tutto ciò che riesco a fare ora, è piangere.
Eppure di piangere l’ho fatto troppe volte, ma ora non c’è più nessuno dalla mia parte. Mi avevi ripetuto, giurato, promesso, che non eri una copia degli altri, e sei perfino riuscito a farmelo credere. Eri così perfetto per essere vero, ma sei solo bravo a giocati la tua parte come giochi con le corde della tua chitarra. Ero convinta che ti interessasse davvero di me, e sono stata stupida a crederci, a chi interessa di me? A nessuno. E dovevo saperlo, non dovevo crederti, ma sei stato troppo furbo, e io ancora ingenua. Mi attiravi con l’affetto.  Certo, le persone si attirano dando ciò di cui hanno bisogno. E tu l’avevi capito, che era questo il mio punto debole. Mi raccontavi un sacco di bugie, bugie che mi han fatto innamorare, finché le consideravo verità. E invece ho dovuto scoprire da sola tutto quanto, e da sola affrontarlo. Hai aperto al mio cuore ad un’altra tragedia: l’attore perfetto in una falsa commedia.
Voglio che tu trova l'amore, voglio sentirti parlarne coi tuoi amici come se fosse l'unica cosa che ai tuoi occhi sia perfezione. Voglio vedere i tuoi occhi brillare di speranza, il tuo cuore in fiamme per la ragazza con cui mi hai sostituito. Talmente in fiamme da bruciare. Voglio che lei lo alimenti quel fuoco, che ti faccia provare le fiamme dell'inferno, per poi lasciarti nella cenere. Ti auguro di provare ciò che sto provando io a causa tua, voglio vederti piangere, illuso dalle false speranze che lei ti ha dato. Voglio che ti salga la nausea a pensare ad ogni cosa che ti colleghi a lei, ad ogni cosa che hai detto, ad ogni bugia che hai creduto. Voglio che tu sappia quanto questo faccia schifo, voglio che tu prova quanto tu mi hai fatto male. Ti odio, con tutto il cuore, più di quanto ti abbia amato.
Le persone sono tutte uguali, o forse sono io troppo diversa. Mi sento sbagliata, in ogni posto: il cuore di qualcuno non avrà mai posto per me, la scuola non sarà mai il luogo dove avrò amici, e casa mia non potrò mai definirla casa. Cosa ci faccio ancora qua?
Le lacrime mi offuscano gli occhi, ma non offuscano i miei pensieri. La mia mente mi passa davanti immagini di falsi momenti in cui ero felice, come a ricordarmi cosa non ho, cosa mi è sempre stato strappato via troppo in fretta. Tutti gli amici andati, i tradimenti da parte di chi più amavo, la mia famiglia che mi ripete ogni giorno quanto io sia un fallimento, per loro è per tutti; e poi le botte a scuola, quella sera di cui non ho ancora il coraggio di spiegare davvero cosa sia successo.
Non mi è rimasto nulla. Nulla è nessuno.
Cosa ho di sbagliato? Cosa non ho che le altre hanno? Perché sono l’unica che non viene mai apprezzata, mai capita? Sono sempre la ruota di scorta, quella che viene usata. Uno strumento per far felice qualcuno. Uno strumento usato, consumato, e poi lasciato lì, quando non se ne ha più bisogno. Una bambola dei giochi di qualcuno, coi capelli un po’ spettinati, il vestito un po’ consumato, buttata in un angolo della stanza assieme a giochi vecchi, ormai passata di moda e dimenticata per sempre.
Se prima le lacrime scendevano in silenzio, ora i miei occhi si trasformano in fiumi di disperazione, e crollo, in un pianto troppo forte, troppo disperato. Perché quelle immagini fanno male, quei pensieri ammazzano.
Con le mani mi copro gli occhi, come se mi nascondessi dalle stelle, e mi sdraio del tutto sulle tegole rosse e fredde del tetto: la pioggia che mi bagna tutta la maglietta, che si mescola alle mie lacrime.
Il cuore batte forte, troppo forte, che quasi rischia di scoppiare e rompersi in mille pezzi. Non che non sia già in questo stato.
Non riesco a respirare. L’aria non mi arriva, inizio a vedere tutto più sfocato, eppure quelle immagini le ho sempre impresse nella mente. Il rumore della pioggia si fa più lontano, ma il mio pianto, le mie urla passate, quelle maledette voci, non si fermano. Non riesco a respirare.
Devo smettere di piangere o finisce male.
Mi tiro su, devo rientrare, devo prendere le medicine. Devo addormentarmi, non pensare a nulla.
Ansimo e piango allo stesso tempo, la testa mi gira, e per un momento non mi sento più dentro al corpo.
Le gambe mi cedono, ma io non me ne accorgo.
***
Sento un dolore fortissimo alla testa, ma anche alla schiena, alle gambe. A tutto il corpo, nulla escluso.
Sento la pioggia in lontananza, ma la sento lo stesso picchettare sul mio corpo, immobile e quasi inerte su un letto grigio e tagliente. I miei occhi bruciano, come la mia pelle.
Chiudo gli occhi, per poi aprirli lentamente. Non riesco a muovermi, ma riesco comunque a vedere quelle tegole rosse su cui poco fa piangevo.
Il respiro si fa sempre più pesante, mentre il cuore si fa sempre più lento. Sono stanca, stanca di lottare, stanca di sentirmi in questo modo.
Stanca di non essere mai stata apprezzata.
Ora sono felice, sono calma, come non mi sono mai sentita prima.
Ma questo raro sentimento si cancella, lascia spazio all’immagine di una bambina. Una bambina tanto forte che ha cercato di sopravvivere in mezzo a tanta amarezza. Quella bambina ha lottato per dare un futuro a me, e io ora glielo sto togliendo.
Non volevo arrivare fino a questo punto, non era mia intenzione, lo giuro. Potessi, tornerei indietro, non aprirei mai la maniglia di quella finestra.
Sono stata debole, ma io non volevo.
È stato un incidente.
Gli occhi mi si chiudono, ma voglio ricordarmi un’ultima cosa, di questo mondo.
Alzo gli occhi e vedo tanti puntini sfocati e lontani, che mi guardano, che mi accolgono: le stelle.
L’ultimo pensiero sono mamma e papà. Chissà cosa diranno. Io non volevo, lo giuro.
E poi a me stessa. Io non volevo.
Scusa.



                                ***

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⏰ Ultimo aggiornamento: Oct 17, 2020 ⏰

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