Cap. I Rhapsody in Blue

944 117 216
                                    

Per la Fiesta del Pilar una folla colorata e chiassosa riempiva le strade del centro di Zaragoza. Seguendo la massa, procedevo verso il lungofiume costellato di bancarelle mentre l'Ebro pareva scorrere, pigro, al mio stesso ritmo.

Camminare in mezzo a tanta gente non mi dava fastidio; al contrario, mi dava l'illusione di essere meno sola. Mi piaceva ascoltare il chiacchiericcio dei passanti che sciamavano senza fretta sul Puente de Piedra.

M'immaginavo a partecipare alle conversazioni di quegli sconosciuti, tra i quali molti turisti, e a ridere e a scherzare come le altre ragazze della mia età. Da quando non ero più una Danzatrice del Sangue, dopo la strage di Xaghra, mi ero sforzata di conquistare quella normalità che pensavo di meritarmi, ma non ero ancora riuscita nell'intento.

E forse, a ben pensarci, non mi ero neppure impegnata particolarmente per guadagnarmela.

Come diceva Josefa Torres, la mia coinquilina quarantenne, nonché padrona di casa, ero una ragazza testarda e più solitaria che socievole.

Eppure avevo cercato continuamente di dimostrare a lei e a me stessa il contrario: uscivo tutte le sere per poi tornare poco prima dell'alba, riportavo a casa sottobicchieri di cartoncino con i nomi stampati di locali sempre diversi, raccontavo spesso dei miei colleghi di lavoro alla Fnac, dove avevo un posto come commessa.

Quello che evitavo di rivelare era che con i miei colleghi parlavo a malapena e che quando uscivo la sera ero quasi sempre sola, fatta eccezione per i ragazzi che tentavano di rimorchiarmi nei bar.

La mia vita non era quella di una comune e spensierata ragazza di quasi ventidue anni. Era quella di una ex Danzatrice, ed ex messaggera, che si era buttata nel mondo senza sapere esattamente cosa fare, tranne inventarsi un'esistenza "normale" ascoltando stralci di conversazioni di perfetti sconosciuti.

Per essere ottobre era una giornata piuttosto calda, quasi afosa, e il cielo era grigio di nuvole che promettevano pioggia. I tuoni che rimbombavano in lontananza venivano percepiti come una minaccia dalla gente uscita di casa per godersi le celebrazioni in onore della Vergine del Pilar. Uomini e donne in maniche corte, con giacche antipioggia allacciate in vita, levavano pensierosi gli occhi al cielo scrutando l'orizzonte.

Raggiunsi la piazza del Pilar proprio mentre cominciavano a cadere le prime gocce di pioggia.

Su un palco approntato di fronte alla monumentale basilica intitolata alla Vergine, i ballerini di jota danzavano imperterriti, malgrado l'acqua che tamburellava sul palco.

Da quando ero arrivata nella capitale aragonese, ormai tre anni prima, era la prima volta che vedevo la pioggia rovinare i festeggiamenti del 12 ottobre.

Mi fermai di fronte ai danzatori, osservando la gigantesca piramide di fiori in cima alla quale svettava la statua della Vergine del Pilar. Allestita dietro il palco, incombeva quasi minacciosa, protetta da transenne grigie che ne fiancheggiavano tutti i lati.

Mi toccai gli auricolari che avevo spinto nelle orecchie come se avessi voluto fonderli con i timpani. Poi selezionai un brano dalla mia playlist sul cellulare.

Una musica suadente, graffiante, ondeggiò nella mia mente, sovrastando il vociare della folla e le note del ballo tradizionale della jota, accompagnate dal ticchettio delle nacchere.

Mentre chiudevo gli occhi, la "Rapsodia in blu" di Gershwin mi trasportò in un altro luogo, in un altro tempo dove io non esistevo. Dove nessuno esisteva.

Immaginavo che il "blu" del titolo dovesse riferirsi più a un certo tipo di sonorità musicale che al colore vero e proprio, ma quando ascoltavo quel pezzo era all'azzurro che pensavo.

Golem's BreathDove le storie prendono vita. Scoprilo ora