Nel sangue

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A Lorenzo, mio fratello solo di sangue, il mio niente.
Perché il vetro quando si rompe fa male, ed io volevo dirglielo così.

Di pietra e vetro.

Settembre 2000.
Eravamo i gemelli spavaldi, senza un'educazione, con una parlantina instoppabile, troppo vivaci, troppo curiosi. Ma noi, di sicuro, non ci volevamo andare, all'asilo. Parlo al plurale perché io e Luke avevamo gli stessi gusti per quanto riguardava il cibo, i cartoni animati e le fiabe, anche se ce ne avevano raccontate davvero poche; ci piacevano gli stessi colori, gli stessi giochi, gli stessi posti. E l'asilo, proprio, non potevamo accettarlo.
Mia zia, presa dalla disperazione, aprì la porta enorme dell'edificio e, dopo esser stata sulla soglia per minimo quindici minuti con noi attaccati alle sue gambe, scappò letteralmente via, assegnandoci alle povere donne che avrebbero dovuto sopportarci per gran parte della giornata. Tirò velocemente fuori dalla borsetta le chiavi e, correndo verso la macchina, aprì la portiera e la vidi premere il piede con prepotenza sull'acceleratore.
"Certe cose le si ha proprio nel sangue" commentò la maestra, seguendo il tragitto di mia zia.
Quando l'auto sparì, mi girai verso Luke. Aveva gli occhi rossi e lucidi, le guance segnate dalle lacrime e la bocca semiaperta, che accompagnava un pianto che non sarebbe mai finito. Anche io, probabilmente, lo rispecchiavo parecchio.
La maestra mi si avvicinò. Poi mi posò le mani sotto le ascelle, contrasse il viso in un'espressione di sforzo e cercò di sollevarmi da terra e prendermi in braccio. Ma non ci riuscì. C'era Luke, ancora scosso, che aveva intrecciato la sua piccola mano nella mia. Sapevo che non mi avrebbe mai lasciata.
"Luke, lascia la mano di Hepsie" gli ordinò, ma sentii la sua mano stringere ancora di più la presa.
La donna sbuffò e si arrese. Io andai ad abbracciare quello che era il mio gemello in ogni modo, e "Io vado dove va la mia sorellina" affermò lui, guardandola, torvo.
Quelli come noi non potevano stare rinchiusi in quattro mura, anche se quelle appartenevano ad un asilo. Quelli come noi, non lo sapevamo ancora, ma non avrebbero mai potuto stare lontani dalla libertà.
E lui sarebbe sempre andato dove sarei andata io.

Settembre 2009.
Ero allo Year 8. Un grande passo per me, ma anche per Luke che, sebbene ripudiasse un po' meno la scuola di me, era piuttosto disinteressato a tutto ciò che ci veniva insegnato. Lo vedevo addormentarsi sul banco e, in un modo o nell'altro, cercavo sempre di coprirlo, o di svegliarlo, prima che i professori se ne accorgessero. Lui trovava sempre un tempo, seppur ristretto, per farmi copiare i compiti o per mettermi in testa qualcosa sulla lezione che avremmo avuto. Ci aiutavamo così, io e lui.
Eravamo ancora gli stessi. Adesso avevamo tredici anni e li sentivamo tutti. Forse ci sembrava di averne anche di più.
"Non ci pensare nemmeno, Hepsie" mi intimava lui, quando adocchiavo qualche sigaretta.
Ci controllavamo a vicenda. Perché, quando si ha a disposizione troppa libertà, si rischia di cadere nell'illegale. Un po' come quei cantanti famosi che c'erano al tempo: diventati popolari e con un sacco di soldi, finivano nel circolo della droga e non ci uscivano più.
Così, io e Luke ci rimettevamo in riga da soli.
Da soli, da sempre.
Una madre non sapevamo nemmeno cosa fosse. Morta durante il parto, non l'avevamo mai conosciuta.
"Ma non ti manca neanche un po'?" mi chiedevano i miei compagni di classe.
Io restavo ferma per un po', a pensarci. Non capivo perché avrebbe dovuto importarmi. Come fa a mancarmi una cosa che non ho mai avuto e conosciuto?
Invece, Luke me ne parlava spesso. A lui mancava. Mi raccontava di quelle cose che sentiva durante la lezione di Rogers. Mi diceva di aver paura di essere malato o diverso, perché aveva sentito che la presenza della madre in tenera età portasse emozioni, empatia, curiosità, che era fonte di conoscenza, e facilità nell'instaurare relazioni nella vita sociale. E lui temeva di non avere tutte queste cose.
Poi scoppiava a piangere tra le mie braccia e "Mi sarebbe piaciuto conoscerla" mi sussurrava.
"Mica ci serve una mamma, a noi" ribattevo io.
Probabilmente gli mancava perché, anche se c'era, mio padre non c'era. Mi sa proprio che eravamo abbandonati a noi stessi. A me non dispiaceva più di tanto. Mi dispiaceva solo quando mio padre tornava a casa sbronzo e si accaniva su Luke.
Era sempre una sera di quel settembre del 2009 quando, finito di lavorare e rintanatosi in un bar del centro, sentii una chiave cercare di infilarsi nella toppa.
Ci sono rumori che non si dimenticano.
E quello era un rumore che avrei sentito rimbombarmi nel labirinto dell'orecchio fino alla mia morte. Perché, quando la chiave non veniva infilata subito, io sentivo già l'odore di alcool nell'alito di mio padre.
Allora mi alzai. Nel buio, tastai ogni mobile e, trovato il letto, mi infilai sotto le coperte di mio fratello.
Io stavo crescendo, così come lui. Non mi cambiavo più davanti a Luke, ma ci dormivo ancora insieme, perché non mi andava di perdere questo rapporto che ci regalavamo a vicenda.
Luke emise un verso di disappunto, ancora immerso nel sonno, quando il rumore delle dita che accendevano e spegnevano tutte le luci per trovare quelle del salotto si mescolavano con il mio battito cardiaco. Stava arrivando e non avevo mai sentito il mio cuore battere così. Batteva davvero forte. Abbracciai Luke, e la porta si aprì. Un pugno sbatté contro l'interruttore e la luce si accese. Socchiusi gli occhi, alzai la testa e vidi mio padre appoggiato allo stipite della porta.
Captai il suo avvicinamento e "Luke, svegliati!" strillai, scuotendolo più forte che potessi.
Luke fece uno scatto disumano e, resosi conto della situazione, spalancò gli occhi.
"Cosa c'è, papà?" gli chiesi, col respiro accelerato.
"Spostati" mi ordinò, autoritario.
E il suo alito che sapeva solo di alcool lo percepii chiaro. Io odiavo vederlo così. Odiavo vederlo incazzato e ubriaco, perché la sua pelle in viso assumeva un colorito che tendeva al bianco, i suoi occhi si tingevano di un nero senza alcuna tonalità e sulla sua fronte si formavano tante pieghette.
Lì bisognava avere paura.
Ma io non mi spostai.
Allora ci strappò via le coperte, afferrò la mia caviglia e mi fece cadere sul pavimento freddo.
"Lasciaci in pace!" urlai, eppure lui ormai aveva già stretto il polso di Luke ed ora lo stava guardando negli occhi.
"Sei uno stronzo" gli soffiò in faccia, e vidi mio fratello tremare sotto la sua presa.
Mi alzai dal pavimento. Gli posai una mano sul bicipite e lo scossi. Mio padre si girò, e quel colore pallido mi fece una paura assurda. Luke, nel frattempo, si mise a gattoni e scese dal letto. Si postò di fianco a me e quello schifo di uomo si affrettò ad andare a prendere la sedia della nostra scrivania.
La alzò.
Passò davvero poco, e quella sedia fu scaraventata addosso a Luke. Spalancai la bocca, ma non potevo chiedergli come stava, se si era fatto male. Non aspettai altro, ed aprii la finestra della stanza. Eravamo al secondo piano, ed eravamo gli unici ad avere un balcone, in quella corte. Così, mentre a mio padre stava salendo un conato di vomito, aiutai Luke ad alzarsi e ad uscire dalla finestra. Quando fummo sul balcone, iniziammo a correre per le scale. Luke si teneva la mano sulla parte dolente e non parlava. Quella notte, gli ruppe il braccio e mio fratello non si lamentò nemmeno un secondo. Non sapevamo che ore fossero, sapevamo solo di dover correre. E le nostre gambe ci assecondarono fino all'alba.
Stavamo fuggendo. Io non lo sapevo ancora, ma da queste cose non si fugge manco a morire. Dalla malafama, dalla corruzione, dall'illegalità non si scappa, se tutto ciò apparteneva a chi ti ha cresciuto.

Hei people!
Innanzi tutto: questa è una storia breve. Ogni settimana pubblicherò un capitolo, in tutto saranno cinque. L'ho scritta circa un anno fa, avevo quindici anni, quindi capitemi ahah insomma, mi andava lo stesso di pubblicarla anche su wattpad, quindi se vi è piaciuto il prologo, provate a dare un'occhiata la prossima settimana :)
Vi devo avvertire che non sarà una passeggiata, questa storia. Io personalmente l'ho sentita sotto pelle, ma tratta di argomenti di cui molti di noi fanno finta di non averci a che fare. L'illegalità, la mafia, le abbiamo sotto agli occhi, Cristo.
Ci saranno di mezzo quindi la violenza, la corruzione, la cattiveria e schifezze di questo genere. Perdonatemi, non so scrivere cose felici.
Un ringraziamento va a Martina che è la creatrice della copertina e niente, ci vediamo al prossimo capitolo, in cui conoscerete il protagonista principale!
Nali :)

Di pietra e vetroWhere stories live. Discover now