«Una camera. Per una notte.» Mi appoggiai sul legno marcio, pesando sull'avambraccio.

Quella posizione di finta sicurezza mi consentì di mascherare il tremolio nelle gambe.

Con un gesto disumano la lingua dell'oste si allungò, lenta e oscillante, scendendo fino al sacchetto pieno di Geldi che avevo messo sul bancone. Estrasse una moneta dorata, per poi riportarla alla bocca e deglutirla.

I miei occhi seguirono la scena apatici.

«Da questa parte.» La voce gracchiante dell'oste tradì la sua apparente età.

Mi condusse in una camera lugubre, senza finestre o mobili, con le pareti sottili e forate dalle tarme, il cui letto consisteva in un sacco di juta imbottito di paglia. Chiusi la porta non appena fui sola, notando, sempre più spaventata, come l'unica cosa che tenesse la porta chiusa fosse un debole gancio in ferro arrugginito. Sarebbe bastato un calcio per abbatterla.

Lasciai finalmente che le mie gambe cedessero al suolo, sotto il peso del mio corpo, chiudendomi su me stessa. Calde lacrime iniziarono a rigarmi le guance, mentre dei tremanti singhiozzi mi scuotevano il torace.

Quella notte non riuscii a chiudere occhio.

La mattina seguente uscii in fretta da quella cella, dirigendomi a passo svelto verso il portale d'ingresso. Zigzagai tra le viuzze anguste e tra le case accatastate della città, che limitavano la visuale del cielo plumbeo, aumentando la sensazione claustrofobica che mi aveva accompagnata da quando avevo messo piede a Chaot. Mi persi più volte, tra quelle case, nonostante l'oceano all'orizzonte. Poi, come uno spiraglio di luce che filtra tra le assi marcite, lo vidi. Il portale di ingresso, aperto. Le gambe ritrovarono improvvisamente la forza, i polmoni l'aria e il cuore la speranza.

Ma un'altra volta il mio sogno di libertà, divenne il mio incubo.

«Dove credi di andare?» Mi accigliai, confusa, finché non notai la mano dell'omone aperta. «Sette Geldi.»

Arricciai il naso. «Ho questi. Fatteli bastare.» Gettai nel suo palmo la manciata rimanente dalla taverna.

«Mancano due monete. Senza quelle non vai da nessuna parte.» La voce si fece improvvisamente più grave.

«Te le porteró poi. Ora fammi passare.» Insistetti.

La visione dell'oceano scintillante alle spalle del portiere stava diventando un miraggio.

L'uomo grugnì, in una risata accapponante.

«Con chi credi di avere a che fare ragazzina? Non vuoi pagare? Va bene. Allora andrai nelle segrete come tutti gli altri.»

A quelle parole mi si fermò il cuore. Finire in cella significava correre tra le braccia dei Rasseln e, di conseguenza, Markus. Avrei preferito morire piuttosto.

Mi guardai in torno: la strada era deserta come quando ero arrivata.
Sarebbe bastato uccidere quell'uomo e correre via. Nessuno mi avrebbe scoperta e sarei stata libera.

Deglutii, come ultima esitazione, poi mi decisi.

Estrassi il pugnale dallo stivale e mi gettai verso l'uomo, ma la punta non lo penetrò.
Questo mi guardò con un sorriso di scherno, come se non avesse aspettato altro, e il suo corpo si ricoprì di squame metalliche.

Merda.

Puntai alla gola, unico punto scoperto insieme al volto, ma prima che potessi raggiungerlo una mano mi scaraventò al suolo. L'impatto mi fece mancare il respiro. Strizzai gli occhi più volte, cercando di riprendere la focalizzazione mentre mi rialzavo, ma un'altro colpo mi fece ripiombare al suolo. Questa volta sputai sangue. Sgranai gli occhi, mentre un grido silenzioso mi si bloccava in gola.

Vidi l'altro colpo arrivare, e feci a malapena in tempo a rotolare sul fianco, ricoprendomi di polvere.
Non riuscivo ad alzarmi, ma la mia posizione obbligava l'uomo ad abbassarsi, scoprendo il collo. Concentrando tutte le mie forze rimanenti, tesi il pugnale verso la sua gola, ma la mano dell'essere fatato intercettò il colpo, spezzandomi il polso.

Mi si gonfiarono le vene sul collo e gli occhi mi si riempirono di lacrime per il dolore.

Mi rotolai su quell'altro lato, avvicinando la mano ferita al petto. In quello stesso istante ne approfittai per impugnare la daga con la mano non dominante, lanciandola poi verso l'uomo.

Cadde a terra con un tonfo. Lo avevo ucciso. Ce l'avevo fatta. Recuperai il pugnale, estraendolo dal pomo d'adamo. Uno schizzo di sangue mi sporcó il volto.

Un conato di vomito mi risalì l'esofago, ma mi feci forza, uscendo da quella città maledetta.

A stento mi reggevo in piedi e i polpacci mi bruciavano mentre sprofondavano nella sabbia. Raggiunsi l'acqua e la fatica aumentò ancora di più. Inciampai, poco lontana dalla riva, ma mi obbligai subito a rialzarmi. Sapevo che non ce l'avrei fatta ad arrivare a Kayl a nuoto, soprattutto in quelle condizioni. Ma dovevo provare. Forse la nave di Dollarus era ancora in mare aperto, forse mi avrebbero trovata...

Mi sollevai in ginocchio, poi qualcosa mi tirò giù.

Aprii gli occhi di scatto: due uomini, con piccoli denti sottili e aguzzi, mi guardavano sogghignando.

Fu allora che lo vidi. Sui loro colli. Lo stemma distintivo dei Rasseln.

Royal Thief Where stories live. Discover now