CAPITOLO I

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La stanza era in disordine, come al solito, come la mia vita. Le carte sparpagliate sul pavimento creavano un complicato puzzle che solo io sapevo decifrare e i libri ammassati sulla scrivania erano ormai pericolanti piramidi che miravano al soffitto, sfidando qualsiasi legge fisica.

Il ticchettio dell'orologio segnava l'inesorabile passare del tempo, anche per me, nonostante i miei 24 anni compiuti da poco, mi sentivo vecchio dentro. Erano già le 9 e, come al solito, mi trascinavo pigramente fuori dalle coperte in una fredda giornata di metà settembre, quando l'estate diventa un ricordo lontano e lascia spazio alla malinconia dell'autunno.

Una colazione veloce, sempre la stessa: un bicchiere d'acqua, una caffè e, a parte, una tazza di cereali, rigorosamente senza latte. Sgranocchiavo svogliatamente quei piccoli anelli di frumento al miele, scrollando di tanto in tanto la home di Facebook.

Odiavo il rito della colazione, c'era troppo silenzio, quei pochi minuti si amplificavano lasciandomi solo con i miei pensieri, il più delle volte influenzati dalla pesantezza di troppe notti passate insonni.

Il silenzio è sempre stato un mio grande nemico; sia chiaro, non sono un tipo che parla molto, anzi, tuttavia i silenzi mi hanno sempre messo in grossa difficoltà, soprattutto durante una conversazione. Ho perso il numero delle volte in cui, per fuggire al chiasso di un silenzio che rimbombava nei miei timpani, esordivo con frasi del tutto fuori luogo, proprio come me.

Cosa facevo lì? Cosa sto facendo della mia vita?

«Basta Andrea ti sei appena svegliato» mi ripetevo, cercando di distogliere i miei pensieri e concentrarmi su quello che avrei dovuto fare da lì a poco.

L'orologio segnava le 9.40, come al solito in ritardo, l'appuntamento era alle 10 ed io ero ancora lì, incantato, impegnato ad ingurgitare dei cereali troppo secchi per chiunque.

La mia lentezza era leggendaria, riuscivo a perdere tempo anche quando ero in anticipo, avevo il potere di allungare le attese quando il tempo era poco ed accorciarle quando la sorte mi regalava degli attimi in più per adempiere ai miei compiti.

Nel mio curriculum c'era scritto "ottima capacità organizzativa", chiunque mi conoscesse un minimo si sarebbe fatto una grossa risata, eppure era quello che volevano sentirsi dire la maggior parte dei datori di lavoro.

Il copione era sempre quello: organizzazione, problem solving e lavoro di squadra. Che poi, "problem solving", da dove deriva? Perché proprio in inglese e non "risoluzione di problemi"? E quali problemi esattamente?

Io ne avevo tanti, uno di quelli era arrivare in tempo al colloquio di lavoro, sembrava una missione impossibile ma dovevo farcela, ne andava del mio futuro.

E allora, in ordine: corsa in bagno, sciacquata veloce alla faccia, denti, la barba me l'ero fatta la sera prima, poco male. E ancora, camicia pulita, cravatta, infilo le scarpe lucide, una sistemata alla giacca e via.

Ovviamente la Vespa non parte al primo colpo, tiro l'aria e finalmente il motore inizia a cantare.

«Ottimo» penso «ho ancora 6 minuti».

Il vento in faccia mi faceva lacrimare perché, per la fretta, non avevo messo gli occhiali. Il traffico a quell'ora era meno intenso e fortunatamente, il centro città distava solo qualche chilometro.

Mi piaceva andare in Vespa, mi ricordava i tempi del liceo, quando il sabato sera correvo per la città con qualche amico in cerca di qualcosa per svoltare la serata, quel qualcosa, anzi, qualcuno, non arrivava mai, ma che tempi.

A volte ripenso a quanto il piacere della ricerca sia più grande della scoperta stessa, perché si carica di aspettative, di speranze e di fantasie che ci riportano a quando da piccoli giocavamo a "caccia al tesoro".

Iperbole, la nascita di una canzoneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora