IV - RENATO

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L'attore ha finito i fogli. Parla senza leggere e non pronuncia i titoli dei capitoli.

IV – RENATO

Dirò la verità. Tutta. Una botta. In testa. Un freddo porco. Di notte. Ho ucciso così l'attore che interpretava Malachia da Hildesheim e Alinardo da Grottaferrata ne Il nome della rosa. Mi chiamo Renato, faccio il facchino ma amo il teatro. L'ho ucciso a Trieste. L'avevo conosciuto a Livorno. Mi dispiace avere interrotto il suo racconto, ma giuro che non ho cambiato nulla di ciò che lui ha scritto sin qui. Indica i fogli a terra. I fogli, glieli ho trovati in tasca. Insieme al foglio con la poesia che gli avevo regalato. Non sto a commentare il fatto che l'abbia scopiazzata e usata a suo piacimento. Né sto a commentare i temi scelti e lo stile. Fatti suoi, sono fatti suoi. Anzi, erano fatti suoi. Ubriaco marcio, stava davanti alla vetrina di un negozio di vestiti. Dopo mezzanotte. L'avevo seguito, veniva dalla trattoria. È stato facile: l'ho preso sottobraccio, qualche parola di circostanza – «ti ricordi di me», robe del genere – e poi, dove finisce la piazza e incomincia il mare, una martellata in testa. Una martellata e una spinta, in Piazza Unità d'Italia. Andato. La marea se lo dovrebbe portare via. Altrimenti, fa lo stesso. Io sarò lontano, anzi sarò lui. Mi permetto di richiamare una parte del suo racconto – cito dai suoi fogli –: «Un uomo minuto, compatto, non nano: tutt'altro. Ma era come se giocasse a comprimersi, camminava a braccia conserte, sguardo a terra, un sorriso strano. Non era sorriso. Era una smorfia costante della bocca, come se non riuscisse a controllare i muscoli facciali». Sono il suo sosia. Facevo così per non farmi riconoscere, in trattoria. Il berretto a terra era per distrarlo. Lui non se n'è accorto, della nostra somiglianza. Io me n'ero accorto subito, già vedendo lo spettacolo. Nonostante il trucco pesante e la parrucca, ero saltato sulla poltrona. Siamo, anzi eravamo, identici. Non sapevo di avere un sosia. Pare che tutti l'abbiamo, in giro per il mondo. Diciamo che non credevo l'avrei mai incontrato. Eviterò seghe mentali come le sue e cercherò di essere breve nel raccontarvi cosa è successo dopo. In realtà ho poco da dire: per me lo spettacolo sono quelle quattro battute. Ve l'ha già detto lui, in tutte le salse, che per me valgono quelle e basta. Ma non c'è da ricamarci tanto sopra. Voglio dire, di tutti i significati che ci ha trovato lui, a me non importa un fico secco. Andiamo al sodo. L'ho ammazzato. Nel tragitto in piazza, sottobraccio in quella piazza, prima della martellata, gli ho vuotato le tasche. So dove alloggia – l'ho seguito, l'ho già detto – e ho origliato praticamente giorno e notte tramite la cimice che gli avevo piazzato nel telefonino. Non so proprio tutto, ma tanto di lui. La cimice gliel'avevo messa durante la prima replica a Fano: ero entrato di nascosto in camerino. Dopo Livorno li ho seguiti. Ho viaggiato davvero fra i costumi; d'accordo con l'autista, però. Appena possibile, non visto, saltavo in cabina con lui. Ora si tratta di recitare. La parte la so, la memoria non è un problema. L'ho imparata bene. Ma l'interpretazione? Come faccio? Lo imito? Non è mica facile. Ho paura.

130 REPLICHE DE "IL NOME DELLA ROSA" | TEATRO DI RICICLO®Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora