Tre volte, senza esito, Ercole tentò di respingere
da sé il mio petto che gli resisteva, ma alla quarta
si svincolò, sciolse l'intrico delle braccia intorno a sé
e, dandomi uno strappo con le mani (ho promesso di dire il vero),
d'un tratto mi girò, avvinghiandomi le spalle con tutto il suo peso.
Dovete credermi (sì, non cerco gloria esagerando le cose),
mi sentivo oppresso come se addosso avessi avuto una montagna.
Con gran fatica riuscii infine a insinuare le braccia, grondanti
di sudore, e a sciogliermi dal corpo quella morsa d'acciaio;
ansimavo, ma lui non cedeva, impedendomi di prender fiato;
e mi agguantò alla nuca, costringendomi a toccare il suolo
con le ginocchia, finché, faccia a terra, non morsi la rena.
Battuto sul piano della forza bruta, ricorsi alle mie arti
e gli sgusciai via mutandomi in un lungo serpente.

L'eroe di Tirinto, vedendomi flettere il corpo in spire
sinuose e vibrare con sibili selvaggi la lingua a due punte,
scoppiò in una risata e, beffandosi dei miei trucchi:
"Vincere i serpenti è un gioco che facevo già nella culla,"
disse; "e se anche tu, Achelòo, superassi qualsiasi drago,
cosa potresti essere, da solo, in confronto al mostro di Lerna?
Dalle sue stesse ferite si riformava e, delle cento teste
che aveva, non ce n'era una che si potesse mozzare
senza che sul collo, più sano di prima, due gliene rispuntassero.
E quel mostro, che mutilato si ramificava in nuove serpi
e dalle piaghe ricresceva, io lo domai e, vinto, lo bruciai.
Cosa credi di fare, tu che mutato in finto serpente
sfoggi armi non tue, tu che ti celi sotto una forma illusoria?".
Così disse, e le sue dita si chiusero in alto intorno al mio collo,
come un cappio: soffocavo, come se mi stringesse una tenaglia,
e a viva forza cercavo di sottrarre la gola a quelle mani.
Sconfitto anche così, non mi restava che la foggia minacciosa
di un toro: mutatomi in quello, riprendo la lotta.
Lui dal fianco sinistro mi circonda con le braccia la giogaia
e seguendo il mio slancio mi trascina, m'inginocchia conficcando
le corna nella dura terra e m'abbatte in mezzo alla polvere.
E non basta: mentre m'afferra inferocito un corno, rigido
com'era, lui me lo spezza e lo strappa, mutilandomi la fronte.
Le Naiadi colmano il mio corno di frutti e fiori profumati,
rendendolo sacro, corno prodigioso dell'Abbondanza».

Qui tacque. Una ninfa, che fungeva da ancella, nella veste
succinta di Diana, con i capelli sciolti sulle spalle,
fece il suo ingresso, recando al termine del pranzo il corno
traboccante di tutti i frutti deliziosi dell'autunno.
E spunta l'aurora: appena il primo sole lambisce i monti,
i giovani si congedano. Non attendono che il fiume
ritrovi pace, il suo placido fluire, e che le acque
calino del tutto. L'Achelòo immerge nei flutti
il suo rustico volto e il capo dal corno divelto.
Anche se avvilito per il guasto che gli ha sciupato il volto, lui,
però, è incolume; e lo sfregio sul capo si può sempre celare
con fronde di salice o corone di canne.
Ma a te, feroce Nesso, la passione per quella fanciulla
è costata la vita, trafitto alla schiena da una freccia in volo.
Il figlio di Giove stava tornando alle mura della sua patria
con la giovane sposa, quando giunse alle rapide dell'Eveno.
Il fiume, cresciuto per le bufere invernali, era più del solito
gonfio, pieno di vortici e quasi impossibile da attraversare.
Ad Ercole, che per sé non temeva, ma era in ansia per la moglie,
si accosta Nesso, muscoloso e pratico di guadi:
«Provvedo io, Alcide, a deporre costei sull'altra sponda,»
gli dice. «Tu, con la tua forza, puoi passare a nuoto».

E l'eroe dell'Aonia gli affida la fanciulla sgomenta,
che, pallida in volto, guarda con lo stesso timore il fiume e Nesso.
Poi, così com'era, con addosso faretra e pelle di leone
(clava ed arco allentato li aveva scagliati sulla riva opposta),
dice: «Giunto sin qui, si superi anche questo fiume».
E senza esitazione alcuna, senza cercare il punto più calmo,
rifiutando d'abbandonarsi al flusso della corrente, si tuffa.
Già sull'altra sponda, mentre raccoglie l'arco che aveva scagliato,
sente la moglie che l'invoca e vede Nesso che s'appresta
a sottrargli chi gli aveva affidato: «Dove t'illudi», gli grida,
«di poter fuggire, insolente? Dico a te, mostro biforme!
Ascoltami, non osare strapparmi ciò che m'appartiene!
Se non ti frena il minimo riguardo nei miei confronti, da un coito
illecito dovrebbe almeno distoglierti il supplizio paterno.
Anche se confidi nelle risorse equine, non mi sfuggirai:
non con i piedi, ma con un colpo ti raggiungerò!». Detto questo,
lo prova: scaglia una freccia che trafigge la schiena
al fuggiasco. Con la punta gli esce il ferro dal petto
e quando se lo strappa, da entrambi gli squarci, col pus velenoso
del mostro di Lerna, sgorga a fiotti il suo sangue.

𝐌𝐄𝐓𝐀𝐌𝐎𝐑𝐅𝐎𝐒𝐈 ━ 𝐎𝐯𝐢𝐝𝐢𝐨Where stories live. Discover now