Si alzò un giovane dalle gambe chilometriche, si avvicinò a Louis con un sorriso sornione che gli attraversava il volto, la camicia azzurra con stampe floreali, aperta fino a metà torace, sul quale si intravedevano ritagli di tatuaggi che Louis non riuscì a decifrare.

E poi i ricci, lunghi fino alle spalle, che ondeggiavano ad ogni suo passo.

"Vuoi giocare?" chiese con voce rauca e ferma mentre scrutava i lineamenti del volto dell'avversario.

"Sì, giochiamo."

Louis gli diede le spalle e sfilò dal porta stecche una delle classiche da centocinquanta centimetri.

"Non è un po' troppo lunga per te?" chiese il ricco con tono divertito, alludendo alla sua altezza mentre afferrava una stecca di qualche centimetro più lunga della sua, che uno degli stessi uomini che lo aveva chiamato gli stava mettendo tra le mani.

Una risata aveva accompagnato le sue parole, ma non c'era stata cattiveria nella voce e Louis non reagì alla provocazione. Posizionò il triangolo con le quindici palle nel centro del tavolo. Dopo averle stabilizzate lo sfilò dall'alto.

"Chi apre?"

"Prego, in fondo sono un gentiluomo."

Louis divaricò leggermente le gambe, piegò il busto in avanti e posò l'estremità della stecca tra il pollice e l'indice della mano sinistra.

Con un movimento rapido e deciso del braccio, colpì la bianca che distrusse l'ordinata serie di palle facendole rotolare in ogni direzione.

Imbucò la numero dieci, blu a strisce.

Si concesse solo un sorriso frettoloso prima di girare attorno al tavolo e riposizionarsi di fronte al suo bersaglio.

Colpì ancora, con precisione, e trattenne il respiro mentre la palla bianca si scontrava con la numero tredici - perfettamente allineata- e la imbucava.

Questa volta sollevò lo sguardo allegro verso il suo avversario.

"È il tuo turno".

Osservò il riccio flettere all'indietro il braccio destro, piegare il torace in avanti e puntare gli occhi sulla palla che doveva colpire. Aveva il volto concentrato e sulla mano sinistra, tesa a sostenere la punta della stecca, si intravedevano le vene gonfie.

Si soffermò per un solo istante ad osservare quelle mani grandi dalle unghie smaltate di nero e le braccia, ricoperte di inchiostro che prendeva vita ad ogni movimento dei muscoli.

Colpì con precisione e senza difficoltà imbucò la palla sei, piena, verde.

Fu nuovamente il turno di Louis e nonostante l'accuratezza del colpo nessuna palla venne imbucata, mentre il riccio nel suo secondo tiro riuscì a far entrare in buca la palla numero cinque, arancione.

Con un tiro calcolato e fortunato Louis mandò in buca un'altra palla e rimase con quattro ancora sul tavolo, mentre dentro di lui cresceva l'eccitazione e la concentrazione per quella partita in cui sembrava aver trovato un avversario al pari livello.

Il riccio fece due ottimi tiri e anche Louis esibì tutta la sua capacità in materia, mentre una dopo l'altra le palle scomparivano oltre il bordo del tavolo, colpite con precisione dalle punte solide delle loro stecche.

A questo punto avevano imbucato lo stesso numero di palle e ne restavano sei sul tavolo, più l'intoccabile nera, la numero otto, che avrebbe decretato il vincitore.

Louis sbagliò un secondo tiro, e non poté negare nemmeno a se stesso che la motivazione di quell'errore erano gli occhi dal colore brillante del suo avversario, che rilucevano sotto le luci fredde del biliardo e scrutavano ogni sua mossa, facendolo sentire un pesce indifeso davanti ad uno squalo affamato.

Il destino che ci ha fatto incontrareWhere stories live. Discover now