7

3 0 0
                                    

I tre primi mesi passati a Lowood mi parvero un secolo.

Ebbi a sostenere una lotta spossante contro ogni genere di difficoltà per assuefarmi alla mia nuova vita e ai nuovi doveri.

Il timore di non adempierne qualcuno mi spossava più che le sofferenze materiali, benché queste non fossero lievi.

Nei tre mesi invernali il freddo e la neve c'impedivano di uscire; andavamo soltanto in chiesa, ma ogni giorno ci facevano passare un'ora all'aria aperta.

I nostri vestiti non potevano ripararci da quel freddo intenso, nelle scarpe penetrava la neve, e le mani, senza guanti, si coprivano di geloni come i piedi.

Mi rammento ancora come la sera mi dolevano quando erano gonfi e quanto pativo nel mettermi le scarpe.

Inoltre lo scarso vitto era un vero supplizio e quello che ci davano non bastava a calmare il nostro appetito giovanile.

Ne nasceva un abuso a danno delle più piccine, perché le grandi, sempre affamate, esigevano da quelle una parte della porzione.

Quante volte non ho diviso con due grandi il pezzetto di pane nero che ci davano col caffè, dopo aver dato alla terza la metà della bevanda! Trangugiavo il resto piangendo per la fame.

Le domeniche invernali erano giornate molto penose.

Avevamo due miglia da fare per giungere alla chiesa di Bockelebridge, ove ufficiava il nostro direttore.

Si parlava infreddolite; nel giungere si aveva anche più freddo e prima che terminasse il servizio del mattino eravamo intirizzite.

Era troppo lontano per tornare a pranzo, così fra i due servizi ci davano pane e carne fredda, in porzioni insufficienti come al solito.

Dopo il servizio della sera si tornava per una strada scoscesa.

Il vento del nord soffiava con tanta forza da tagliarci la faccia.

Mi rammento sempre la signorina Temple.

Ella camminava leggiera e spedita lungo le file delle educande stanche, e con i precetti e con l'esempio ci incoraggiava a procedere come vecchi soldati.

Come desideravamo tutte un buon fuoco nel tornare a Lowood!

Questo sollievo era negato alle piccine, perché le grandi formavano subito due doppie file dinanzi ai caminetti, e le altre dovevano contentarsi di procurarsi un po' di calore stringendosi fra loro e nascondendo le braccia intirizzite sotto il grembiale.

Un piccolo godimento ci era però riservato; alle cinque ci distribuivano una doppia razione di pane con un po' di burro; era il festino domenicale, al quale si pensava tutta la settimana.

Cercavo in generale di serbarmi la metà di quella deliziosa merenda, dell'altra ero costretta sempre a farne parte alle grandi.

Non ho parlato ancora delle visite del signor Bockelhurst: egli fu assente una parte del primo mese; forse aveva prolungato il soggiorno l'amico suo, l'arcidiacono.

Quell'assenza era un sollievo per me, perché temevo che giungesse, ed egli giunse difatti. Ero a Lowood da tre settimane. Un pomeriggio, mentre ero seduta con la lavagna sulle ginocchia e mi arrabattavo per fare un'addizione lunga, alzai gli occhi per guardare verso la finestra e vidi passare una figura, che riconobbi istintivamente.

Due minuti dopo, tutta la scuola si alzava in massa e non ebbi bisogno di guardare per capire chi era salutato a quel modo.

Un passo lungo risuonò nella sala e il lungo fantasma nero, che mi aveva esaminato così sgradevolmente a Gateshead, comparve accanto alla signorina Temple.

JANE EYRE di Charlotte BronteWhere stories live. Discover now