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La musica era troppo forte, non si riusciva a parlare. Il locale si era riempito, era quasi mezzanotte e la band aveva da poco finito di suonare.

Si chiamavano Uranus e, tra abbandoni, ritorni e new entry resistevano insieme dalla quarta liceo. Finora avevano scritto una non ben precisata quantità di canzoni che però discograficamente si erano tradotte in un solo ep di quattro brani uscito per un'etichetta di nicchia un paio di anni prima. Le copie vendute, acquistate principalmente da amici e parentado dei membri della band, erano state così scarse da scoraggiare la casa discografica e abbandonare i ragazzi al loro triste destino fatto di squallidi locali, passaparola e compensi in alcol gratis.

La prima canzone che Lea ricorda è Buco nero, che Lorenzo ha ammesso essere la sua preferita. Risale a più di otto anni prima, ai tempi del liceo classico Giulio Cesare e degli animi tormentati di sedicenni cresciuti in provincia.

Non l'avevano praticamente mai cantata live e anni prima Lea aveva chiesto a Lorenzo il perché di quella scelta.

«Racconta di una persona che non voglio più essere.» E quello aveva chiuso il discorso.

Ultimamente invece Buco nero era diventata la canzone di apertura di ogni concerto e la prima volta che Lea la sentì dovette rifugiarsi in bagno per potersi ricomporre prima di rischiare di sciogliersi in lacrime in un angolo buio del bar e di conseguenza scolarsi due gin tonic tutto d'un fiato.

Quello che era successo li aveva segnati in modo irreversibile, ora quel buco nero di cui Lorenzo cantava lo percepivano scuro e distruttivo al centro del loro petto. Divorava tutto, cibandosi di ogni secondo di relativa serenità ancor prima che questa potesse donar loro un attimo di respiro e alleviare per un battito di ciglia il peso costante che avvertivano all'imboccatura dello stomaco.

Ogni volta che gridava in un microfono quelle parole gli occhi di Lorenzo cercavano quelli di Lea e non li mollavano mai per tutta la durata della canzone. Tre minuti e quarantasette secondi di pura armonia di dolore, un distillato melodioso di urla rabbiose e grida d'aiuto. Nessuno ci faceva mai caso, probabilmente pensavano che stesse guardando la sua ragazza o che avesse individuato la preda con cui avrebbe trascorso la notte.

Invece era un tributo, la condivisione di una sofferenza comune e la conferma che l'uno c'era per l'altro, sempre.

Me la ricordo quella sensazione
Il continuo scavare
Farsi spazio nella gabbia toracica
Lo strappo, la rottura, il vuoto
Il buco nero proprio qui
Dove fino ad un attimo prima c'eri tu

L'acqua tonica è così frizzante da farle lacrimare gli occhi. Non ha avuto tempo di cambiarsi d'abito, o più semplicemente non ne ha avuto voglia.

Riabituarsi alla routine aveva significato anche riporre sul fondo dell'armadio le felpe larghe e sdrucite dentro alle quali si era nascosta per quasi due anni. Era stato sciocco, tentare di espiare le proprie colpe punendo il suo corpo, svilendo la sua persona e trascurando il proprio aspetto.

Non aveva più indossato un paio di sandali eleganti o anche solo una gonna, ma ora si concedeva indumenti dall'appeal leggermente più accattivante di un pile in poliestere acquistato ad una svendita alla Decathlon dieci anni prima.

Era stata la voglia di scomparire, di non farsi notare, a spingerla a nascondere il proprio corpo, tenere il capo chino nascosto dalla cortina dei lunghi capelli che non aveva più tagliato. Ancora adesso preferiva evitare il centro dei locali e posizionarsi vicino alle pareti, le spalle coperte e meno fronti aperti a cui prestare attenzione.

Lorenzo la intravide subito, aveva cambiato postazione, sedendosi ad un tavolino sul lato destro del locale. Si era chiaramente appropriato della terza sedia appartenente al tavolo già occupato da una coppia, ma non sembrava curarsene.

Chissà Dove SeiWhere stories live. Discover now