Patroclus

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Tranquillo come il fiume in primavera, me ne stavo nella mia tenda, a contemplarne il soffitto basso e dalla forma drappeggiata, ripensando a ciò che era accaduto la settimana prima con una fitta allo stomaco.

Un ometto anziano, basso, dalla barba e i capelli argentei e dalla mente arguta si era avvicinato alle grandi navi nere achee, portando con sé lo scettro del Dio Apollo e un carro pieno d'oro:

"Chi va là?", aveva esclamato scocciato il Re degli Argivi, il figlio di Atreo, quando l'uomo aveva bussato alla porta aspettando che qualcuno lo accogliesse.

"Mi chiamo Crise e sono il sacerdote di Apollo.", aveva risposto il vecchio, titubante davanti all'indignazione di Agamennone, "Vengo in pace: chiedo solamente un favore."

"Sarebbe?", rispose, sempre più infastidito.

"Ho tanti bei doni con me: voi potrete averli tutti in cambio della fanciulla che prendeste quando bruciaste Tebe, mia figlia Criseide. Qui, ora, in ginocchio, vi supplico di potermela rendere, perché io la dia in sposa ad un uomo di mia stima e fiducia."

Il Re acheo fece una grassa risata in faccia a Crise e gli rispose con gli occhi che mandavano lampi:
"Vecchio, tu non hai idea di ciò che chiedi. Non mi interessa nessuno dei tuoi doni, perché ne ho già piene venti tende. Mi dispiace, ma non ti renderò tua figlia, che mi è più cara perfino del mio regno, di mio fratello Menelao e di mia moglie Clitemnestra. Quando noi Achei vinceremo la guerra, lei verrà via con me e la terrò come concubina! Quindi non farmi arrabbiare, se vuoi tornartene a casa sano e salvo!"

Avevo visto il terrore passare negli occhi del povero vecchio, che stava immaginando il destino atroce che l'Atride voleva riservare alla schiava a lui assegnata.
L'avevo visto andare via in lacrime, rifugiarsi nel bosco e tornare dentro le mura di Troia.

Non avevo mai venerato Agamennone in modo particolare: la sua arroganza e tracotanza mi avevano sempre fatto provare un certo astio per lui.
Odiavo soprattutto quando insultava e sputava sui re Achei che si erano alleati con lui: Ulisse, Achille e persino suo fratello Menelao, sposo tradito di Elena.

Vidi un frusciare e un muoversi della stoffa della tenda e una mano aprirne un lembo, mostrandomi un pezzo di cielo e arbusti.
Fu Nestore, il più vecchio e il più saggio tra i Greci, ad entrare:

"Patroclo.", mi chiamò, "Vai a chiamare Achille nella sua tenda. Agamennone ha indetto un'assemblea per trovare la soluzione all'epidemia che sta attaccando il nostro accampamento. Presto, vai, tu che sei l'unico che può entrare."

Non me lo feci ripetere due volte e in quattro e quattr'otto mi alzai dal mio giaciglio e sgattaiolai fuori, annuendo a Nestore, mentre mi guardava con quello stesso amorevole sguardo di un padre che guarda crescere il proprio figlio.

Fu sufficiente fare pochi passi per giungere alla tenda di Achille, quella tenda dove ero stato talmente tante volte da non poter essere contabili.

Mi avvicinai con fare silenzioso e posai una mano sull'uscio.
Quando feci per aprirla, mi fermai.

Dall'accampamento provenivano dei gemiti strozzati, ogni tanto di una voce femminile e ogni tanto maschile.

Sentii una fitta allo stomaco.

Dovevo seriamente smetterla. Dovevo smetterla di credere che un ragazzo bello, carismatico e meraviglioso come Achille potesse amare un moccioso come me.

Perché sì.
Ero innamorato di Achille, figlio di Peleo.

Dovevo assolutamente ricacciare le lacrime che si erano formate sul mio viso, eliminare il rossore del pianto dalle mie guance ed entrare nella tenda.
Dovevo interrompere tutto ciò che stava facendo con la sua schiava Briseide e comunicargli del consiglio di Agamennone.

Patroclus || One-ShotDove le storie prendono vita. Scoprilo ora