I. Onde

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La roccia nuda e scorticante mi graffia la pelle, mentre l'anima stride, il corpo vacilla, gli occhi si chiudono.
Alle orecchie giunge la melodia della tempesta, quella che i marinai odono di notte e di giorno come se fosse una perenne sinfonia incastrata tra le viscere.
Abbasso lo sguardo in direzione della mia mano, ormai ibernata dalla paura e pallida come un cencio; se non intravedessi le venature violacee solcarla come spaccature nel terreno oserei pensare che sia morta, attaccata alla roccia e incapace di svincolarsi dalla sua presa glaciale.
Le gambe molli sono appese, come quadri il cui disegno è stato strappato a morsi, come vaghi stralci di luce che brancolano nel buio.

Il ricordo di lei, invece, è un barlume fugace che non riesco ad afferrare.

Sospingo le dita verso l'alto, verso il cielo che si apre giudizioso sulla mia condanna. Il vento mi accarezza i polpastrelli scarlatti e sembra quasi tendermi la mano, trascinandomi verso l'infinito.
Ma non è così.

Beffarda la natura, infida maligna che ride e gode smaniosamente degli sbagli degli uomini.

Il paesaggio che si dispiega sotto la suola dei miei vecchi stivali è un vorace trasudare di paure e incertezze. Più il mio sguardo si posa sull'impatto, sulla conseguenza diretta delle mie scelte, più avverto il terrore attanagliarmi il petto e invogliarmi a scappare.

È già la terza volta che il tessuto dei miei pantaloni si ritrova qui, immobile e consumato a contatto con il cielo.

«Jean, perché lo hai fatto?» Mi direbbe supplichevole mia madre una volta rinvenuto il corpo, martoriato e fatto a pezzi dalle onde. Mi stringerebbe, nonostante la vergogna, e accarezzerebbe la pelle di ghiaccio ormai degradata come legna che brucia.

Alzo il capo ricoperto di petali neri, densi come catrame: un gabbiano.

Volteggia la ballerina del cielo, grigiastra, tra le nuvole. È così innocente che quasi la commozione mi accerchia le palpebre e il sonno decadente si protende oltre lo strapiombo.
Ma no, non ancora. Non è questo il momento.

Un mantello pesante di solitudine mi avvolge le spalle larghe ma di scheletro, mentre affanno nel ricordo della donna che era solita baciarmi il cuore. Il suo volto sfuma nel passato e io, come un viandante su un mare di nebbia, giaccio in silenzio assorto dal paesaggio in tormento.

Passo la lingua sulle labbra, ricordando il sapore e scoprendo solo vuoto; screpolate, livide, sanguinanti. Il freddo si insinua attraverso la giacca a vento di tessuto marrone ed è inevitabile la comparsa di brividi.
Solo Dio sa a cosa siano dovuti realmente.
Alla paura? Alla morte? Al rimorso?
Stringo il suo ciondolo di rame e quasi, tra l'acqua dirompente, mi sembra di scorgere la veste bianca del suo cadavere. Mi manca. Mi manca nonostante la sua ossessione nel rendermi diverso.

Mi voleva educato, ricco, amorevole.
Mi voleva come Frank.

Questo cielo mi ricorda vago il nostro matrimonio, quel dì di Novembre. Faceva così freddo che, se ascoltavi in silenzio, potevi udire lo scricchiolare delle ossa e il congelarsi del respiro. Alcune nuvole bianche scivolavano dalle nostre labbra al momento delle promesse, quando anelli e cuori erano ormai allineati.
Forse, già a quel tempo, dovevamo aspettarci che sarebbe finita.

Dischiudo la mano e rivelo la rondine di rame, ora macchiata di rosso, di sangue, di disperazione. La getto con forza nel mare che fa da sfondo alla mia redenzione, come se questo gesto possa allontanare il senso di colpa.
Ora il cadavere e l'uccello sono insieme. Per sempre.

Faccio leva sulle braccia inconsistenti e mi spingo in avanti, in direzione delle onde. La mia umida seduta si è ridotta a uno spigolo che affonda la sua presa nelle mie natiche. Fa male, ma è un dolore sopportabile rispetto a tutto il resto.

Cadavere di rondineDonde viven las historias. Descúbrelo ahora