Insomma, abbastanza stupida come cosa. Non volevo perdermi l'istante in cui iniziava la vera storia, quella che aveva fatto tanto parlare, quella che aveva tenuto tutti con gli occhi incollati allo schermo perché se era quella la storia, allora ero circondato da idioti patentati.

Quando le due entrarono in un'ampia classe e presero posto per una lezione di spagnolo suonò improvvisamente il telefono di casa. Non avevo nessuna intenzione di alzarmi.

«Mamma! Rispondi tu!» urlo. Lei odia che lo faccia ma di certo non posso mandarle un messaggio sul cellulare. A dire il vero ci ho provato, una volta, ma andò su tutte le furie: iniziò a dire che siamo esseri umani e non le sembrava normale che dovessimo mandarci dei messaggi a nemmeno dieci metri di distanza. Nella mia mente mi dissi che in realtà il mio letto dista molto più di dieci metri della cucina, ma preferii non ripeterlo ad alta voce, non mi sembrava il caso.

Ad ogni modo, con una serie tv che mi faceva dubitare dell'affidabilità dei gusti dei miei amici e un lampione che emanava luce a intermittenza che invece mi faceva mettere in dubbio l'abilità dell'operaio che l'aveva "riparato" poche settimane prima, la mia unica certezza era che per nessun motivo al mondo mi sarei mosso da quel letto e lei se ne sarebbe accorta di lì a poco: il telefono smise di squillare e sentì la voce della mamma debole dietro la porta in un "Pronto" un po' stizzito dal mio comportamento.

Mi preparai a vedermela piombare in camera con le braccia incrociate e un'espressione incredibilmente brutta sul volto e abbassai un po' il volume per sentire la conversazione: c'era una buona probabilità che fosse mio padre e io avevo veramente fame.

Ma non era mio padre, era uno stupido scherzo telefonico, di quelli in cui restano zitti dietro la cornetta e tu rimani lì a ripetere "Pronto?! Chi parla?!" come un deficiente con le vene che ti pulsano sulle tempie. Sbuffai pensando a quanto fosse stupido uno scherzo del genere: personalmente preferisco quelli in cui fingono di essere un operatore telefonico o uno che ti ha prestato dei soldi: almeno lì puoi divertirti un po' stando al gioco fino a non capire più chi sta prendendo per il culo chi.

Dopo qualche piccola imprecazione soffocata mia madre mise giù e io rialzai il volume.

Ma non passò molto tempo prima che sentissi di nuovo la voce di mia madre: stavolta gridava, ma non il mio nome per farmi una ramanzina come mi ero aspettato. Fece solo un urlo. Un urlo lungo e terrificante.

Mi precipitai fuori dalla mia stanza, gettando a terra il telecomando, attraversai il breve corridoio seguendo la luce che proveniva dalla cucina, scivolando un po' per via dei calzini e del pavimento lavato da poco. Appena raggiunsi l'arco della porta scorrevole che dava alla cucina ci svoltai dentro e dovetti aggrapparmi allo stipite per non cadere faccia a terra.

Non c'era. Guardai a destra e sinistra, cercandola, ma non la vidi: poi mi accorsi che la porta che dava al giardino era aperta.

Mi precipitai fuori, il buio e il freddo mi avvolsero e i calzini si bagnarono calpestando l'erba umida: vidi la mamma in ginocchio sull'erba a piangere e gridare, piegata su sé stessa.

«Mamma! Mamma cosa è successo? Perché hai gridato in quel modo?» le chiesi allarmato, inginocchiandomi al suo fianco.

Lei continuava a piangere e singhiozzare e sembrava non riuscire a parlare. Le accarezzavo la schiena nel tentativo di calmarla, le viscere avvolte dal panico, ma lei continuava a dondolare su se stessa e piangere finché non gridò un nome: Anna.

Mi guardai intorno: il giardino buio era vuoto ed il cancelletto che dava alla strada era semi aperto.

Di scatto mi alzai, gridando il nome di mia sorella e mi scaraventai in strada, cercando di scovare un'ombra, una forma, un movimento sospetto che mi svelassero dove si fosse cacciata mia sorella.

Il segreto degli angeliWhere stories live. Discover now