2. Angelina Jolie

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Nei giorni successivi accompagnai Xian nei suoi incontri d'affari. In realtà mi aveva scelto per fargli compagnia durante gli spostamenti e i pranzi. Parlavo troppo o troppo poco. Le due attitudini gli piacevano entrambe. Seguivo come si seminava e coltivava la semenza del danaro, come veniva messo a maggese il terreno dell'economia. Arrivammo a Las Vegas. A nord di Napoli. Qui chiamano Las Vegas questa zona per diverse ragioni. Come Las Vegas del Nevada è edificata in mezzo al deserto, così anche questi agglomerati sembrano spuntare dal nulla. Si arriva qui da un deserto di strade. Chilometri di catrame, di strade enormi che in pochi minuti ti portano fuori da questo territorio per spingerti sull'autostrada verso Roma, dritto verso il nord. Strade fatte non per auto ma per camion, non per spostare cittadini ma per trasportare vestiti, scarpe, borse. Venendo da Napoli questi paesi spuntano d'improvviso, ficcati nella terra uno accanto all'altro. Grumi di cemento. Le strade che si annodano ai lati di una retta su cui si avvicendano senza soluzione di continuità Casavatore, Caivano, Sant'Antimo, Melito, Arzano, Piscinola, San Pietro a Patierno, Frattamaggiore, Frattaminore, Grumo Nevano. Grovigli di strade. Paesi senza differenze che sembrano un'unica grande città. Strade che per metà sono un paese e per l'altra metà ne sono un altro. Avrò sentito centinaia di volte chiamare la zona del foggiano la Califoggia, oppure il sud della Calabria Calafrica o Calabria Saudita, o magari Sahara Consilina per Sala Consilina, Terzo Mondo per indicare una zona di Secondigliano. Ma qui Las Vegas è davvero Las Vegas. Qualsiasi persona avesse voluto tentare una scalata imprenditoriale in questo territorio, per anni avrebbe potuto farlo. Realizzare il sogno. Con un prestito, una liquidazione, un forte risparmio, metteva su la sua fabbrica. Puntava su un'azienda: se vinceva riceveva efficienza, produttività, velocità, silenzi, e lavoro a basso costo. Vinceva come si vince puntando sul rosso o sul nero. Se perdeva chiudeva in pochi mesi. Las Vegas. Perché nulla era dato da precise pianificazioni amministrati ed economiche. Scarpe, vestiti, confezioni erano produzioni che si imponevano al buio sul mercato internazionale. Le città non si facevano fregio di questa produzione preziosa. I prodotti erano tanto più riusciti quanto assemblati in silenzio e clandestinamente. Territori che da decenni producevano i migliori capi della moda italiana. E quindi i migliori capi di moda del mondo. Non avevano club di imprenditori, non avevano centri di formazione, non avevano nulla che potesse essere altro dal lavoro, dalla macchina per cucire, dalla piccola fabbrica, dal pacco imballato, dalla merce spedita. Null'altro che un rimbalzare di queste fasi. Ogni altra cosa era superflua. La formazione la facevi al tavolo da lavoro, la qualità imprenditoriale la mostravi vincendo o perdendo. Niente finanziamenti, niente progetti, niente stage. Tutto e subito nell'arena del mercato. O vendi o perdi. Col crescere dei salari le case sono migliorate, le auto acquistate tra le più care. Tutto senza una ricchezza definibile collettiva. Una ricchezza saccheggiata, presa con fatica da qualcuno e portata nel proprio buco. Arrivavano da ogni parte per investire, indotti che producevano confezioni, camicie, gonne, giacche, giubbotti, guanti, cappelli, scarpe, borse, portafogli per aziende italiane, tedesche, francesi. In queste zone dagli anni '50 non v'era necessità di avere permessi, contratti, spazi. Garage, sottoscale, stanzini diventavano fabbriche. Negli ultimi anni la concorrenza cinese ha distrutto quelle che fabbricavano prodotti di qualità media. Non ha più dato spazio di crescita alla manualità degli operai. O lavori nel migliore dei modi subito o qualcuno saprà lavorare a un livello medio in maniera più veloce. Un numero elevato di persone si sono trovate senza lavoro. I proprietari delle fabbriche sono finiti stritolati dai debiti, dall'usura. Molti si sono dati alla latitanza. C'è un luogo che con la fine di questi indotti di bassa qualità ha esaurito il respiro, la crescita, la sopravvivenza. Della fine della periferia sembra l'emblema. Con le case sempre illuminate e piene di gente, con i cortili affollati. Le macchine sempre parcheggiate. Nessuno che esce mai di là. Qualcuno che entra. Pochi che si fermano. In nessun momento della giornata ci sono i vuoti condominiali, quelli che si sentono al mattino quando tutti vanno al lavoro o a scuola. Qui invece c'è sempre folla, un rumore continuo di abitato. Parco Verde a Caivano. Parco Verde spunta appena si esce dall'asse mediano, una lama di catrame che taglia di netto tutti i paesi del napoletano. Sembra, piuttosto che un quartiere, una paccottiglia di cemento, verande di alluminio che si gonfiano come bubboni su ogni balcone. Sembra uno di quei posti che l'architetto ha progettato ispirandosi alle costruzioni sulla spiaggia, come se avesse pensato quei palazzi come le torri di sabbia che vengono fuori rovesciando il secchiello. Palazzi essenziali, bigi. Qui c'è in un angolo una cappelletta minuscola. Quasi impercettibile. Non era però sempre stata così. Prima c'era una cappella. Grande, bianca. Un vero e proprio mausoleo dedicato a un ragazzo, Emanuele, morto sul lavoro. Un lavoro che in certe zone è persino peggio del lavoro nero in fabbrica. Ma è un mestiere. Emanuele faceva rapine. E le faceva sempre di sabato, tutti i sabato, da un po' di tempo. E sempre sulla stessa strada. Stessa ora, stessa strada, stesso giorno. Perché il sabato era il giorno delle sue vittime. Il giorno delle coppiette. E la Statale 87 era il luogo dove tutte le coppie della zona si appartano. Una strada di merda, tra catrame rattoppato e microdiscariche. Ogni volta che ci passo e vedo le coppiette penso che sia necessario dare fondo a tutta la propria passione per riuscire a star bene in mezzo a tanto schifo. Proprio qui Emanuele e due suoi amici si nascondevano, attendevano l'auto della coppia che parcheggiava, la luce che si spegneva. Aspettavano qualche minuto dopo che la luce s'era spenta per farli svestire, e nel momento di massima vulnerabilità arrivavano. Con il calcio della pistola rompevano il finestrino e poi la puntavano sotto il naso del ragazzo. Ripulivano le coppiette e se ne andavano nei weekend con decine di rapine fatte e cinquecento euro in tasca: un bottino minuscolo che può avere il sapore del tesoro. Capita però che una notte una pattuglia di carabinieri li intercetti. Sono così imbecilli, Emanuele e i suoi compari, che non prevedono che fare sempre le stesse mosse e rapinare sempre nelle stesse zone è il miglior modo per essere arrestati. Le due auto si inseguono, si speronano, partono gli spari. Poi tutto si ferma. In auto c'è Emanuele, colpito a morte. Aveva in mano una pistola, e aveva fatto il gesto di puntarla contro i carabinieri. Lo ammazzarono con undici colpi sparati in pochi secondi. Sparare undici colpi a bruciapelo significa avere la pistola puntata ed esser pronti al minimo segnale sparare. Sparare per uccidere e poi pensare di farlo per non essere uccisi. Gli altri due avevano fermato la macchina. I proiettili erano entrati passando nell'auto come un vento. Tutti calamitati dal corpo di Emanuele. I suoi amici avevano tentato di aprire gli sportelli, ma appena avevano capito che Emanuele era morto si erano fermati. Avevano aperto le portiere senza fare resistenza ai pugni in faccia che precedono ogni arresto. Emanuele era incartocciato su se stesso, aveva in mano una pistola finta. Una di quelle riproduzioni che una volta chiamavano scacciacani, usate in campagna per cacciare i branchi di randagi dai pollai. Un giocattolo che veniva usato come fosse vero; del resto Emanuele era un ragazzino che agiva come fosse un uomo maturo, sguardo spaventato che fingeva d'essere spietato, la voglia di qualche spicciolo che fingeva essere brama di ricchezza. Emanuele aveva quindici anni. Tutti lo chiamavano semplicemente Manu. Aveva una faccia asciutta, scura e spigolosa, uno di quelli che ti immagini come archetipo di ragazzino da non frequentare. Emanuele era un ragazzo su questo angolo di territorio dove onore e rispetto non ti sono dati da pochi spiccioli, ma da come li ottieni. Emanuele era parte di Parco Verde. E non c'è errore o crimine che possa cancellare la priorità dell'appartenenza a certi luoghi che ti marchiano a fuoco. Avevano fatto una colletta tutte le famiglie di Parco Verde. E avevano tirato su un piccolo mausoleo. Dentro ci avevano messo una fotografia della Madonna dell'Arco e una cornice con il volto sorridente di Manu. Comparve anche la cappella di Emanuele, tra le oltre venti che i fedeli avevano edificato a tutte le madonne possibili, una per ogni anno di disoccupazione. Il sindaco però non poteva sopportare che si edificasse un altare a un mariuolo, e mandò una ruspa ad abbatterlo. In un attimo il cemento tirato su si sbriciolò come un lavoretto di Das. In pochi minuti si sparse la voce nel Parco, i ragazzi arrivarono con motorini e moto vicino alle ruspe. Nessuno pronunciava parola. Ma tutti fissavano l'operaio che stava muovendo le leve. Con il carico di sguardi l'operaio si fermò, e fece cenno di guardare il maresciallo. Era lui che gli aveva dato l'ordine. Come un gesto per mostrare l'obiettivo della rabbia, per togliere il bersaglio dal suo petto. Era impaurito. Si chiuse dentro. Assediato. In un attimo iniziò la guerriglia. L'operaio riuscì a scappare nella macchina della polizia. Presero a pugni e calci la ruspa, svuotarono le bottiglie di birra e le riempirono con la benzina. Inclinarono i motorini facendo colare il carburante nelle bottiglie direttamente dai serbatoi. E presero a sassate i vetri di una scuola, vicino al Parco. Cade la cappella di Emanuele, deve cadere tutto il resto. Dai palazzi lanciavano piatti, vasi, posate. Poi le bottiglie incendiarie contro la polizia. Misero in fila i cassonetti come barricate. Diedero fuoco a tutto quanto potesse prenderlo e diffonderlo. Si prepararono alla guerriglia. Erano centinaia, potevano resistere a lungo. La rivolta si stava diffondendo, stava arrivando nei quartieri napoletani. Ma poi giunse qualcuno, da non troppo lontano. Tutto era circondato da auto della polizia e dei carabinieri, ma un fuoristrada nero riuscì a superare le barricate. L'autista fece un cenno, qualcuno aprì la portiera e un gruppetto di rivoltosi entrò. In poco più di due ore tutto venne smantellato. Si tolsero i fazzoletti dalla faccia, lasciarono spegnere le barricate di spazzatura. I clan erano intervenuti, ma chissà quale. Parco Verde è una miniera per la manovalanza camorristica. Qui tutti quelli che vogliono raccolgono le leve più basse, la manovalanza da pagare persino meno dei pusher nigeriani o albanesi. Tutti cercano i ragazzi di Parco Verde: i Casalesi, i Maliardo di Giugliano, i "tigrotti" di Crispano. Divengono spacciatori con stipendi senza percentuali sulle vendite. E poi autisti e pali, a presidiare territori anche a chilometri di distanza da casa loro. E pur di lavorare non chiedono il rimborso della benzina. Ragazzi fidati, scrupolosi nel loro mestiere. A volte finiscono nell'eroina. La droga dei miserabili. Qualcuno si salva, si arruola, entra nell'esercito e va lontano, qualche ragazza riesce ad andare via per non mettere più piede in questi luoghi. Quasi nessuno delle nuove generazioni viene affiliato. La parte maggiore lavora per i clan, ma non saranno mai camorristi. I clan non li vogliono, non li affiliano, li fanno lavorare sfruttando questa grande offerta. Non hanno competenze, talento commerciale. Molti fanno i corrieri. Portano zaini pieni di hashish a Roma. I muscoli dei motori tirati al massimo, un'ora e mezza e già sono alle porte della capitale. Non prendono nulla in cambio di questi viaggi, ma dopo circa una ventina di spedizioni gli regalano la moto. Lo sentono un guadagno prezioso, ineguagliabile quasi, certamente irraggiungibile con qualsiasi altro mestiere rintracciabile in questo luogo. Ma hanno trasportato merce capace di fatturare dieci volte il costo della moto. Non lo sanno e non riescono a immaginarlo. Se un posto di blocco li intercetta subiranno condanne sotto i dieci anni, e non essendo affiliati non avranno le spese legali pagate né l'assistenza familiare garantita dai clan. Ma in testa c'è il rombo dello scappamento e Roma da raggiungere. Qualche barricata continuò ancora a sfogarsi ma lentamente, a seconda della quantità di rabbia nella pancia. Poi tutto sfiatò. I clan non avevano timore della rivolta, né del clamore. Potevano uccidersi e bruciare per giorni, nulla sarebbe accaduto. Ma la rivolta non li avrebbe fatti lavorare. Non avrebbe fatto di Parco Verde il serbatoio d'emergenza da cui attingere sempre manovalanza a prezzo bassissimo. Tutto, e subito, doveva rientrare. Tutti dovevano tornare al lavoro, o meglio, disponibili al lavoro eventuale. Il gioco della rivolta doveva finire. Al funerale di Emanuele c'ero stato. Quindici anni in certi meridiani di mondo sono solo una somma. Crepare a quindici anni in questa periferia sembra scontare una condanna a morte piuttosto che essere privati della vita. In chiesa c'erano molti, moltissimi ragazzi tutti scuri in volto, ogni tanto lanciavano qualche urlo e addirittura un coretto ritmato fuori dalla chiesa: «Sem-pre con noi, rim-arrai sem-pre con noi... sempre con noi...». Gli ultrà lo scandiscono solitamente quando qualche vecchia gloria abbandona la maglia. Sembravano allo stadio, ma c'erano solo cori di rabbia. C'erano poliziotti in borghese che cercavano di stare lontano dalle navate. Tutti li avevano riconosciuti, ma non c'era spazio per scaramucce. In chiesa riuscii subito a individuarli; o meglio loro individuarono me, non trovando sul mio viso traccia del loro archivio mentale. Come per venire incontro alla mia cupezza uno di questi mi si avvicinò dicendomi: «Questi qua sono tutti pregiudicati. Spaccio, furto, ricettazione, rapina... qualcuno fa pure le marchette. Non c'è nessuno pulito. Qua più ne muoiono, meglio è per tutti...». Parole a cui si risponde con un gancio, o una testata sul setto nasale. Ma era in realtà il pensiero di tutti. E forse persino un pensiero saggio. Quei ragazzi che si faranno l'ergastolo per una rapina da 200 euro – feccia, surrogati d'uomini, spacciatori – li guardavo, uno per uno. Nessuno di loro superava i vent'anni. Padre Mauro, il parroco che celebrava la funzione, sapeva chi aveva di fronte. Sapeva anche che i ragazzini che gli stavano intorno non avevano il timbro dell'innocenza. «Oggi non è morto un eroe...» Non aveva le mani aperte, come i preti quando leggono le parabole alla domenica. Aveva i pugni chiusi. Assente qualsiasi tono d'omelia. Quando iniziò a parlare la sua voce era rovinata da una raucedine strana, come quella che viene quando ti parli dentro per troppo tempo. Parlava con un tono rabbioso, nessuna pena molle per la creatura, non delegava niente. Sembrava uno di quei preti sudamericani durante i moti di guerriglia in Salvador, quando non ne potevano più di celebrare funerali di massacri e smettevano di compatire, e iniziavano a urlare. Ma qui Romero nessuno lo conosce. Padre Mauro ha un'energia rara. «Per quante responsabilità possiamo attribuire a Emanuele, restano i suoi quindici anni. I figli delle famiglie che nascono in altri luoghi d'Italia a quell'età vanno in piscina, a fare scuola di ballo. Qui non è così. Il Padreterno terrà conto del fatto che l'errore è stato commesso da un ragazzo di quindici anni. Se quindici anni nel sud Italia sono abbastanza per lavorare, decidere di rapinare, uccidere ed essere uccisi, sono anche abbastanza per prendere responsabilità di tali cose». Poi tirò forte col naso l'aria viziata della chiesa: «Ma quindici anni sono così pochi che ci fanno vedere meglio cosa c'è dietro, e ci obbligano a distribuire la responsabilità. Quindici anni è un'età che bussa alla coscienza di chi ciancia di legalità, lavoro, impegno. Non bussa con le nocche, ma con le unghie». Il parroco finì l'omelia. Nessuno capì fino in fondo cosa voleva dire, né c'erano autorità o istituzioni. Il trambusto dei ragazzi divenne enorme. La bara uscì dalla chiesa, quattro uomini la sorreggevano ma d'improvviso smise di poggiare sulle loro spalle e iniziò a galleggiare sulla folla. Tutti la mantenevano con il palmo delle mani, come si fa con le rock-star quando si catapultano dal palco sugli spettatori. Il feretro ondeggiava nel lago di dita. Un corteo di ragazzi in moto si schierò vicino alla macchina, la macchina lunga dei morti, pronta a trasportare Manu al cimitero. Acceleravano. Col freno premuto. Il rombo dei motori fece da coro all'ultimo percorso di Emanuele. Sgommando, lasciando ululare le marmitte. Sembrava volessero scortarlo con quelle moto sino alle porte dell'oltretomba. In poco tempo un fumo denso e un puzzo di benzina riempì ogni cosa e impregnò i vestiti. Tentai di entrare in sacrestia. Volevo parlare a quel prete che aveva avuto parole roventi. Mi anticipò una donna. Voleva dirgli che in fondo il ragazzo se l'era cercata, che la famiglia non gli aveva insegnato nulla. Poi, orgogliosa, confessò: «I miei nipoti anche se disoccupati non avrebbero mai fatto rapine...». E continuando nervosa: «Ma cosa aveva imparato questo ragazzo? Niente?» Il prete guardò per terra. Era in tuta. Non tentò di rispondere, non la guardò neanche in viso e continuando a fissarsi le scarpe da ginnastica bisbigliò: «Il fatto è che qui si impara solo a morire».

Gomorra | Roberto SavianoWhere stories live. Discover now