1. Il Porto

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''Comprendere cosa significa l'atroce, non negarne l'esistenza, affrontare spregiudicatamente la realtà''.

(Hannah Arendt)


''Coloro che vincono, in qualunque modo vincano, mai non ne riportano vergogna''. 

(Niccolò Macchiavelli)


''La gente sono vermi e devono rimanere vermi''.

(Da un'intercettazione telefonica)


''Il mondo è tuo''.

(Scarface, 1983)



Il container dondolava mentre la gru lo spostava sulla nave. Come se stesse galleggiando nell'aria, lo sprider, il meccanismo che aggancia il container alla gru, non riusciva a domare il movimento. I portelloni mal chiusi si aprirono di scatto e iniziarono a piovere decine di corpi. Sembravano manichini. Ma a terra le teste si spaccavano come fossero crani veri. Ed erano crani. Uscivano dal container uomini e donne. Anche qualche ragazzo. Morti. Congelati, tutti raccolti, l'uno sull'altro. In fila, stipati come aringhe in scatola. Erano i cinesi che non muoiono mai. Gli eterni che si passano i documenti l'uno con l'altro. Ecco dove erano finiti. I corpi che le fantasie più spinte immaginavano cucinati nei ristoranti, sotterrati negli orti d'intorno alle fabbriche, gettati nella bocca del Vesuvio. Erano lì. Ne cadevano a decine dal container, con il nome appuntato su un cartellino annodato a un laccetto intorno al collo. Avevano tutti messo da parte i soldi per farsi seppellire nelle loro città in Cina. Si facevano trattenere una percentuale dal salario, in cambio avevano garantito un viaggio di ritorno, una volta morti. Uno spazio in un container e un buco in qualche pezzo di terra cinese. Quando il gruista del porto mi raccontò la cosa, si mise le mani in faccia e continuava a guardarmi attraverso lo spazio tra le dita. Come se quella maschera di mani gli concedesse più coraggio per raccontare. Aveva visto cadere corpi e non aveva avuto bisogno neanche di lanciare l'allarme, di avvertire qualcuno. Aveva soltanto fatto toccare terra al container, e decine di persone comparse dal nulla avevano rimesso dentro tutti e con una pompa ripulito i resti. Era così che andavano le cose. Non riusciva ancora a crederci, sperava fosse un'allucinazione dovuta agli eccessivi straordinari. Chiuse le dita coprendosi completamente il volto e continuò a parlare piagnucolando, ma non riuscivo più a capirlo. Tutto quello che esiste passa di qui. Qui dal porto di Napoli. Non v'è manufatto, stoffa, pezzo di plastica, giocattolo, martello, scarpa, cacciavite, bullone, videogioco, giacca, pantalone, trapano, orologio che non passi per il porto. Il porto di Napoli è una ferita. Larga. Punto finale dei viaggi interminabili delle merci. Le navi arrivano, si immettono nel golfo avvicinandosi alla darsena come cuccioli a mammelle, solo che loro non devono succhiare, ma al contrario essere munte. Il porto di Napoli è il buco nel mappamondo da dove esce quello che si produce in Cina, Estremo Oriente come ancora i cronisti si divertono a definirlo. Estremo. Lontanissimo. Quasi inimmaginabile. Chiudendo gli occhi appaiono kimono, la barba di Marco Polo e un calcio a mezz'aria di Bruce Lee. In realtà quest'Oriente è allacciato al porto di Napoli come nessun altro luogo. Qui l'Oriente non ha nulla di estremo. Il vicinissimo Oriente, il minimo Oriente dovrebbe esser definito. Tutto quello che si produce in Cina viene sversato qui. Come un secchiello pieno d'acqua girato in una buca di sabbia che con il solo suo rovesciarsi erode ancor di più, allarga, scende in profondità. Il solo porto di Napoli movimenta il 20 per cento del valore dell'import tessile dalla Cina, ma oltre il 70 per cento della quantità del prodotto passa di qui. È una stranezza complicata da comprendere, però le merci portano con sé magie rare, riescono a essere non essendoci, ad arrivare pur non giungendo mai, a essere costose al cliente pur essendo scadenti, a risultare di poco valore al fisco pur essendo preziose. Il fatto è che il tessile ha parecchie categorie merceologiche, e basta un tratto di penna sulla bolletta d'accompagnamento per abbattere radicalmente i costi e l'IVA. Nel silenzio del buco nero del porto la struttura molecolare delle cose sembra scomporsi, per poi riaggregarsi una volta uscita dal perimetro della costa. La merce dal porto deve uscire subito. Tutto avviene talmente velocemente che mentre si sta svolgendo, scompare. Come se nulla fosse avvenuto, come se tutto fosse stato solo un gesto. Un viaggio inesistente, un approdo falso, una nave fantasma, un carico evanescente. Come se non ci fosse mai stato. Un'evaporazione. La merce deve arrivare nelle mani del compratore senza lasciare la bava del percorso, deve arrivare nel suo magazzino, subito, presto, prima che il tempo possa iniziare, il tempo che potrebbe consentire un controllo. Quintali di merce si muovono come fossero un pacco contrassegno che viene recapitato a mano dal postino a domicilio. Nel porto di Napoli, nei suoi 1.336.000 metri quadri per 11,5 chilometri, il tempo ha dilatazioni uniche. Ciò che fuori riuscirebbe a essere compiuto in un'ora, nel porto di Napoli sembra accadere in poco più d'un minuto. La lentezza proverbiale che nell'immaginario rende lentissimo ogni gesto di un napoletano qui è cassata, smentita, negata. La dogana attiva il proprio controllo in una dimensione temporale che le merci cinesi sforano. Spietatamente veloci. Qui ogni minuto sembra ammazzato. Una strage di minuti, un massacro di secondi rapiti dalle documentazioni, rincorsi dagli acceleratori dei camion, spinti dalle gru, accompagnati dai muletti che scompongono le interiora dei container. Nel porto di Napoli opera il più grande armatore di Stato cinese, la COSCO, che possiede la terza flotta più grande al mondo e ha preso in gestione il più grande terminal per container, consorziandosi con la MSC, che possiede la seconda flotta più grande al mondo con sede a Ginevra. Svizzeri e cinesi si sono consorziati e a Napoli hanno deciso di investire la parte maggiore dei loro affari. Qui dispongono di oltre 950 metri di banchina, centotrentamila metri quadri di terminal container e trentamila metri quadri esterni, assorbendo la quasi totalità del traffico in transito a Napoli. Bisogna rifondare la propria immaginazione per cercare di comprendere come l'immensità della produzione cinese possa poggiare sullo scalino del porto napoletano. L'immagine evangelica sembra appropriata, la cruna dell'ago somiglia al porto e il cammello che l'attraverserà sono le navi. Prue che si scontrano, file indiane di enormi bastimenti fuori dal golfo che aspettano la loro entrata tra confusione di poppe che beccheggiano, rumoreggiando con languori di ferri, lamiere e bulloni che lentamente entrano nel piccolo foro napoletano. Come un ano di mare che si allarga con grande dolore degli sfinteri. Eppure no. Non è così. Nessuna confusione apparente. Tutte le navi entrano ed escono con regolare ordine o almeno così sembra a osservare dalla terra ferma. Eppure centocinquantamila container transitano da qui. Intere città di merci si edificano sul porto per poi essere trasportate via. La qualità del porto è la velocità, ogni lentezza burocratica, ogni controllo meticoloso mutano il ghepardo del trasporto in un bradipo lento e pesante. Mi perdo sempre al molo. Il molo Bausan è identico alle costruzioni Lego. Una struttura immensa, ma che sembra non avere spazio, piuttosto pare inventarselo. C'è un angolo del molo che sembra un reticolo di vespai. Arnie bastarde che riempiono una parete. Sono migliaia di prese elettriche per l'alimentazione dei contenitori reefer, i container con i cibi surgelati e le code attaccate a questo vespaio. Tutti i sofficini e i bastoncini di pesce della terra sono stipati in quei contenitori ghiacciati. Quando vado al molo Bausan ho la sensazione di vedere da dove passano tutte le merci prodotte per l'umana specie. Dove trascorrono l'ultima notte prima di essere vendute. Come fissare l'origine del mondo. In poche ore transitano per il porto i vestiti che indosseranno i ragazzini parigini per un mese, i bastoncini di pesce che mangeranno a Brescia per un anno, gli orologi che copriranno i polsi dei catalani, la seta di tutti i vestiti inglesi d'una stagione. Sarebbe interessante poter leggere da qualche parte non soltanto dove la merce viene prodotta, ma persino che tragitto ha fatto per giungere nelle mani dell'acquirente. I prodotti hanno cittadinanze molteplici, ibride e bastarde. Nascono per metà nel centro della Cina, poi si completano in qualche periferia slava, si perfezionano nel nord est d'Italia, si confezionano in Puglia o a nord di Tirana, per poi finire in chissà quale magazzino d'Europa. La merce ha in sé tutti i diritti di spostamento che nessun essere umano potrà mai avere. Tutti i frammenti di strada, i percorsi accidentali e ufficiali trovano punto fermo a Napoli. Quando al molo attraccano le navi, gli enormi fullcontainers sembrano animali leggeri, ma appena entrano nel golfo lentamente, avvicinandosi al molo, divengono pesanti mammut di lamiere e catene con nei fianchi suture arrugginite che colano acqua. Navi su cui ti immagini vivano equipaggi numerosissimi, e invece scaricano manipoli di ometti che pensi incapaci di domare quei bestioni in pieno oceano. La prima volta che ho visto attraccare una nave cinese mi pareva di stare dinanzi a tutta la produzione del mondo. Gli occhi non riuscivano a contare, quantificare, il numero di container presenti. Non riuscivo a tenerne il conto. Può apparire impossibile non riuscire a procedere con i numeri, eppure il conto si perdeva, le cifre diventavano troppo elevate, si mescolavano. A Napoli ormai si scarica quasi esclusivamente merce proveniente dalla Cina, 1.600.000 tonnellate. Quella registrata. Almeno un altro milione passa senza lasciare traccia. Nel solo porto di Napoli, secondo l'Agenzia delle Dogane, il 60 per cento della merce sfugge al controllo della dogana, il 20 per cento delle bollette non viene controllato e vi sono cinquantamila contraffazioni: il 99 per cento è di provenienza cinese e si calcolano duecento milioni di euro di tasse evase a semestre. I container che devono scomparire prima di essere ispezionati si trovano nelle prime file. Ogni container è regolarmente numerato, ma ce ne sono molti con la stessa identica numerazione. Così un container ispezionato battezza tutti i suoi omonimi illegali. Quello che il lunedì si scarica, il giovedì può vendersi a Modena o Genova o finire nelle vetrine di Bonn e Monaco. Molta parte della merce che viene immessa nel mercato italiano avrebbe dovuto fare soltanto transito, ma le magie delle dogane permettono che il transito poi diventi fermo. La grammatica delle merci ha una sintassi per i documenti e un'altra per il commercio. Nell'aprile 2005, in quattro operazioni, scattate quasi per caso, a poca distanza le une dalle altre, il Servizio di Vigilanza Antifrode della Dogana aveva sequestrato ventiquattromila jeans destinati al mercato francese; cinquantunomila oggetti provenienti dal Bangladesh con il marchio made in Italy; e circa quattrocentocinquantamila personaggi, pupazzi, barbie, spiderman; più altri quarantaseimila giocattoli di plastica per un valore complessivo di circa trentasei milioni di euro. Una fettina d'economia, in una manciata di ore stava passando per il porto di Napoli. E dal porto al mondo. Non c'è ora o minuto in cui questo non accada. E le fettine di economia divengono lacerti, e poi quarti e interi manzi di commercio. Il porto è staccato dalla città. Un'appendice infetta mai degenerata in peritonite, sempre conservata nell'addome della costa. Ci sono parti desertiche rinchiuse tra l'acqua e la terra, ma che sembrano non appartenere né al mare né alla terra. Un anfibio di terra, una metamorfosi marina. Terriccio e spazzatura, anni di rimasugli portati a riva dalle maree hanno creato una nuova formazione. Le navi scaricano le loro latrine, puliscono stive lasciando colare la schiuma gialla in acqua, i motoscafi e i panfili spurgano motori e rassettano raccogliendo tutto nella pattumiera marina. E tutto si raccoglie sulla costa, prima come massa molliccia e poi crosta dura. Il sole accende il miraggio di mostrare un mare fatto d'acqua. In realtà la superficie del golfo somiglia alla lucentezza dei sacchetti della spazzatura. Quelli neri. E piuttosto che d'acqua, il mare del golfo sembra un'enorme vasca di percolato. La banchina con migliaia di container multicolori pare un limite invalicabile. Napoli è circoscritta da muraglie di merci. Mura che non difendono la città, ma al contrario la città difende le mura. Non ci sono eserciti di scaricatori, né romantiche plebaglie da porto. Ci si immagina il porto come luogo del fracasso, dell'andirivieni di uomini, di cicatrici e lingue impossibili, frenesia di genti. Invece impera un silenzio da fabbrica meccanizzata. Al porto non sembra esserci più nessuno, i container, le navi e i camion sembrano muoversi animati da un moto perpetuo. Una velocità senza chiasso. Al porto ci andavo per mangiare il pesce. Non è la vicinanza al mare che fa da garante di un buon ristorante, nel piatto ci trovavo le pietre pomici, sabbia, persino qualche alga bollita. Le vongole come le pescavano così le giravano nella pentola. Una garanzia di freschezza, una roulette russa d'infezione. Ma ormai tutti si sono rassegnati al sapore d'allevamento che rende simile un totano a un pollo. Per avere l'indefinibile sapore di mare bisognava in qualche modo rischiare. E questo rischio lo correvo volentieri. Mentre ero al ristorante del porto, chiesi informazioni per trovare un alloggio da affittare.

Gomorra | Roberto SavianoWhere stories live. Discover now