Non incontrai nessuno lungo il tragitto fino alla pensilina del pullman, in quel momento deserta. Mi accomodai sulla panchina senza nemmeno guardare quando sarebbe passato il prossimo autobus.
Ero caduta in una dimensione inglobante, ovattata, un luogo dove mi sentivo meglio che nel mondo reale. Dove non c'era spazio per i pensieri, indipendente dalla loro natura. Come se fossi stata vittima di un sonno perenne, senza sogni e senza incubi.
Aspettai forse venti minuti, non ne tenni il conto. Quando mi fui accomodata sul mio sedile, il primo dietro al posto del guidatore, l'anziana seduta nella fila accanto a me rivolse un'occhiata stupita al mio zaino, o meglio, alle parole scritte su di esso.
In tutta risposta lo riposi fra le mie gambe, girando la testa dall'altra parte e guardando la città scorrere fuori dal finestrino.

Non pensavo a quello che avrei detto a mia madre: avrebbe prima o poi visto lo zaino e, quando lo avrei lavato, perché ci avrei provato, non mi importava ricevere un altro colpo, lo avrebbe sicuramente notato.
La donna di poco prima continuava a guardarmi, sentivo il peso delle sue occhiate sulle spalle.
Feci ancora una volta finta di nulla, consapevole che uno sguardo infastidito non avrebbe potuto cambiare la sua mentalità.
Durante il viaggio in autobus pensai alla possibilità di parlare con Adele, ma come ogni altra volta il mio coraggio cadeva di fronte alla consapevolezza che sapevo ne sarei uscita ancora una volta perdente, e lo stesso valeva per Emma o Davide.

Ma il mio tarlo principale era Stefano: io avevo rinunciato a lui per qualcosa che poi si era rivelato inutile.
Io avevo sbagliato, ne ero consapevole, ma sapere che non sarei potuta tornare sui miei passi era ancora più logorante.
Cosa dovevo fare ancora per non perdere altro? Per non soffrire? Se lasciare Stefano non era stato sufficiente, cosa voleva Adele da me?
Troppe domande e nessuna risposta. E, considerando il mio egoismo, probabilmente non sarebbero aumentate.
Stavo perdendo i sentimenti, stavo diventando troppo fredda. Il problema era che non sapevo come rimediare.

Arrivai a casa con la testa che mi scoppiava. Ero talmente distratta e stravolta che sbagliai più volte a scegliere dal mazzo la chiave per aprire la porta d'entrata.
Quando però mi ritrovai in salotto, ancora una volta come uno strumento artificiale, agii meccanica. Mi diressi subito in camera, svuotai lo zaino da ogni cosa e lo infilai in lavatrice.
Non sapendo quale lavaggio fare, optai per il più potente in un breve lasso di tempo, sperando che mamma non sarebbe tornata proprio in quel frangente.
Cosa feci poi, quando premetti il bottone d'accensione?
Quali domande attraversarono la mia mente?
Nessuna. Mi diressi senza dire nulla in camera mia e cominciai a fare i compiti.

***

Ricordate quando, da bambini, vi ripetevano che a ogni malattia c'è un rimedio? Che l'oggetto rotto si può aggiustare o sostituire, che la ferita guarisce? Che ci sarà sempre qualcuno pronto ad aiutarvi?
Quel periodo era molto bello. Non perché si potesse credere a quelle menzogne, ma perché non ci si accorgeva che in realtà il mondo fosse ben peggio del contrario.
Sono pochi gli oggetti che si aggiustano. Generalmente, rimangono delle crepe, i segni dell'incollatura, e sulle persone restano le cicatrici. Ma, nella maggior parte dei casi, di entrambi non rimane nemmeno un frammento.
Perché le persone pronte ad aiutarti davvero non esistono, gli amici non riusciranno mai a capirti fino in fondo.

Ma aspettate, credete che la persona non soccorsa sia io, non è così? Per una volta, devo dirvi di no. No, non sono io la persona che è stata dimenticata e sopravvalutata da tutti. No.
Chi è, vi starete chiedendo. Qualcuno di ben più vicino di quanto possiate immaginare. Perché le cose più grandi sono sempre nascoste sotto i nostri occhi.
Peccato che in quei momenti io fossi completamente ottusa, tanto da non vedere a un palmo dal mio naso. Per me esistevo solo io, gli altri erano qualcosa di irraggiungibile, la maggior parte dei casi anche ostile.

La mattina dopo, quando mi ero svegliata, il mio primo pensiero fu per il mio zaino, infilato bagnato fra la testiera del mio letto e il muro. Si sarebbe probabilmente asciugato nel giro di qualche giorno, come minimo. Avevo quindi preparato in precedenza la borsa che avevo già utilizzato qualche settimana prima.
Mamma non si era accorta di nulla, per fortuna era rientrata quando il lavaggio era già finito: certo, se ne sarebbe potuta rendere conto dalla pozza d'acqua dietro il mio letto, ma non ci avevo minimamente pensato.
Non mi aveva fatto domande sul mio comportamento, le ero apparsa quella di sempre. O forse non mi aveva nemmeno guardata così a fondo. Non lo credevo probabile, ma magari tutto questo cambiamento lo vedevo solo dentro di me.
Non tardai, però, a darne un chiaro esempio anche all'esterno. Perché, quando mi incamminai verso la fermata dell'autobus, avevo già in mente che io sul mezzo non sarei salita.

IntrusaWhere stories live. Discover now