Introduzione

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Era ancora ferita e dolente quando entrò nella vecchia locanda gremita di viandanti: ve n'erano di ogni provenienza. Scrutandoli debolmente, riconobbe nei loro tratti gente delle Montagne Rosse e donnacce del Bosco dei Peccatori, ben più a sud del luogo in cui si trovava.

Un avventore in più od uno in meno, di certo non avrebbe fatto la differenza per il vecchio oste con un occhio solo. Quella sola pupilla iniettata di sangue, tuttavia, la intercettò ancor prima che potesse sedersi su uno degli sgabelli liberi davanti al bancone. Sanguinava copiosamente, la donna dall'animo immondo, inzuppando la nera cappa che le copriva i tratti del volto e nascondeva il femmineo corpo da condottiera. Ciò che più desiderava, era lavarsi via il sangue e bruciare le ferite che l'orrida bestia le aveva provocato coi suoi lunghi artigli.

« Andatevene. » gracchiò l'oste al suo indirizzo: in mano reggeva una caraffa di vino mezza piena, che non le avrebbe di certo offerto. Lo sguardo della fanciulla si fece di fuoco, tagliente come il pugnale che nascondeva nello stivale sinistro. Avrebbe potuto infilarglielo nella gola, ed allungare quel vecchio vino puzzolente con il suo sangue.

Un bel sorriso di sangue non avrebbe che giovato al vecchio ammusonito.

« Mi rifiuto! Posso pagare! » sibilò la donna, facendo tintinnare il piccolo sacchetto di pelle in cui teneva le monete. Il vecchio lo guardò, storse la bocca e scosse il capo.

No, non avrebbe accettato comunque.

« Non vogliamo cacciatori di streghe, qui dentro. Benché meno cacciatori di streghe in gonnella. » la sbeffeggiò, spingendola verso la porta da cui era entrata. Qualcuno rise, lei si arrabbiò e spintonò l'uomo che tentava di allontanarla. Lui le disse di non farsi più vedere, di togliersi dai piedi ed alla svelta se non voleva trovarsi nei guai. Di appestare altro luogo ma non la sua preziosa locanda. Le disse che quello non era posto per lei, e le richiuse la porta in faccia ringhiando improperi contro di lei e tutta la stirpe femminile della di lei famiglia.

La donna non oppose altra resistenza, comprendendo d'esser per quei popolani soltanto l'ennesima arraffona che prometteva di liberarli dal male insito sotto le fronde degli alberi ed i portici del mercato.

Affamata, avrebbe cacciato qualcosa lungo la strada del ritorno, e come ogni notte avrebbe lavato il dolore e la fatica immergendosi nelle acque di un fiume o di un lago, alla peggio in quelle di un fossato.

Sirja aveva orecchie a punta come quelle di un elfo delle Foreste d'Argento, e lunghi canini simili a quelli dei lupi, occhi blu scuro ed il naso all'insù come una naiade. Ma Sirja era un'umana, e nulla più. Nessun potere speciale, nessuna capacità innata, niente di niente.

Solo la propria forza.

Nata dal ventre di una povera contadina dall'ignoto marito, venduta ai mercenari neppure un anno dopo, cresciuta coi capelli tagliati corti e la convinzione di essere un maschio mancato per i brutti modi con cui era stata educata.

Era figlia della violenza, usavano ripetere quelli che l'avevano comprata per dieci pezzi d'argento, e lo dimostravano i suoi folti capelli, rossi come la sciagura degli uomini. E la sua lingua lunga e biforcuta.

Dicevano spesso che fosse una mezza maledetta, un rigetto della Gola Nera e dei suoi effluvi di zolfo, che fosse tutta suo padre - chiunque egli fosse - nei tratti e nell'indole che l'aveva resa più bestia che donna. Più combattente che femmina. E lei stringeva le spalle, asserendo che non le importava affatto, che della sua famiglia non rimaneva che cenere e che cenere sarebbe rimasta.

Se c'era qualcosa allora che amava, era usare le parole a suo vantaggio: intimorire, dichiarare i propri intenti con sprezzante divertimento, quando si ritrovava invischiata nel sangue arterioso dei propri nemici sino ai gomiti. E Sirja, di nemici, ne aveva così tanti da non poterli contare sulla punta delle dita. Briganti ed immonde creature figlie degli incubi più fantasiosi: tra loro, le streghe e gli stregoni di cui pareva andar ghiotta.

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