Vittime e martiri - parte 3

62 17 11
                                    

Raddrizzo le pupille ribaltate con una frequenza che ha del preoccupante. Sono svenuto con Bori di fianco, mi risveglio con Bori di fianco.
- Questa me l'hanno fatta in guerra, - dice mostrandomi un lungo taglio sull'addome.

Appena uscito da un trip di sciroppo per la tosse, e devo già sorbirmi i deliri di questo mancato suicidio.
- Alle infermiere ho detto che eri caduto.
- Che fossi.
- Eh?
Mi alzo a fatica trascinandomi fino al balcone della stanza, ad osservare il grigio panorama che si estende per chilometri mostrando al mondo i miei genitali svolazzanti.
Piano, i colori intorno a noi rabbuiano nel tramonto che fa da anticamera alle sera. Le vestaglie azzurre ondeggiano all'aria seguendo lo sferzare degli sbuffi del vento, che mi concede un lieve e gradito solletichio alle palle.
Bori non accenna al minimo dubbio per la sua vita ormai distrutta, mentre osserva il sole abbandonarci come avrebbero dovuto fare le sue speranze.
- Una volta che ammazzi un uomo non sei più lo stesso, - sbotta.
Annuisco.

Il cranio riempito d'elio si staccherebbe dal collo, se solo non vi fosse legato. La leggerezza del dormiveglia si fonde al formicolio alle gengive dovuto alla droga, creando un connubio di sensazioni veramente strano.
- Sotto le armi puoi solo riempirti di seghe, - continua.
Cerco di districarmi dalla conversazione con affermazioni farneticanti.
- Anch'io ho fatto la guerra.
- Quale?
- Quella dove c'erano i tedeschi.
Annuisce.

Un silenzio cimiteriale ci tiene compagnia mentre scrutiamo l'orizzonte.
Tutto è fermo, morto: sotto di noi una città fantasma. Il sole sparisce del tutto, mentre mi chiedo come diavolo sia finito in questo posto, in questa discarica di copri difettati e anime messe in salvo. Qui dove la gente come me e Bori si sente a casa, riverita alla buona fintanto che si gode la propria sconfitta, tra queste mura che per le persone comuni non sono altro che avelli di frustrazione. Insomma, chi mi ha trascinato fin qui? Poco importa.

Ci allontaniamo dal reparto in astinenza da droghe sintetiche, ormai stanchi di rimanere impalati sul balcone a guardare il nulla.
Attraversamo i corridoi germiti di occhi rivolti al pavimento, e di infermieri che corrono qua e là ravvivando un po' l'ambiente.
L'odore che ci entra nel naso è depositato nella nostra memoria in maniera indelebile: il deja vu della disperazione. L'ironia del candido colore delle pareti è sfibrante, voglio uscire.

Superiamo terapia intensiva passando attraverso la puzza di cadaveri che appesta queste stanze. I volti annoiati dei parenti in visita incorniciano alla perfezione questo posto.
Famigliole allargate con bambini scalcianti al seguito, si dirigono verso il prossimo contenuto delle lapidi che piangeranno, con in viso un'espressione di profonda mestizia per il tempo precato ad aspettare l'inevitabile. Si attende impotenti la morte dei propri cari per liberarsi dalle fatiche del compatimento, conciati di tutto punto per non sfigurare davanti agli altri prigionieri della commiserazione. È questa la decadenza occidentale più vera: l'apparenza che annienta il dolore.

Vestiti di stracci sventolanti e rassomiglianti al miglior Picasso, usciamo finalmente fuori da questo buco per aspiranti commediografi. Tremo al respiro gelido del vento, assaporando finalmente la cellulosa giallastra di una filtro. Il calore della sigaretta appena accesa mi riscalda le mani, mentre Bori osserva con fare morboso ogni donna nei paraggi.
- Guarda quella vacca!
Annuisco.

Il viavai delle anime provenienti dal mondo esterno si interseca con gli sguardi degli alloggianti, creando una chiara dicotomia tra falso e reale. Questo è il palocoscenico dei dannati, dramma di vittime e martiri; entrambi privi di colpe apparenti, entrambi in attesa del definitivo passo verso la salvezza: la morte.

La mia vita è una barzelletta. Svegliarsi stordito e rassomigliante ad una mummia era un distacco dal quotidiano che non mi aspettavo di ripetere così spesso. Disdegno questa assurda banalità, per quanto ci sia dentro fino al collo.
Bori mi scuote dal sonno di fitti pensieri interrompendone il flusso senza alcun preavviso.
- Ti cercano.

Una tozza infermiera sulla quarantina si dirige a piccoli e sgraziati passi verso di me, chiamandomi a gran voce come se fossi chissà quanto distante. Manca la campanella da banditore, sono piuttosto contrariato.
Una visito. Conosco diverse persone che vorrebbero vedermi col cranio spaccato, ma nessuna di queste si prenderebbe mai la briga di venire fin qua giù a godersi lo spettacolo.

Un leggero brivido di curiosità mi attraversa la schiena come ghiaccio lasciato scivolare lentamente. Una sensazione diversa dall'apatica e quotidiana rassegnazione al nulla: una scintilla imorevista, un solletichio  al cervello. Spogliata dalle esagerazioni retoriche: una novità.

Ancora troppo umanoWhere stories live. Discover now