Prologo

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«Buongiorno, baby!» E questa chi cazzo è? Ho la testa che mi scoppia, non riesco a ricordarmi niente di ieri sera, se non di aver bevuto qualche drink di troppo con Philippe. Brutto infame, questa gliela farò pagare, sapeva che stamattina mi sarei dovuto alzare presto! «Ehi, tutto okay?» Mi sfrego gli occhi arrossati dalla colossale sbornia; pensare che di solito ho due biglie scure, di un nero che si disperde nella notte, anche se in realtà nella notte, pure questa volta, mi ci sono perso io. A quanto pare, non l'ho trascorsa nel mio letto: non mi trovo tra le solitarie mura della mia stanza, bensì su di un duro materasso che odora di sesso, accanto a una figura a me ignota. Mi giro stordito verso quella voce molesta che continua a pormi domande su domande, nonostante sia ben palese, dato il cipiglio sul mio volto, che non riesca a esser certo neppure del mio nome, figuriamoci se comprendo una sola parola di quel che dice. Le orecchie mi fischiano senza sosta e le tempie pulsano doloranti come se si stessero trovando sotto l'assalto di un martello pneumatico. Penso sia trascorso qualche minuto ormai dal mio risveglio e la nebbia si fa via via sempre più diradata, rivelando immagini nitide di questa fastidiosa zanzara. Grazie al cielo, per lo meno è gnocca! I suoi occhi brillano famelici e non distolgono la loro attenzione dal mio corpo nudo. Si sistema con l'indice una ciocca castana dietro l'orecchio, in un vano tentativo di domare la chioma arruffata. Curioso, faccio scendere lo sguardo verso il basso e scopro con piacere le sue generose tette, abbondanti e scoperte; di sicuro sono rifatte, così come quelle due labbra, tanto gonfie da sembrare salvagenti. Ho pochi flash di ieri sera, ma quel poco che ricordo riconduce proprio a quei due canotti, a quella bocca carnosa che si è avvolta come una ventosa intorno al mio... «Sai, sei stato eccezionale stanotte, dico sul serio, una vera bomba.» La sua voce insopportabile interrompe brusca le mie fantasie e fa scoppiare la bolla di eccitazione nella quale mi stavo chiudendo. Oh signore, ti prego, falla stare zitta o sarò costretto a infilarle in bocca uno dei miei calzini! A proposito di calzini, dove saranno andati a finire i miei vestiti? «Poi, quando mi hai sbattuta di nuovo sul tavolo, così rude, così sexy, io...» Esasperato, mi alzo, cercando di raccattare le mie cose, trovando però solo i boxer. Mi guardo intorno e scopro che sono disseminate un po' ovunque. Inizio a percorrere così l'appartamento, saltellando per riuscire a infilare i vari indumenti più in fretta che posso e andarmene da questa casa. Mi cade l'occhio sull'orologio appeso alla parete. Merda! Il mio ritardo è colossale, il volo parte tra meno di tre ore e devo ancora passare a recuperare la valigia. Sapevo che uscire ieri sera sarebbe stata una cattiva idea, ma il mio amico, come un diavolo tentatore, è riuscito a dissuadermi dal restare a cuccia e io ovviamente ho fatto la cazzata di accettare. Intanto la tizia continua a parlare. Ma non le si secca mai la lingua? Cerco le mie scarpe, ma non sono in grado di trovarle da nessuna parte. Accidenti! Decido di interrompere il suo monologo, sperando che almeno lei sappia dove diavolo le ho lasciate. «Sì, ehm...» dico schioccando le dita per attirare la sua attenzione. «Natasha» risponde veloce, pronta a riprendere da dove era rimasta, ma la blocco di nuovo. «Sai per caso che fine hanno fatto le mie scarpe?» Il suo sguardo in un lampo si fa malizioso... Che c'è adesso? «Beh, veramente non sono qui in casa...» afferma, emettendo una risatina stridula. Io la lincio con gli occhi ridotti a due fessure, intimandole di essere più chiara. «Le hai lasciate in ascensore...» confessa, tornando a ridere, come se la cosa dovesse divertire anche me. È ufficiale, sono fottuto; non so neanche in quale parte di Parigi mi trovo! Oh, al diavolo, uscirò senza! Se perdo il volo, Giacomo mi uccide e non saranno di certo le scarpe il mio problema. Vi starete chiedendo chi sia Giacomo. Beh, lui è come un fratello per me, siamo cresciuti insieme in un piccolo paesino dell'entroterra riminese, immerso nella tranquillità, dove tutti conoscono tutti sin dall'infanzia. È una di quelle persone che ti accompagnano negli anni di sbagli, delusioni, scoperte e divertimento. Non lo sentivo da un paio di mesi, quindi non mi sarei mai aspettato di avere sue notizie su carta stampata color confetto, seguite poi da una telefonata, con la quale mi comunicava che il mio amico, grandissimo puttaniere della riviera romagnola, avesse deciso di farsi mettere le manette sposandosi, e chiedendomi di fargli da testimone, con quella pettegola di Louise. Louise Devroux era, ed è tuttora, una ragazza davvero insopportabile, più di un chewing-gum che ti si attacca nei capelli. Padre francese, madre riminese, trasferitasi in Italia a soli dodici anni a causa del divorzio dei genitori, castana, naso aquilino, due occhi a palla color pece, secca come un manico di scopa, ma con una terza abbondante che portava con orgoglio e che sfoggiava allegramente, lasciando ben poco all'immaginazione, era riuscita ad accaparrarsi quello stupido di Giacomo. Pensare che ricordo ancora quando a scuola ci lanciava il suo sguardo da miss perfettina, dando la risposta corretta a qualsiasi domanda. Crescendo, ovviamente, non ha fatto altro che peggiorare. Ancora oggi mi chiedo cosa abbia portato Giacomo a innamorarsi di lei; ormai era abbastanza grande da capire la grossa stronzata che stava facendo, venticinque anni non sono poi così pochi per comprendere la vera natura di chi ti si presenta davanti, ancor più se la persona in questione non fa nulla per celare il suo carattere di merda. Invece eccolo qua, a un passo dal matrimonio, alla tenera età di trentun anni. «Ha doti nascoste che non ti puoi neppure immaginare» mi disse quando gli chiesi cosa si fosse fumato per farsi abbindolare; insomma, doveva essere roba buona. Ovviamente, da stronzo quale sono, con un sorriso sfacciato dipinto sul volto, gli risposi: «Oh, le posso immaginare, Giacomo, ne parlano tutti!» Quella fu l'unica volta che ricevetti un destro dal mio amico e capii che ormai era salito sul treno dell'amore con biglietto di sola andata. Mi ridesto da questi ricordi ormai lontani, focalizzando la mia attenzione sul presente. Il matrimonio sarà tra otto settimane ma, essendo il testimone, Giacomo mi ha chiesto di raggiungerlo prima, così da potergli dare una mano con i pochi preparativi lasciati in mano sua, ossia stronzate come i vestiti da cerimonia. Per fortuna dovrò anche organizzare il suo addio al celibato e questo non può che risollevarmi l'animo: chi meglio di me potrebbe occuparsene? A Louise verrebbero i capelli più bianchi del suo abito da sposa se sapesse cosa ho in mente... Ho comunque potuto accettare anche grazie al mio lavoro: essendo un artista, posso permettermi di lavorare ovunque io voglia. Gestisco una galleria d'arte con Philippe a Parigi, nel terzo arrondissement: sono entrato in società con lui da anni ormai e allestiamo periodicamente mostre dove promuoviamo, oltre ai miei scatti rubati durante gli innumerevoli viaggi che mi concedo in vari angoli del pianeta, opere di artisti promettenti alla ricerca di qualcuno che creda in loro. In mia assenza, ha garantito che si occuperà lui di ogni cosa e io potrò, dopo quelli che sembrano secoli, approfittare di un po' di svago, di riposo e, perché no, verificare se le ragazze del posto sono ancora così lascive come le ricordo io. «Mi dai il tuo numero di telefono, bel maschione?» L'amica del chirurgo plastico richiama la mia attenzione. Mi chiedo come non abbia ancora sospettato che di lei non me ne freghi nulla, che non ricordi niente della notte appena trascorsa se non i suoi lavori di bocca e che non sia in alcun modo interessato a incontrarla di nuovo: eppure a me sembra chiaro! «Scusami tanto, baga... maledizione, volevo dire, Natasha, ma sono davvero in ritardo, devo prendere un volo!» «Oh, che coin...» non la lascio finire di parlare, non ho tempo di ascoltare ancora la sua vocina irritante. Scattante, mi avvio alla porta e, portando i miei occhi nei suoi, scioccati da questa mia repentina fuga, mi affretto a dirle: «Ci si becca in giro.» Speriamo di no! Questo però lo tengo per me, non vorrei mi rincorresse infuriata, magari scagliandomi contro quelle orrende bambole di porcellana che ho notato di sfuggita in vetrina. Scendo le scale a due a due, evitando l'ascensore, che potrebbe tardare quel tanto da consentire a quei due salvagenti di inveirmi contro, arrivando in strada per fermare un taxi. Il tassista mi lancia un'occhiata perplessa visti i miei piedi scalzi, alla quale rispondo con un sorriso sarcastico, avvertendolo che, se mai avesse voglia di farsi un giro in una bocca vorace, bazzicando da queste parti, troverebbe senza alcuna ombra di dubbio quello di cui ha bisogno. Dopo una breve attesa sotto il mio palazzo, lo raggiungo di nuovo, questa volta con un paio di scarpe ai piedi, valigia alla mano e cuore leggero. Lo esorto a partire e penso a quanta felicità mi arrechi questo viaggio. «Mi porti in aeroporto, per favore.» Senza una parola ingrana la marcia, dando gas sul pedale. Sono pronto a prendere il volo, quello che mi riporterà nella mia terra natia.

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