~19~ Signum Hederae

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Era sembrata una buona idea, fuggire, prima di rendermi conto che non avessi alcuna idea di dove mi trovassi. Le gambe mi avevano semplicemente guidata lontano, una conchiglia svuotata e trascinata dalla corrente impetuosa del mio incedere sconvolto.

La Corte dei Fiori di Vetro era un bel luogo dove smarrirsi; un giardino fosco come il ventre stesso della terra, un Eden nero celato per nasconderne le oscure perversioni agli occhi dei mortali.

Era una versione selvaggia e degenerata delle colture idroponiche dei Rifugi, dove le piante venivano fatte crescere ordinatamente in piccoli cilindri di luce dai substrati chimici, in modo che potessero fornire nutrimento alla comunità.

Nei Rifugi umani non c'era più posto per piante che fiorivano e che non avevano altra funzione se non essere meraviglie sulla terra; avevamo ceduto la bellezza ai vampiri, perché per noi era diventata un lusso che non potevamo più permetterci neanche di sognare.

Nella Corte invece non c'era palmo di terra che non fosse ricoperto da fiori colorati, o centimetro sulle pareti che non fosse rivestito d'infinite tonalità di verde, dove corolle geometriche si piegavano verso il basso, sospinte dal loro stesso peso.

Una bellezza così fragile, tale da suscitare compassione in chi aveva fatto della crudeltà il proprio stendardo; il modo contorto con cui i vampiri avevano saputo proteggerla, facendola diventare una prigione.

Mi accasciai stremata contro un muro ricoperto di caprifoglio e gelsomino profumato, costringendo i miei polmoni a saturarsi d'aria, mentre le dita affondavano tra le fronde in cerca di sostegno.
Dentro il petto, il mio cuore sanguinava.

Non avevo compreso fino a che punto si fosse spinta la mia follia finché non mi ero ritrovata sull'orlo dell'abisso e vi avevo guardato dentro, divorata da una gelosia feroce e immotivata.

Sapevo che Gareth dovesse nutrirsi per sopravvivere e che da qualche parte a Londra ci fosse una donna che lo attendeva ogni notte: un Artificio di cui si potesse fidare, una Comunione del Sangue che non avesse motivo di temere.
Lo sapevo.
Perché allora il mio sciocco cuore aveva preso a battere in quel modo irruento e doloroso?

Era per il suo sangue.
Doveva essere a causa del suo sangue, che aveva contaminato le mie vene e attecchito nelle cellule come veleno, corrodendo dall'interno la mia razionalità.

Facendomi desiderare il bacio di quelle lame candide, pagando il prezzo di un dolore dolcissimo.

«Ero certo di non sbagliarmi.»

Era così ingiusto il modo in cui quella voce faceva sobbalzare la mia anima, la sua capacità di estrarre con tenerezza spine avvelenate che lui stesso, senza saperlo, mi aveva conficcato nella carne.

La mano bianca sulla mia spalla era apparsa dal nulla; si schiudeva da un polsino candido e sbottonato, un'indolenza e una noncuranza che non avevano nulla a che vedere con la morsa ferrea con cui mi tratteneva.
Mi costrinse a voltarmi con una torsione del polso nervoso, obbligandomi a sostenere il suo sguardo di granato e sospingendomi contro il muro ricoperto di vegetazione, spandendo nell'aria l'aroma intenso dei gelsomini.
La sorpresa che gli leggevo nei lineamenti era gemella della mia, lo sconcerto sospeso tra le dita della mano e la mia pelle.

«Mi sono detto che non poteva essere» mormorò quasi a se stesso, guardandomi come se fossi uno spettro, «che fosse stata la mia mente a immaginare l'odore del tuo sangue, prendendosi gioco della mia fame.»

Lo fissai, frastornata.
Portava una camicia bianca parzialmente sbottonata, indossata in fretta; un colletto gualcito che restituiva l'esatta misura della violenza con la quale era stato slacciato, il petto pallido a sollevarsi piano tendendo la stoffa.

Dies SanguinisTempat cerita menjadi hidup. Temukan sekarang