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Attraverso i muri arriva il boato attutito della conversazione, poi un coro di risate. Poi un altro boato. La maggior parte delle risate preregistrate che si sentono in TV risalgono all'inizio degli anni Cinquanta. Oggi buona parte della gente che sentite ridere è morta.
Dal soffitto cala il tump tump tump di una batteria. Il ritmo cambia. A volte i colpi sono più vicini, accelerano, oppure si dilatano, rallentano.
Fermarsi, non si fermano mai.
Dal pavimento sale la voce di qualcuno che abbaia le parole di una canzone. Questa gente che ha bisogno di tenere accesa la televisione o la radio sempre e comunque. Questa gente terrorizzata dal silenzio. Eccoli, sono i miei vicini. Questi suonodipendenti. Questi silenziofobi.
Risate di gente morta che filtrano da tutte le pareti.
Oggigiorno, ecco cosa ti spacciano come casa dolce casa. Questo assedio di rumore. Tornando dal lavoro mi sono fermato in un posto. Quando sono entrato nel negozio zoppicando, il tipo alla cassa ha alzato la testa. Senza smettere di fissarmi ha infilato una mano sotto il banco e ha tirato fuori un affare avvolto nella carta marrone, dicendo: «Imballo doppio. Vedrà che questo le piace». L'ha appoggiato sul banco e gli ha dato un colpetto affettuoso.
Il pacchetto è grosso metà di una scatola da scarpe. Pesa meno di una scatoletta di tonno.
Il tipo ha battuto uno, due, tre tasti, e sul display del registratore di cassa è apparsa la scritta centoquarantanove dollari. «Per farla stare tranquillo l'ho avvolto tutto nello scotch, strettissimo» ha detto.
Ha infilato il pacchetto in un sacchetto di plastica, casomai si fosse messo a piovere, e poi ha detto: «Se manca qualcosa me lo faccia sapere». Ha detto: «A vederla direi che il piede non è ancora guarito».
Per tutto il tragitto verso casa, il contenuto del pacchetto ha sbatacchiato rumorosamente. Sotto il mio braccio, la carta marrone scivolava e si increspava. A ogni mio zoppicante passo, quello che c'era dentro andava a sbattere da una parte e dall'altra della scatola.
A casa, dal soffitto scendono i colpi di una musica veloce. Voci terrorizzate attraversano le pareti. I casi sono due: o un'antica mummia egizia ha ripreso vita per una qualche maledizione e sta facendo fuori quelli della porta accanto, oppure stanno guardando un film.
Sotto il pavimento gente che grida, un cane che abbaia, porte che sbattono, l'attacco di una canzone: «1,2,3...».
In bagno, spengo le luci. Così non vedo quello che c'è nel pacchetto. Così non so come dovrebbe essere il risultato finale. In quel buio angusto e compatto, infilo un asciugamano nella fessura sotto la porta. Col pacchetto in grembo, mi siedo sulla tazza e resto in ascolto.
Ecco cosa ti spacciano per civiltà.
Gente che non butterebbe una sola cartaccia dal finestrino della macchina e poi ti passa accanto con l'autoradio a palla. Gente che al ristorante non si sognerebbe mai di appestarti col fumo del suo sigaro e poi sbraita nel cellulare. Che grida anche quando la distanza che la separa dall'interlocutore è quella di un piatto da portata.
Questa gente che non si sognerebbe mai di usare pesticidi o insetticidi e poi infesta il quartiere con lo stereo sparando dischi di cornamuse scozzesi.
Di lirica cinese. Di musica country e western.
Fuori, un uccellino che canta ci sta bene. Patsy Kline no.
Fuori c'è già il frastuono del traffico, che basta e avanza. Aggiungerci il concerto per piano in mi minore di Chopin non migliora la situazione.
Tu accendi la musica per coprire il rumore. Altri alzano la loro musica per coprire la tua. Allora tu alzi la tua ancor di più. Tutti quanti si comprano uno stereo più potente. È la corsa agli armamenti del suono. E non è con le frequenze alte che vinci. Non conta la qualità. Conta il volume. Non conta la musica. Conta vincere.
Per sbaragliare i concorrenti ti ci vogliono i bassi. Le finestre devono tremare. Nascondi la linea melodica con l'equalizzatore e ti metti a sbraitare le parole della canzone. Ci infili dentro delle volgarità e sottolinei bene ogni singola parolaccia.
E così vinci. Perché alla fin fine è una faccenda di potere.
Nel bagno buio, seduto sulla tazza, con le unghie taglio lo scotch alle estremità del pacchetto, e dentro c'è una scatola di cartone quadrata, liscia, morbida e con i bordi imbottiti, gli spigoli smussati e accartocciati. Sfilo il coperchio e dentro sfioro vari strati di forme complesse e acuminate, piccoli spigoli, curve, angoli e punte. Li prendo e li appoggio da una parte sul pavimento del bagno, sempre al buio. Rimetto la scatola di cartone nei sacchetti di carta. In mezzo alle forme dure e intricate ci sono due fogli di carta plastificata. Rimetto nei sacchetti anche quelli. Poi prendo i sacchetti, li accartoccio e li comprimo in una palla.
Tutto questo lo faccio alla cieca, sfiorando la carta plastificata, tastando gli strati di forme dure, ramificate. La musica dei vicini fa tremare il pavimento sotto le mie scarpe, e persino l'asse del cesso.
Alle famiglie colpite da una morte in culla bisogna suggerire di trovarsi un hobby. È sorprendente quanto la gente fa in fretta a chiudere la porta sul passato. Alla fine un modo per lasciarsi alle spalle le cose brutte lo si trova sempre. Impari a ricamare. A costruire lampade di vetro colorato.
Porto le forme in cucina, e alla luce sono azzurre, grigie, bianche. Di
plastica, fragili. Frammenti minuscoli. Tegole, persiane e travi, tutto piccolissimo. Ora come ora è impossibile dire se sarà una casa o un ospedale. Ci sono mattoncini e porticine. Visti così, sparpagliati sul tavolo, potrebbero essere i pezzi di una scuola, o di una chiesa. Senza guardare la foto sulla
scatola né le istruzioni, le piccole grondaie e gli abbaini potrebbero essere tanto quelli di una stazione ferroviaria quanto quelli di un manicomio. Di una fabbrica o di un carcere.
Puoi montarli come ti pare, tanto alla fine non saprai ma se hai fatto giusto.
Ogni volta che dal pavimento sale un'onda di rumore i pezzetti, le cupole e i camini, vibrano.
Questi musicodipendenti. Questi quietofobi.
Nessuno è disposto ad ammettere che abbiamo sviluppato una dipendenza dalla musica. Impossibile. Nessuno sviluppa una dipendenza dalla musica e dalla tv e dalla radio. È solo che ne vogliamo sempre un po' di più. Più canali, uno schermo più grande, il volume più alto. Non possiamo farne a meno, ma per carità: dipendente io? Potremmo smettere in qualunque momento. Infilo la cornice di una finestrella in un muro di mattoncini. Con un pennellino grosso come quello dello smalto, la incollo. La finestra è grande
quanto un'unghia. La colla odora di lacca. Sa di arance e benzina.
I solchi sui mattoncini che compongono il muro sono sottili come impronte digitali.
Incastro un'altra finestrella, e ci metto altra colla. Vibrando, il suono si fa strada attraverso i muri, attraverso il tavolo, attraverso la cornice della finestrella e raggiunge il mio dito. Questi svagodipendenti. Questi concentrazionofobi.
Il vecchio George Orwell aveva capito tutto, ma al rovescio. Il Grande Fratello non ci osserva. Il Grande Fratello canta e balla. Tira fuori conigli dal cappello. Il Grande Fratello si dà da fare per tenere viva la
tua attenzione in ogni singolo istante di veglia. Fa in modo che tu possa sempre distrarti. Che sia completamente assorbito. Fa in modo che la tua immaginazione avvizzisca. Finché non diventa utile quanto la tua appendice. Fa in modo di colmare la tua attenzione sempre e comunque.
Questo significa lasciarsi imboccare, ed è peggio che lasciarsi spiare.
Nessuno deve più preoccuparsi di sapere che cosa gli passa per la testa, visto che a riempirtela in continuazione ci pensa già il mondo. Se tutti quanti ci ritroviamo con l'immaginazione atrofizzata, nessuno costituirà mai una minaccia per il mondo.
Con un dito mi slaccio un bottone della camicia bianca e ci infilo dentro la cravatta. Tenendo il mento puntato contro il nodo della cravatta, con le pinzette infilo un minuscolo pannello di vetro in ogni finestrella. Con una lametta di rasoio ritaglio tendine di plastica più piccole di un francobollo, azzurre per il piano di sopra, gialle per il pianterreno. Le incollo, alcune
aperte, altre chiuse.
Nella vita c'è di peggio che trovare tua moglie e tua figlia morti.
Per esempio vedere il mondo che li uccide. Tua moglie che invecchia e si stanca di te. I tuoi figli che fanno la conoscenza di tutto ciò da cui hai cercato di proteggerli. Droghe, divorzio, conformismo, malattie. Tutti quei
bei libri, la musica, la televisione. Gli svaghi.
Alla gente che perde un figlio viene da dire: bravi, date la colpa a voi stessi.
Uccidere una persona a cui si vuole bene non è la cosa peggiore che le si può fare. Il più delle volte preferiamo aspettare che sia il mondo a farlo. E intanto leggiamo il giornale.
La musica e le risate ti divorano i pensieri. Il rumore li cancella. Qualsiasi suono è una distrazione. La colla ti fa venire il mal di testa.
Oggigiorno, nessuno è più padrone della sua mente. Non puoi concentrarti. Non puoi pensare. C'è sempre qualche rumore che si intromette.
Cantanti che strillano. Gente morta che ride. Attori che piangono. Emozioni in piccole dosi.
C'è sempre qualcuno che infesta l'aria col suo stato d'animo.
Con l'autoradio che impone il suo dolore, la sua gioia, la sua rabbia a tutto il quartiere.
Una volta ho montato le cinquantasei finestrelle di una villa in stile coloniale olandese al contrario, e ho dovuto buttarla via. Mi è capitato di attaccare le grondaie di un castello Tudor da dodici stanze sotto il timpano sbagliato, e di fondere il tutto cercando di staccarle con un solvente chimico.
Comunque sia, non è una novità. Gli esperti che studiano l'antica Grecia dicono che all'epoca la gente non si considerava padrona dei propri pensieri. Quando gli antichi greci formulavano un pensiero, era perché una divinità aveva deciso di dargli un ordine. Apollo gli diceva di essere coraggiosi. Atena di innamorarsi.
Oggi la gente vede la pubblicità delle patatine al formaggio e si fionda fuori a comprarle, però lo chiama libero arbitrio.
Almeno gli antichi greci erano più onesti.
La verità è che, anche se una sera decidi di leggere qualcosa a tua moglie e tua figlia. Una ninna nanna, mettiamo. E il giorno dopo tu ti svegli e loro no. Te ne stai lì, a letto, rannicchiato contro tua moglie. Lei è ancora calda, però non respira. E tua figlia non piange. E la casa è già invasa dal rumore del traffico e della radio e del vapore che pulsa nei tubi del riscaldamento dentro i muri. La verità è che per il tempo necessario a farsi un nodo perfetto alla cravatta puoi dimenticare anche un giorno come quello.
Questo io lo so. Perché questa è la mia vita.
Puoi cambiare casa, ma non basta. Ti inventi un hobby. Ti butti sul lavoro. Cambi nome. Ti metti a montare delle cose. Crei l'ordine dal caos. Lo fai ogni volta che il piede ti fa un po' meno male e hai abbastanza soldi.
Organizzi tutto nei minimi dettagli.
Non è esattamente quello che ti consiglierebbe di fare un'analista, però
funziona.
Poi incolli le porticine alle pareti. Incolli le pareti alle fondamenta. Armato di pinzetta, assembli i pezzi minuscoli che compongono i vari camini, e mentre aspetti che la colla si asciughi costruisci il tetto. Monti le grondaie. Ogni dettaglio nel posto giusto. Sistemi gli abbaini. Attacchi le
persiane. Monti la veranda. Semini l'erba. Pianti gli alberi.
Inali l'odore di arance e benzina. L'odore di lacca. Ti perdi nei dettagli infinitesimali. Come incollare un filo d'edera su per il fianco di un camino.
Con le dita saldate da una membrana di fili di colla, i polpastrelli incrostati
che si appiccicano tra loro.
Ti convinci che è il rumore a definire il silenzio. Senza il rumore, il silenzio non sarebbe d'oro. Il rumore è l'eccezione. Pensi allo spazio profondo, il luogo incredibilmente freddo e silenzioso dove tua moglie e tua figlia ti aspettano. Il silenzio sì che sarebbe una bella ricompensa, altro che il paradiso.
Con le pinzette pianti i fiori tutt'intorno al perimetro della casa.
Pieghi il collo e la schiena sul tavolo. Tieni le chiappe strette, la spina dorsale inarcata verso un mal di testa alla base del cranio.
Incolli il minuscolo zerbino con la scritta "Benvenuti" davanti alla porta d'ingresso. Appendi le lampade in miniatura all'interno. Incolli la buca delle lettere accanto alla porta. Incolli le bottigliette di latte piccolissime, davvero piccolissime, sul pavimento della veranda. Il minuscolo giornale ripiegato.
Quando tutto è al suo posto, impeccabile, perfetto in ogni dettaglio, saranno più o meno le tre o le quattro del mattino, lo capisci dal silenzio, fitalmente. Il pavimento, il soffitto, le pareti, tutto tace. Il compressore del frigorifero si spegne, e riesci a sentire il ronzio dei filamenti nelle lampadine. Il ticchettio dell'orologio. Una falena sbatte contro la finestra della cucina. Vedi persino il tuo fiato, tanto nella stanza fa freddo.
Infili le pile nell'apposito scompartimento, schiacci un minuscolo interruttore, e le finestrelle si illuminano. Appoggi la casa sul pavimento e spegni la luce in cucina.
Nel buio, ti posizioni in piedi davanti alla casa. Da questa distanza sembra perfetta. Perfetta e sicura e felice. Una bella casetta di mattoni. La luce delle finestrelle illumina il prato e gli alberi. Dalle tendine nella stanza dei
bambini si emana una luce gialla. Da quelle del bagno, azzurra.
Il modo più rapido per chiudere una porta sul passato è seppellirsi nei dettagli.
Probabilmente è così che ci vede Dio.
Come se tutto fosse perfetto.
A questo punto togliti una scarpa e, con il piede nudo, pestala. Più e più volte. E anche se ti fa male, con tutte quelle schegge minuscole di plastica e legno e vetro, tu continua a pestare. Pesta finché quello del piano di sotto non si mette a dare i pugni contro il soffitto.

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⏰ Last updated: Oct 29, 2016 ⏰

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Ninna NannaWhere stories live. Discover now