Parte 1: LA MIA NASCITA

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10 Dicembre 1964

Eccomi qua, sono nato, che bella la mia mamma!

Ma che cosa succede? Perché mi portano via da lei? Piango, piango, ma nessuno mi ascolta; tutte quelle persone vestite di bianco e di verde sono raccolte intorno alla mia stupenda mamma e sussurrano parole a me incomprensibili: dottore, emorragia, MORTE.

Proprio quest'ultimo termine, nonostante a quel tempo non ne conoscessi il significato, aveva suscitato in me un forte senso di smarrimento e di profonda solitudine come se una parte di me se ne fosse andata via per sempre.

Questa fu l'ultima volta che vidi mia madre, i suoi lunghi e soffici capelli biondi e i suoi grandi occhi azzurri.

Ho paura: dove sono? Ora tutta quella gente che prima era rivolta verso mia madre si era girata verso di me, mi toccavano di continuo e io non facevo altro che gridare più che potevo.

D'improvviso venni portato in un luogo in cui vi erano tanti neonati come me che dormivano in ovattate culle bianche. Ognuno di questi lettini aveva una targhetta con un nome tranne il mio. Io ero ancora un numero, il 10, forse si riferiva al giorno della mia nascita o chissà, poteva avere moltissimi significati.

Passarono cinque giorni tra pappe, nanne e pianti di gruppo. Tutti i bambini che avevo visto da quando ero arrivato non c'erano più, ma venivano continuamente rimpiazzati da altri appena nati. Solo io restavo in quel luogo a lungo.

Iniziai a chiedermi quale fosse la causa di tanta attesa.

Tutti gli altri infanti uscivano accompagnati dalla loro mamma e da un uomo, il papà, che io non avevo ancora mai incontrato.

Che fine aveva fatto il mio papà? Questa era la domanda principale che mi frullava per la testa, forse era solo in ritardo e presto sarebbe venuto a prendermi per portarmi via con lui. Con questo pensiero mi addormentai.

La mattina seguente venni svegliato da un gran fracasso simile ad un'oca che starnazzava all'impazzata. Una mano mi prese e io banalmente pensai:

«Ecco, questo è mio padre, finalmente è arrivato! Non mi ha abbandonato!»

Tutta questa eccitazione si spense subito dopo quando notai che quella mano che mi aveva preso con sé non era di un uomo, bensì di una donna.

La mano era piuttosto tozza, le dita erano piene di anelli tempestati di pietre preziose e le unghie avevano uno smalto molto acceso di colore rosso.

Quando mi sollevò, rimasi scioccato e scoppiai a piangere.

Il viso era spaventoso, ricoperto di lentiggini, le labbra carnose, il naso grosso simile ad una patata, gli occhi piccoli e neri come la pece, due folte sopracciglia ed una fronte spaziosa su cui poggiava una frangetta di capelli rossi che si dilungavano fino alle spalle in modo frastagliato e del tutto irregolare.

La donna cercò di calmarmi dondolandomi un po', ma con la forza e la grazia di un leone tanto che mi venne la nausea e rigurgitai.

«Perché fai così piccolo mio!» esordì «Calmati, sono tua zia Annabelle, sono venuta a prenderti dalla Francia per portarti con me visto quello che è successo alla buon'anima di tua madre, mia sorella Marlene! Io le avevo detto che sarebbe andata a finire male, non ha voluto ascoltarmi quando è scappata di casa con quel ragazzo di cui non ricordo neanche il nome. A proposito di nome... Come ti chiami scricciolino?»

La signora vestita di verde che si era presa cura di me in questi primi giorni di vita sussurrò:

«La madre non ce l'ha fatta, ci ha abbandonato prima di riuscire ad assegnargli un nome».

«Ecco, lo sapevo, neanche questo è riuscita a fare, che donna screanzata! Sta tranquillo, adesso ci penso io a te, fammi riflettere un attimo...»

«Ah, ecco, ti chiamerò Fabien».

A me però quel nome non piaceva e provai a farglielo capire mettendomi a piangere e ad urlare più forte che potevo, ma lei aggiunse rivolgendosi all'altra donna:

«Lo vede che gli piace! Guardi quanto si agita, è felice!»

Il mio pianto aveva avuto purtroppo l'effetto opposto di quello che avrei voluto e così mi venne conferito questo orribile nome.

Ad un tratto mia zia si girò verso un uomo vestito di nero e gli chiese se, prendendomi in affidamento, avrebbe potuto usufruire dei beni posseduti da mia madre.

L'uomo le rispose:

«Certamente, ma fino a quando il bambino non avrà raggiunto la maggiore età; da quel momento egli erediterà ogni cosa».

Io ovviamente non capii il significato della frase, però mia zia sembrò annuire e fece una smorfia simile ad un sogghigno malefico.

Nel frattempo erano arrivati in ospedale tanti altri miei parenti, zii, prozii, cugini della mamma, anche semplici amici e conoscenti.

Ognuno di loro voleva prendermi in custodia e così per tutto il giorno venni sbattuto di qua e di là come un vecchio straccio da tutte queste persone che, solo in seguito compresi, non erano realmente interessate a me, ma soltanto al lascito della mia povera, ma benestante madre.

Soltanto uno di loro era realmente interessato al mio benessere tanto che si offrì di adottarmi senza attingere dall'eredità di mia madre.

Il suo nome era Andrea, aveva circa la stessa età di mia madre e affermava di essere il suo migliore amico. Egli era un giovane ragazzo italiano e sicuramente l'unico che si sarebbe preso cura di me nel migliore dei modi, tuttavia non avendo un legame di sangue con Marlene, venne immediatamente messo da parte.

Alla fine, dopo varie dispute e scontri verbali molto duri, io come un oggetto di un negozio venni venduto al miglior offerente, ovvero alla persona più prossima a mia madre: mia zia Annabelle.

Per me fu un vero e proprio shock, mentre lei esultava soddisfatta, io privo di voce in capitolo scoppiai in un pianto ossessivo e disperato che come era successo precedentemente non venne minimamente preso in considerazione.

Così firmate alcune carte, mia zia mi prese in braccio e disse:

«Vedrai che ci divertiremo insieme».

Subito dopo mi lasciò nella culla e se ne andò.

Io, ancora scosso e stremato, mi addormentai in un sonno profondo.

La mattina seguente mi svegliò un fischio assordante che non avevo mai sentito prima. Quando aprii gli occhi, vidi una grande folla intorno a me e di fronte un grande mostro di ferro che tutti chiamavano treno.

Annabelle allora si voltò verso di me e mi disse qualcosa che io non riuscii a comprendere a pieno a causa del grande frastuono. L'unica parola che percepii fu Francia.


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