A. A. 4 Ottobre, h 15:02

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Si voltò di nuovo verso Rooney, il quale, alle sue spalle la fissò con aria pensierosa.
"Lei rimarrà qui?" domandò, colta da un senso di smarrimento.
"Non si preoccupi, al minimo allarme faremo irruzione." le rispose, comprendendo il suo stato d'animo.
Harleen si voltò a sguardo basso e sussurrò a se stessa delle frasi di incoraggiamento, che non ebbero l'effetto sperato. Era un fascio di nervi.
"Forza, Harleen. Non sarà un pagliaccio a spaventarti così." sibilò, puntando gli occhi sulla finestrella quadrata della porta, chiusa da una lastra scorrevole di acciaio. Rooney liberò il chiavistello e tirò la lastra di lato, facendola scorrere come qualche giorno prima, quando la signorina Quinzel aveva insistito tanto per vedere coi suoi occhi il prigioniero che aveva la fama del più temibile, all'interno di quel manicomio criminale.
Questa porta era diversa, cigolava e riportava sotto la finestrella la parola "Psichiatria".
Non era una cella.
Con una serie di mandate di cui Harleen perse il conto, la serratura scattò e la porta, cigolando sinistramente, si aprì.
Harleen entrò, gettando un'ultima occhiata a Rooney che torreggiava sul ciglio della porta come una normalissima guardia. Le riuscì difficile sentirsi protetta da quell'individuo così insignificante e pensò che se fosse accaduto qualcosa, con grandi probabilità se la sarebbe data a gambe. Del resto, la paura che aveva letto nel suo sguardo quando si erano avvicinati alla cella d'isolamento numero 8, le risultò molto esplicita.
"Devo chiudere la porta, signorina. Resterò comunque qui fuori e se me lo permette, potrei assistere alla seduta osservando dalla finestrella." balbettò, risultando davvero ridicolo agli occhi della dottoressa.
"Non è necessario." rispose Harleen, voltandogli le spalle. "Farò da sola." aggiunse, parlando più a se stessa che al tenente.
La porta si richiuse con un tonfo sordo, facendola sussultare e una penna le cadde accidentalmente sul pavimento in cemento armato.
La raccolse e si guardò attorno, imponendosi di respirare. Era una stanza spaziosa, illuminata come le altre da una finestrella sbarrata che dava sul cortile esterno, recintato e controllato da agenti armati. La luce che penetrava era lattiginosa, tendente all'azzurro, e illuminava l'aria polverosa che aleggiava sull'unico arredamento della stanza: un tavolo di ferro corredato di due sedie, anch'esse di ferro, ognuna rispettivamente ai due capi estremi del tavolo.
Harleen prese posto su una delle due sedie e si sistemò i capelli, mentre un senso di vertigini le svuotò la mente. Sentiva le orecchie fischiare e le mani le sudavano copiosamente.
Nel giro di pochi minuti, alle quindici e tredici precise, la porta sul fondo della stanza si aprì.
Harleen rimase seduta e guardò concentrata le tre figure che rimanevano nell'ombra dietro la porta.
Uno dei due, forse il più coraggioso, prese il prigioniero per il braccio e lo strattonò facendolo avanzare oltre la soglia della porta.
Harleen si accorse che aveva smesso di respirare. Il cuore le batteva furioso nel petto e le mani le tremavano, ma non riusciva a distogliere lo sguardo da lui.
Il Joker, finalmente, alzò lo sguardo, dirigendo i suoi occhi con aria indifferente all'ambiente circostante.
"Che noia questi posti, sono tutti uguali." esclamò, facendo risuonare la stanza della sua voce profonda e allo stesso tempo vibrante. Harleen si sentì attraversare dalla sua voce dalla schiena fino ai piedi, ma cercò di rimanere impassibile.
I due agenti armati le fecero un cenno e richiusero la porta, lasciando che la dottoressa rimanesse sola con il suo nuovo paziente.
In un primo momento regnò il silenzio. Harleen voleva porsi al livello del suo paziente per instaurare un dialogo aperto, sincero; quindi attese pazientemente che Joker prendesse posto di fronte a lei.
Passarono interminabili minuti, durante i quali Joker, fingendo un completo disinteresse nei confronti di Harleen, camminò in lungo e in largo, scuotendo di tanto in tanto il capo e sogghignando.
Sapeva che Harleen aveva paura. Sentiva l'odore pungente del suo terrore.
Non ebbe compassione per lei quando decise di sedersi; niente affatto. Si era portato dietro di lei per studiarla senza che lei lo vedesse, poi, con tutta tranquillità, si diresse verso la sedia e sorrise, cercando lo sguardo di lei.
"Potresti?" domandò, indicando la sedia, completamente infilata sotto il tavolo.
Harleen si sentì una completa idiota. Non aveva a che fare con un animale da circo. Era pur sempre una persona con capacità intellettive, eppure lei non aveva pensato che, costretto com'era nella camicia di forza, non avrebbe potuto tirare indietro la sedia e prendere posto, senza aiuto.
Quindi si alzò prontamente e si avvicinò alla sedia, dapprima velocemente, poi, vedendo che Joker rimaneva fermo di fianco al tavolo, indugiò.
"Oh. Giusto." sogghignò Joker, arretrando di qualche passo per consentirle di mantenere le distanze.
Harleen tirò indietro la sedia di ferro arrugginito e indietreggiò.
Joker, si sedette e le sorrise, mostrando una fila di denti argentei. Cosa diamine ha in bocca? Placche di acciaio?
Non vi badò molto e prese a sedere anche lei, di fronte a lui.
Lo guardò con aria risoluta e professionale, ma lui, in tutta risposta, sorrise ancora in quel modo malato e la dottoressa si sentì raggelare il sangue.
"È il gioco del silenzio?" proruppe ancora Joker, ridacchiando. "Ci giocavo anche io prima di venire qui. Solo che chi parlava..." disse, abbassando il tono di voce in un sussurro sorprendentemente mellifluo "...moriva." concluse la frase e scoppiò in una risata fragorosa e cupa al tempo stesso.
Harleen lo squadrò con aria gelida e lui smise immediatamente di ridere. Finse di ricomporsi e rimase in silenzio.
"Sono la sua psichiatra, signor..." esitò qualche secondo, poi decise di improvvisare, rilevando dal fascicolo che il suo paziente non aveva altri nominativi oltre a Joker. "...signor J."
"Signor J?" ripeté lui, ridendo ancora.
"Preferisce altro?" lo zittì lei, per la seconda volta.
Joker serrò le labbra e si guardò attorno, chinando il capo a sinistra e poi a destra, poi ancora a sinistra. Infine sorrise e la guardò. "Ci sono. Mr. J." proferì infine. "Sì, mi piace di più."
Harleen annuì e continuò a leggere i dati sul fascicolo che credeva di aver imparato a memoria fino a pochi istanti prima.
"E a lei?" chiese Joker. "Le piace? domandò, vedendo che non aveva capito la domanda.
"Molto." rispose, senza troppa enfasi e continuò a leggere.
Ci furono brevi istanti di silenzio, poi Joker decise di parlare ancora.
"Posso sapere cosa legge?" chiese, sporgendosi in avanti col busto.
Harleen lo guardò da sopra gli occhiali, interrompendo ancora la lettura. Sorrise, ovviamente in maniera forzata.
"Ma che bel sorriso!" esclamò lui.
"Leggo il suo profilo." lo incalzò, smorzando la sua enfasi.
"Niente di buono, immagino." rispose lui, fingendosi interessato.
"Signor...Mr. J, non ha una bella fama qui a Gotham, lo sapeva?" domandò Harleen togliendosi gli occhiali.
"E lei non deve essere di qua, se me lo chiede." rispose prontamente.
"Infatti." disse lei. "Sono di..."
"New York." disse lui, interrompendola. Poi rise di gusto vedendo l'espressione sgomenta sul volto della dottoressa. "Mi piacciono le newyorkesi. Sono le più matte."
Harleen prese un appunto veloce e lo fissò con aria curiosa: un apprezzamento sulle donne. Ottimo.
Joker si ricompose subito e divenne d'un tratto serio, lucido.
"Avanti. Cosa vuole sapere?" chiese, con una voce finalmente normale, senza inflessioni o risolini.
"Tutto." rispose Harleen, senza scomporsi.
I due si guardarono a fondo negli occhi, quasi con aria di sfida, ma ebbe la meglio Joker pochi istanti dopo, quando Harleen riabbassò lo sguardo con aria frastornata.
Mai guardarlo a lungo negli occhi. Scrisse l'appunto e si schiarì la voce.
"Intendo dire, tutto quello che vuole confidarmi." sentiva la bocca asciutta e la gola riarsa.
"Tutto. È una bella parola. Ma non sarebbe giusto." disse Joker, chinando il capo di lato.
"Perché? Cosa c'è che le da fastidio nella parola tutto?" domandò, incuriosita.
"Il fatto che lei non mi ha neanche detto il suo nome." rispose, guardandola col capo reclinato.
"Questo è vero." sorrise lei, e questa volta in maniera sincera. "Il mio nome è Harleen Fances Quinzel." rispose.
Joker sorrise e si lasciò andare contro lo schienale della sedia.
"E cosa la porta da me?" domandò Joker, scrutandola a fondo come un serpente. I suoi movimenti erano lenti e ondeggianti e quando lei ricambiava il suo sguardo, lui cercava sempre di sorriderle, il più delle volte senza sforzarsi troppo.
"Sono la sua psichiatra, gliel'ho detto." rispose lei.
"Hmm. Ognuno di noi vuole qualcosa." disse Joker. "Lei cosa vuole? Se è qui, un motivo ci sarà." aggiunse. "Non credo nelle sedute per aiutarmi a tornare normale né agli studi sulla mia mente." disse, alzando gli occhi al soffitto.
"Cosa voglio?" domandò lei.
"...da me?" aggiunse Joker, con un ghigno malizioso.
Harleen si riscosse e abbassò la mano che istintivamente si era portata alle labbra. "Voglio solo capire che cosa prova." affermò, tenendo lo sguardo basso.
NON GUARDARLO NEGLI OCCHI. Scrisse ancora, sottolineando la frase.
"Non crede che sia affrettato? Ci diamo ancora del lei." Harleen non capiva fino a che punto fosse serio e fino a che punto scherzasse.
"D'accordo, Mr. J." lo assecondò in quel gioco e sorrise. "Cosa provi?"
"Quando?" domandò Joker subito dopo.
"Beh, quando uccidi, ad esempio."
Joker rimase immobile.
"Tristezza." rispose.
Harleen appuntò la risposta. "Che genere di tristezza?"
Lui sbatté gli occhi e scosse il capo. "Beh, mi dispiace per la persona che ammazzo." rispose.
Harleen lo fissò a lungo e socchiuse gli occhi. "Crede che io sia stupida, Mr. J?"
Joker scoppiò a ridere, gettando la testa all'indietro e Harleen cancellò le ultime annotazioni con aria seccata.
Sarà più difficile di quanto immagino. Pensò con aria sconcertata.
"Fa caldo qua dentro. Mi aiuta a togliere la giacca?" continuò Joker, muovendosi dentro la camicia di forza. "Mi sta un po' strettina."
Harleen si alzò e ondeggiò coi fianchi camminando fino a lui.
Joker la guardò senza capire e rimase in attesa. Lei si piegò in avanti, pur mantenendo una certa distanza e gli parlò in maniera franca. "Sono qui per aiutarti ad alleggerire la tua mente, Joker. Se vorrai collaborare, ne sarò lieta, altrimenti potrai rimanere seduto nella tua cella a vita." disse con aria addolcita e sensuale.
Joker serrò le labbra e sbarrò gli occhi. "Come si chiamava l'uomo che ti picchiava?" domandò.
Harleen si tirò immediatamente su e lo fissò ancora più sconcertata.
"Era il tuo amante, immagino." affermò, annuendo e poi scosse il capo.
Harleen si strinse la camicetta sul petto e trasalì. "Come..."
"Faccio a saperlo?" concluse lui. "Lo so e basta."
Harleen andò a prendere la cartella e i fogli e si rimise gli occhiali, poi diede una voce alle guardie che iniziarono ad armeggiare con la porta alle spalle del Joker.
Lui si alzò, quasi rassegnato e si diresse alla porta, dandole le spalle.
"Harley." la chiamò, voltandosi.
Lei lo guardò a tratti, sentendosi improvvisamente vulnerabile.
"Non è colpa tua. Non puoi salvare noi per giustificare lui." pronunciò quelle parole con una serietà in netto contrasto con il suo aspetto e la sua persona.
"Noi chi?" sussurrò, ma il Joker era già nelle mani delle guardie che lo avrebbero riportato in cella.
Si rimise a sedere e fissò a lungo la sedia vuota di fronte a sé, dove fino a poco prima si era seduto uno dei criminali più sadici e psicopatici di Gotham.
Osservò il suo foglio con gli appunti e constatò che non sarebbe arrivata a nulla se le cose fossero andate di quel passo. Sapeva più cose lui di lei, a conti fatti.
Raccolse tutto con un moto di stizza e si diresse alla porta. La oltrepassò e uscì in fretta e furia da quell'edificio, senza fermarsi un secondo.

Mentre metteva in moto la vettura sorrise e scosse il capo.
"Harley..." disse ridendo e si diresse verso casa.

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