C: "Calavera"

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Seduto su una panchina del marciapiede che recintava il lato est del parco, all'ombra di un grande albero in un giorno carico di ombre, l'uomo passò un dito sulla nuca di Mikey. «E così, uno per uno li decapitò tutti» disse. «Gli altri erano ancora vivi quando iniziò col primo. Quel giorno, Guerrero aveva smarrito la via della verità. Bisogna siempre onorare la verità, Sancho.»
Mikey rabbrividì. Smise per un istante di lucidare. Si chiese come mai gli stava raccontando quella favola dell'orrore, e perché lo chiamasse a quel modo.
«Sulla punta» sussurrò l'uomo.
Mikey alzò la testa e afferrò un bagliore. Tra la giacca e la camicia del signore. Il luccichio nero e perentorio di una grossa arma da fuoco. Il tizio non guardava lui, teneva d'occhio l'altro lato della strada. Spawnie's, il negozio di animali. Chiuse meglio la giacca, si rivolse a Mikey e disse: «Da una Grande Mela, Sancho, ci si può aspettare solo un gigantesco verme». Agile come un cobra, si piegò in avanti e gli strappò di mano lo strofinaccio. Iniziò a passarlo sulla punta dello stivale. Terminata quell'operazione, usò lo straccio per detergersi la fronte. «Como lo chiamate, voi, un pasatiempo
Mikey, ancora frastornato, rispose: «Non conosco quella parola, signore».
Il tizio studiò lo straccio, come se la risposta potesse trovarsi al suo interno. «Hobby» disse alla fine. «Guerrero aveva un hobby.» Riappoggiò delicatamente il luridume tra le mani di Mikey. «Lo rilassava, il suo hobby. Lo aiutava a non pensare. Un orto, un piccolo fazzoletto verde nel cuore polveroso del desierto.» Aggiunse, in tono accusatorio: «In questi balconi non riesci a coltivare una mierda. Mi capisci, Sancho? Entiendes?»
Mikey non conosceva il significato di mierda, ma non augurava nulla di buono.
L'uomo controllò l'orologio, poi infilò una mano nel taschino. Tirò fuori una piccola penna d'oro e d'argento, di quelle a scatto. Si mise a premerla ripetutamente. Click, click, click, faceva la sua penna. Tornò con gli occhi su Spawnie's.
Mikey sentì se stesso dire: «Mikey».
Vi fu un solo, ultimo click.
«Che hai detto» gli chiese l'uomo.
«È il mio nome» disse Mikey. «Prima ha parlato di sincerità, così...»
Gli occhi del tizio erano color del ghiaccio, un sottile strato d'acqua ne attraversava la superficie. La sua pelle era giallognola, aveva un che di sabbioso. Non era brutto, era soltanto molto magro. Che diavolo, era spaventosamente magro. Mikey si pose questa domanda assurda: si chiese se a sua madre sarebbe mai potuto piacere, un uomo così.
«Verità» lo corresse quello, allungandosi sul suo trono.
Mikey strinse più forte lo strofinaccio.
«Sabes la diferencia entre verdad y sinceridad? Conosci la differenza?»
«Non parlo spagnolo, signore.»
Il tizio annuì. Riprese ad armeggiare con la sua penna. «Da dove provengo», disse, «devi conoscerla molto presto. E devi scegliere. Verità. Inganno. E ogni scelta ha le sue conseguenze.»
«E io scommetto che sei messicano» disse una voce alle loro spalle.
Era Eddie, il ragazzo dei giornali. Eddie passava di lì tutti i santi giorni.
L'uomo non si voltò nemmeno. Il suo cervello, credette Mikey, doveva aver già catalogato Eddie come privo di interesse. Una pedina inutile sulla scacchiera di quel mattino.
La strada stava riempiendosi di taxi gialli. C'era odore di traffico, e degli sbuffi umidi e ferrosi che uscivano dall'imbocco della metropolitana.
Eddie lanciò a terra la pila dei giornali. «Sembra estate» disse.
Click. Click. Click.
Il ticchettio lo distrasse, Eddie si girò di nuovo verso il tizio. «Certo che sei messicano» rispose per lui. «Lo si vede lontano un miglio.»
Mikey voleva gridargli che l'uomo era armato.
Eddie appoggiò la schiena al grosso albero al centro del marciapiede. Se ne staccò quasi subito, disgustato. «Lurido platano», imprecò, «guarda qui che roba...»
«Morus rubra» disse l'uomo, continuando a mitragliare l'aria con la sua penna.
«Prego?»
«Morus rubra. È un gelso. Non un platano.»
«Come dici tu, amigo
«Certo che è come dico io.» Il messicano decise che era ora di alzarsi. Lo fece, poi si girò verso Eddie. «Il Platanus occidentalis», disse, «in genere è più grande. Ha la corteccia grigiomarrone, piena di crepe. Di un platano, sai siempre cosa nasconde sotto.»
Il ragazzo rimase per un attimo in silenzio. Guardò Mikey, che col dito gli fece segno di tacere. Eddie allora scoppiò a ridere. Scosse la testa, barcollò lentamente verso la pila dei giornali. Ci si sedette sopra. La sua maglia era un tutt'uno con la pelle della schiena. Disse: «Fa proprio un caldo fottuto».
L'uomo smise di torturare la sua penna, disse: «Ci sei mai stato in Messico, amigo
Mikey ripensò a Jake.
Jake era stato il cane di suo zio. Una volta, Mikey aveva visto Jake ringhiare in silenzio. Se ne rimaneva lì, rigido, le labbra sollevate. Teso verso un altro cane. Uno grosso, più grande di lui. Non importava. Quel cane stringeva in bocca l'osso di Jake.
Il messicano strisciò come un serpente in direzione di Eddie.
Jake era morto parecchi anni prima. Riviveva ora negli occhi di quel tizio.
Eddie aprì la bocca, ma dalle sue labbra le parole scivolarono via un attimo prima di afferrarle. Si rialzò d'istinto, per poco non cadde all'indietro.
Il messicano era davanti a lui, era più basso di almeno una spanna. Senza distogliere quegli occhi duri e freddi, recitò a memoria una specie di poesia:

Los fieles difuntos ya están llegando
Y ya se preparan en muchos lugares
Fecha que todos estaban esperando
Para recibir a sus muertos con en todos santos

Concluse dicendo: «È una calavera literaria».
Eddie continuava a non dire nulla.
Il messicano disse: «È una poesia mortuaria. In Messico, chiamiamo calaveras anche certi dolci. Teschi, fatti con lo zucchero.» Appoggiò la punta della penna sul naso di Eddie. «Ora ascolta, perché arriva la parte bella.
«Sulla fronte dei teschi si scrive il nome di una persona. Es como un juego, verdad? Un gioco. La calaca, cioè la morte, va a prendere quella persona e la traghetta fino alla tomba.» Fece click. Un singolo, violento click della sua penna color oro e argento.
Eddie si lasciò scappare un gemito.
Una nuvola solitaria passò davanti al sole proprio in quel momento. Il parco, così come loro, piccoli animali intrappolati al limite dei suoi confini, slittò in un canyon d'ombra.
La faccia del messicano era spaventosamente seria. «In Messico, la morte è quasi siempre un gioco» disse. «Nel bene e nel male. Ma la calaca non la puoi ingannare.»
Eddie era sprofondato in un silenzio lapidario.
Fissandolo, l'altro si assicurò che non potesse riemergere.
«Mikey?» disse l'uomo alla fine, girandosi verso il ragazzino.
Mikey scoprì di non riuscire più a muoversi.
«Per te, Sancho.» Il messicano tirò fuori dalla giacca un portafogli sgualcito, ne sfilò una banconota altrettanto sgualcita. I suoi occhi grigioazzurri brillavano, ammiravano Mikey come il fantasma di un passato lontano. Un secondo dopo, infatti, disse: «Mi ricordi qualcuno che conoscevo, Sancho».
Eddie, incredibilmente, emise un lungo fischio compiaciuto.
Mikey si chiese se per caso avesse perso il cervello.
«Deve averne viste davvero tante, in Messico» strillò Eddie. «Dico giusto, señor
Il messicano, altrettanto incredibilmente, sorrise.
Raggiunse Mikey, gli mise la banconota in una mano. Perché soltanto lui potesse udire, sussurrò: «Quando onori la verità, non siempre puoi rimanere sincero». Per l'uomo, Eddie non esisteva più. C'erano soltanto lui e Mikey. «È tutta qui la differenza» disse. «Compromessi. Entiendes
Mikey credeva di sì.
L'uomo tornò con lo sguardo sull'altro lato della strada. Sembrava ossessionato, da quel negozio per animali. Disse: «Per questo Guerrero ha dovuto decapitarli come insetti. Per Miguelito. Per ciò che avevano fatto al piccolo Miguelito, capisci?» Qualcosa attirò la sua attenzione.
Anche Mikey si girò.
L'ingresso di Spawnie's ora era spalancato. Ne uscì un ragazzo, stringeva al guinzaglio due cani. Neri, enormi, arrabbiati. Sbavavano come diavoli. Mikey lo riconobbe. Era un tipo famoso, era quell'ex cantante. Viveva in un hotel di lusso a pochi isolati da lì.
Il messicano, inconsapevole del concetto di traffico, stava già marciando verso il centro della strada. Vi fu il grido esasperato di una frenata. Esplose un'orchestra di clacson. L'uomo puntava il tizio coi cani, testardo come un missile intelligente.
«Roba da matti» disse Eddie, da qualche parte dietro di lui.
Mikey si girò, Eddie gli lanciò tra le mani un giornale. In prima pagina, sopra a una grande foto, c'era questo titolo:

Un messicano per ripulire la Grande Mela dai suoi vermi

La foto ritraeva l'uomo a cui Mikey aveva appena lucidato gli stivali. Stringeva la mano a qualcuno di importante. Quello importante sorrideva, il messicano no. Sotto alla foto, un piccolo trafiletto:

Sarà il detective speciale Antonio Guerrero a occuparsi dei crimini di «Oheka Castle». Noto col soprannome di «Calavera», poco o nulla si sa sul suo conto, o del perché il NYPD si sia rivolto a un esterno. (Continua a pag. 12)

Un poliziotto, pensò Mikey.
Il detective e il ragazzo coi cani erano bloccati nella tempesta del traffico. Immobili come scogli. Ondate di veicoli sfrecciavano su entrambi lati, mostrandoli e nascondendoli. I cani urlavano contro il messicano, il boato copriva ogni cosa.
Eddie appoggiò una mano sulla spalla di Mikey, disse: «Che ti ha bisbigliato, prima?»
Mikey ci pensò su un attimo, poi disse: «Nulla di importante». Un secondo dopo: «Ehi, Eddie. Come ha detto che si chiama, la morte, in Messico?»
«Calaca» rispose prontamente Eddie. «Mi pare abbia detto così.»



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