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"Quando pensi che
tutto sia scontato,
c'è sempre qualcosa
che risulta tutt'altro che
prevedibile."
(Death Sentence)

Capitolo 3
Parte 2
Jace

20 Aprile 2018

Stavo guidando da un paio di minuti verso un piccolo quartiere pieno di locali per mangiare, che si trovava vicino il nostro liceo. Ogni tanto lanciavo qualche occhiata alla ragazza accanto a me, stranamente silenziosa. E nervosa, aggiungerei. Continuava a muoversi sul sedile e a picchiettare le dita della mano libera sul ginocchio.
Mi schiarii la gola, per cercare di trovare qualcosa da dire che facesse scendere la tensione nella macchina.
«Non ti ho mai vista a scuola, in queste due settimane», esclamai.
Le si girò verso di me sbattendo le palpebre. «Cosa?», mi chiese.
Risi. Chissà in quali pensieri si era persa. Le rifeci la domanda.
«Oh, beh, non giro molto per i corridoi o per la mensa», mi rispose.
«L'ho notato. Allora, Carotina, hamburger oppure pizza?»
Sorrise. «Pizza, che domande!»
«E che pizza sia!»
Parcheggiai difronte la pizzeria dove spesso andavo anche con i miei amici. «Ci sei mai venuta?»
Lei scosse la testa. «Di solito vado da Wanda.»
«Beh, non so se tu sia mai stata in Italia, ma la pizza qui è come a Roma!»
Scendemmo dalla macchina e ci avviammo verso l'ingresso del locale.
Arrivati, le aprii la porta, facendola passare. Subito il tiepido calore del posto ci avvolse, mentre camerieri su pattini sfrecciavano da un lato all'altro della sala.
Non erano passati neanche cinque secondi, che proprio uno di questi ci venne in contro.
Era un ragazzo moro con occhi verdi. Doveva avere sei o sette anni in più di noi, visti i tratti più adulti e marcati. Portava due piercing sul sopracciglio destro ed uno sul labbro inferiore, cosa che a chiunque altro avrebbe dato un'aria da duro, ma il sorriso gentile che aveva sul viso rivelava il contrario.
«Benvenuti a Pizza City. Un tavolo per due?», ci chiese.
«Preferibilmente vicino all'uscita di emergenza, grazie», esclamai e ottenni un'occhiata confusa dalla Carotina.
Il cameriere a quella richiesta sorrise, prima di controllare qualcosa sul palmare che teneva in mano. «Perfetto, siete fortunati, c'è un tavolo libero. La vista questa sera è stupenda. Prego, seguitemi», ci disse, dandoci poi le spalle e noi facemmo come detto.

«Che intendeva con "la vista è stupenda"?», mi bisbigliò Carotina.

«Che c'è una vista stupenda da quella parte della sala. Ma bisogna essere clienti per saperlo. Molti lo ignorano.»

«E tu come fai a saperlo?», mi chiese allora con sguardo curioso.

Mi grattai la nuca in imbarazzo. «Stavo limonando con una ragazza quando ho alzato lo sguardo e, beh, l'ho notato.»

Il suo sguardo si assottigliò. «Capito.»

«Oh, non fare quella faccia, se non fosse stato per quella ragazza, ora non conoscerei questo fantastico posto.»

«Almeno ti ricordi il suo nome?», borbottò.

Proprio in quel momento, il cameriere giro a sinistra.
«Guarda in alto e tieni la bocca chiusa», le dissi per scherzo, prima di alzare lo sguardo anche io e restare affascinato come ogni volta.

Su tutto il soffitto di quella piccola saletta, migliaia di puntini brillanti illuminavano un blu cupo, infinito e meraviglioso.
«Oh mio gambero fritto», esclamò Clarissa.
«Te lo avevo detto che era stupendo», sorrisi, osservando la sua espressione elettrizzata difronte al cielo stellato sopra le nostre teste.
«Ecco il vostro tavolo. Ripasserò tra qualche minuto», ci disse il cameriere, prima di lasciarci due menù e pattinare via.
Lo ringraziai, mentre Clarissa continuava ad osservare il magnifico soffitto, che altro non era se non uno schermo piatto collegato ad un telescopio posto sul tetto dell'edificio.
«Sapevo che ti sarebbe piaciuto. E, comunque, la ragazza si chiamava Trisha», la riportai alla realtà.
Lei scosse la testa e prese posto ad una delle due sedie del nostro tavolo. «L'avrei baciata anche io, pur di scoprire un posto così. Dovresti ringraziarla in eterno», rise ancora affascinata.
«Nah, penso che averla fatta fidanzare con il mio amico Olly basti e avanzi», le dissi.
Lei si girò verso di me con uno sguardo sorpreso. «Aspetta, ma stai parlando di Patrisha Lopez? Si è diplomata l'anno scorso, no? Allora era vero che eravate stati insieme durante il primo anno!», esclamò.
Scoppiai a ridere. «Vedo che i pettegolezzi sono giunti anche a te. Stai tranquilla, oltre qualche bacio durante quella sera non è mai accaduto nulla tra di noi e non è stata la ragazza che mi ha spezzato il cuore, tanto da indurmi a cambiarne una a...quanto? Settimana?», la vidi sbarrare gli occhi confusa e sorpresa e le sorrisi. «Ehi, pensavi davvero che le voci non arrivassero anche a me? In ogni caso, penso che l'unica cosa vera di tutte le voci che corrono è che non sono fatto per le cose serie. Ma, sai, a sedici anni chi lo è. Questi anni non sono la nostra unica occasione per vivere e divertirci davvero, prima che il lavoro e le responsabilità rovinino tutto? Conosco la storia dei miei genitori. Si sono conosciuti alle elementari e, alla fine, si sono sposati, mollandosi pochi anni dopo perché consci di aver fatto tutto troppo in fretta. Non voglio finire come loro. Voglio qualcosa di più duraturo e razionale che il folle amore adolescenziale. Mio padre ha rinunciato a Yale e alla sua passione per la legge per mia madre ed ora gestisce un'azienda informatica con Robert Lightwood, mentre lei ha dovuto interrompere gli studi per crescere me. Nessuno dei due è stato felice ed io voglio avere la chance di esserlo», le rivelai soprappensiero, osservando il cielo sopra di noi e dal suo silenzio capii di averla sorpresa.
«Sai qual'è il nome della costellazione che stai guardando?», mi disse dopo qualche secondo ed io scossi la testa.
«È la costellazione della corona. È legata al mito greco di Arianna, Teseo e Dioniso. Si narra che, dopo essere stata abbandonata da Teseo, suo primo amore, Arianna fu accolta dal Dio Dioniso, che si innamorò di lei e la fece vivere con lui, regalandole una corona d'oro, realizzata da Efesto, come dono di nozze, da cui Arianna mai si separò per tutta la vita. Alla sua morte, per commemorare la moglie, Dioniso decise di lanciare la corona nel cielo, in modo tale da conservare in eterno il ricordo della sua amata», raccontò, ed io la osservai confuso e, allo stesso tempo, curioso di capire dove volesse arrivare.
Distolse lo sguardo dal mio e lo puntò sul cielo. «Mia madre mi raccontava sempre queste storie quando ero piccola. Mi spiegava l'origine delle stelle e i miti che vi erano dietro. Sai qual era la sua costellazione preferita? Proprio la Corona. La sua storia era stata così profonda e piena di amore. Arianna aveva affidato in giovane età il suo cuore speranzoso alla persona sbagliata, che non ne aveva avuto cura, rompendoglielo in mille pezzi. Ma lei non si era arresa, non si era chiusa dentro il suo dolore ed aveva così incontrato il suo vero amore. Mia madre dice sempre che questa storia è significativa di come bisogna sempre tentare e mai chiudersi a riccio dentro i propri dolori, impedendo al mondo di entrare. Mia madre mi ha chiamata Clarissa proprio per le stelle. Deriva dal latino e significa brillantezza e cosa più brilla delle stelle?», raccontò.
Avevo capito quale fosse il messaggio del suo racconto. Nulla di moralistico, nessun invito a trovarmi una ragazza e farla finita come don Giovanni mancato. Mi aveva raccontato una storia per cercare di farmi capire come anche dopo un dolore si possa andare avanti. E lo apprezzai, davvero. Clarissa mi sembrava una ragazza sincera e schietta. Non teneva le cose per sé, ma desiderava esternarle. Se mi avessero chiesto di definirla, avrei detto vera, e non era una cosa da sottovalutare.
Non avevo nulla da replicare, non ce n'era bisogno. Entrambi ci limitammo a prendere il menu e a sfogliarlo, in attesa del cameriere.
Quando questo venne a prendere le ordinazioni e ci chiese se apprezzavano la vista, gli rispondemmo entrambi entusiasti e dopo qualche scambio di battute tornammo a guardarci e, presto, a chiacchierare del più e del meno.
Ero famoso per essere un ottimo intrattenitore e con tutti i guai che i miei amici ed io eravamo abituati a combinare, potevo tirare fuori talmente tanti aneddoti divertenti da tenere compagnia per ore e ore. E, senza neanche accorgermene, fu proprio così che andò.
Quando, verso le dieci e mezza, uscimmo dalla pizzeria, stavamo ancora ridendo delle figuracce fatte da Alec l'estate precedente a Siviglia.
«Sul serio non aveva capito che quella ragazza era soltanto un travestito?», mi chiese ridendo.
«No. È rimasto imbarazzato per giorni. Ancora oggi se glielo si ricorda arrossisce.»
«Immagino», esclamò, mentre le aprivo la portiera della macchina.
«Grazie», mi disse.
«Sai, ci ho preso l'abitudine», le dissi con un sopracciglio alzato.
Lei mi guardò male. «Guarda che ci sarei riuscita a tagliare la pizza», esclamò, mentre prendeva posto in auto.
«Si, magari a quest'ora saresti riuscita a separare la prima fetta», la presi in giro, chiudendo la portiera prima di sentire la sua replica, che non immaginai molto cordiale, visto lo sguardo assottigliato e le guance rosse, mentre con la mano non ingessata batteva contro il vetro del finestrino. Ridendo, feci il giro, entrando anche io in macchina.
«Non puoi immaginare quanto il mio desiderio di ucciderti sia grande», mi disse acida.
«Oh, andiamo, anche dopo questa splendida serata? Ti ho persino portato a vedere le stelle», esclamai ironico, mettendo in moto.
Borbottò qualcosa che non compresi e scosse la testa, mentre cercava di allacciarsi la cintura. La vidi gonfiare le guance perché non ci riusciva. Misi perciò la macchina in folle e mi sporsi per aiutarla.
«Aspetta che ti do una mano, imbranata.»
«Ti ricordo che è per colpa tua che sono caduta.»
«Io direi che è stato perché tenevi quel nasino troppo in aria», le dissi, allacciandole la cintura e sfiorandole con il dito il naso che si colorò all'istante di rosso.
«Impertinente.»
Le feci l'occhiolino e rimisi la marcia. «Allora, Carotina, dov'è che abiti?»
Lei mi guardò con un sopracciglio alzato, come per dire: "me lo stai chiedendo davvero?".
Poi, però, mi diede le indicazioni.
Praticamente mi stavo dirigendo verso casa mia. Cosa non troppo assurda, considerato che era la via per la quale passava l'autobus che avevamo preso entrambi e sul quale lei saliva prima di me.
«A quanto pare siamo quasi vicini di casa!», le dissi, mentre percorrevo la mia via.
Lei scosse la testa. «Da quando ti sei trasferito qui, Jace...»
Mi girai verso di lei. «Penso sia la prima volta che mi chiami per nome. Un passo avanti, eh?»
Lei arricciò il naso. «Piuttosto indietro.»
Alzai gli occhi al cielo e continuai a guidare.
«Ammettilo che ti sei divertita!»
Sbuffò. «E va bene, é stata una bella serata», la vidi lasciarmi un'occhiata e ghignare. «Soprattutto quando il cameriere ti ha infilato il suo numero nella tasca», aggiunse scoppiando a ridere.
Sorrisi anche io. «Che posso dire, sono un Adone. Né uomini né donne riescono a resistere», scherzai facendola sospirare e scuotere la testa divertita. «Continuo dritto?», le chiesi.
«Per altri duecento metri e poi siamo arrivati, Adone», sottolineò l'ultima parola.
«Però, abitiamo così vicini e non ci siamo mai incrociati! E dire che per questa zona ci giro molto!»
«Credimi, lo so...», sogghignò. «Ecco, parcheggia tra tre case sulla destra», mi disse ed io aggrottai la fronte, perché quella casa io la conoscevo bene.
«Perfetto, siamo arrivati», mi disse, voltandosi verso di me, che dovevo avere sicuramente un'espressione fin troppo confusa.
«Oh, andiamo! Sono la fotocopia di mia madre e di mio fratello, credevo lo avessi capito!», esclamò.
Beh, no. Decisamente no! Certo, di segnali ne avevo avuti, a cominciare da Jordan che la sera prima mi aveva detto che alla festa era presente suo fratello, o che il fratello le parlava della nostra squadra di calcio. Ma dai, quante possibilità c'erano che quella ragazza fosse la sorella del mio migliore amico? Poche, davvero.
«Si, beh, non ho collegato le cose, piccola Morgenstern», le dissi, passandomi una mano sulla nuca e provocandole un'espressione divertita.
«Penso di averti visto l'ultima volta ad uno dei compleanni di Jonathan, prima che lui si trasferisse da papà. Saranno passati come minimo sette anni.»
«Allora avevi davvero i capelli color carota, ora che ci penso!», le dissi.
Arricciò il naso e aggrottò la fronte. «Non erano color carota! Erano....arancioni.»
Mi avvicinai un po' a lei. «Carota.»
Sbuffò e incrociò le braccia al petto. Beh, a dire il vero incrociò un braccio a quello già fisso lì. «Prima o poi le carote saranno gialle e non potrai più prendermi in giro. Allora, quegli appunti di Arte?»
«Si, giusto», le dissi slacciandomi la cintura e allungandomi dietro il suo sedile, fino alla tasca posta sul lato posteriore di esso. «Ecco a te», le dissi. «Sai, volevo portarteli stamattina, se solo mi avessi dato l'indirizzo», allusi.
Le sue guance si arrossarono a pena. «Mi dispiace essere stata così scorbutica. E grazie. Non solo per gli appunti. Mi sono divertita questa sera.»
Sorrisi a trentadue denti e le feci un occhiolino. «Anche io, Carotina.»
Rise e scosse la testa, scendendo dalla macchina. «Ci si vede, Biondino!», esclamò, chiudendo la portiera.
«Prima di quanto pensi», le gridai, abbassando il finestrino.
Quando la vidi entrare in casa, ridiedi gas e guidai verso casa.
Avevo sempre avuto poca fiducia nelle persone, dopo la partenza di mia madre. I miei punti fermi erano diventati il calcio e i miei migliori amici.
Eppure, c'era stata un'altra persona, che era stata importante nella mia infanzia.
Avevo conosciuto quella dolce bambina vittima delle angherie delle sue compagne quando ero all'ultimo anno di asilo, poco dopo il mio trasferimento a New York. La vidi per la prima volta piangere nel giardino comune durante una ricreazione di primavera. Aveva due codini che raccoglievano dei ricciolini color carota e due occhi verde smeraldo, che quel giorno sembravano quasi trasparenti, mentre sul viso candido risaltavano piccole lentiggini, illuminate dalle lacrime.
Poche settimane dopo, scoprii che si trattava della sorella di John, il mio migliore amico.
Clary Morgenstern fu la mia prima cotta e la prima ragazza che volevo conquistare, quando ancora non sapevo né leggere, né scrivere.
Avevo perso le sue tracce poco dopo la terza elementare, quando Jonathan era stato affidato al padre e lei alla madre e da allora non l'avevo più rivista e il suo ricordo era sfumato.
A distanza di anni, era tornata nella mia vita in un modo non proprio dei migliori, ma rivelandosi poi una piacevole compagnia.
Chissà se questa volta sarebbe di nuovo svolazzata via, come quelle nuvole che osservi d'estate e a cui cerchi di dare una forma, oppure l'avrei avuta intorno ancora per un po'.
A volte, anche gli incontri più disastrosi possono essere l'inizio di un viaggio strepitosi.
Ed ero curioso di sapere come sarebbe stato questo.
Ci pensai molto durante il viaggio verso casa e solo quando parcheggiai davanti il vialetto e presi il telefono mi resi conto che, forse, quella buffa nuvoletta color carota, mi aveva contagiato un po', perché dalla mia mente era completamente sfumato l'appuntamento che avevo con i miei amici per la festa post-partita.
E rinunciare al divertimento non era proprio da me.

•Spazio Autrice•
Spero che questo lunghissimo capitolo vi sia piaciuto. È stato un parto scriverlo e rappresentare al meglio Jace e, allo stesso tempo, cosa provava Clary.
Diciamo che la stesura della storia è stata rallentata proprio dalla mancanza di ispirazione per questo capitolo. Ho già un paio di capitoli pronti e solo da revisionare, perciò presto sarà disponibile il capitolo 4, con il quale si torna al punto di vista di Clary.

Non so se questa versione possa piacervi più della vecchia, ma me lo auguro.
Fatemi sapere cosa ne pensate! Cosa vi convince e cosa no!
Consigli e critiche sono sempre benaccetti.

A presto,
All the love,
Bree xx

My Loving Clash |IN PAUSADove le storie prendono vita. Scoprilo ora