GARCIN

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"Quindi, tutte le stanze sono uguali?".

Il cameriere lo guardò, sorpreso, quasi indignato. Garcin si morse un labbro, togliendo lo sguardo dal suo viso.
Quell'uomo era inquietante, era esageratamente alto e non aveva le palpebre. Come si poteva vivere senza palpebre? Ne aveva viste di cotte e di crude, ma quella poi...
Il cameriere si voltò e tolse un po' di polvere da una libreria, vuota. "Per carità! Ci vengono cinesi, russi, arabi... che se ne farebbero di un arredamento come questo?" esclamò, mostrando con un gesto la stanza dove Garcin avrebbe dovuto passare il resto dell'eternità.
"Ma... il fuoco? E le fruste?" chiese, sconcertato.
Il cameriere lo scrutò, con un'espressione confusa.
"Dove sono le fruste?". Emise un grugnito, che doveva essere una risata.
"Ah... e magari anche le mazze chiodate, i serpenti e quegli uomini rossi con le corna?" chiese l'altro, con una nota sarcastica nella voce, mimando dei cornini con le lunghe dita scarne e giallastre.
Garcin, che normalmente non si sarebbe fatto prendere in giro, ma quella non era la normalità, lo ignorò e gironzolò per la stanza, guardandosi attorno. "Tutte stronzate. Tutte stronzate inventate chissà quanti secoli fa. Mi tolga una curiosità: come mai voi uomini credete ancora alla favoletta dell'inferno con le fiamme e le torture infinite?" bofonchiava l'altro aggiustando una piega del tappeto persiano slavato.
Garcin non seppe che rispondere.

Fissò la sua prigione, alla ricerca di un letto: la libreria vuota, il comodino, il divano color giallo ocra a tre posti, un quadro ritraente una scogliera, il tappeto. Un lampadario troneggiava sul tutto.
"Non ci sono finestre?" domandò. "E perché mai? Su cosa darebbero? Non c'è niente là fuori. Niente di niente. Il nulla!".

Deglutì.
Aveva la gola estremamente arida, sia per la paura, che per la sete.
"Mi scusi, ha qualcosa da...".
"No", lo interruppe il cameriere, "Non c'è niente da bere. E neanche da mangiare... ma vedrà che le passerà presto la voglia sia di bere che di mangiare". 

Si sedette sul'orrendo divano, fissando il vuoto.
"Le serve qualche altra cosa?" gli chiese il cameriere. Era una domanda gentile, ma non c'era alcun tono gentile o educato nella sua voce e nei suoi modi.
Aveva una posa gelida, con quella bocca dal taglio crudele e quella faccia glabra, esangue. Ma i suoi occhi grigi, sbarrati, spalancati e sempre vigili, gli conferivano un'aurea terrificante. Le sue pupille si muovevano continuamente, come se attente ad ogni singolo gatto di polvere che volteggiava nell'aria. Garcin poteva giurarci: anche quando quell'essere non lo guardava, i suoi occhi erano sempre posati su di lui, mentre scrutava i batuffoli di polvere. 

"Dov'è la mia valigia?" lo interrogò, innervosito. Le sue mani tremavano.
Il cameriere scoppiò in una risata: "Non mi sembra lei sia morto con una valigia in mano, no?".
"Beh, non sono morto neanche con questi abiti!" protestò, alzandosi e mettendosi davanti a quel grottesco demonio. Indossava uno smoking, nero quasi quanto il suo completo. Garcin era molto alto, ma arrivava a malapena al suo petto. "Voleva passare l'eternità vestito con stracci da militare?".
"Come fa a sapere che ero un militare?" boccheggiò.
"Che domanda idiota", esclamò il cameriere. "Com'è che mi chiamate? Belzebù? Il Maligno? Satana? Dovrei sapere tutto".
Egli si girò e stette per andarsene. Garcin venne preso dall'ansia e cercò subito un modo per trattenerlo e continuare ad avere la parvenza di una conversazione.
"Un momento!" gridò. Il cameriere non si voltò, ma rimase immobile. "Rimarrò... per sempre... da solo?".
"Oh, no. Presto ne verranno altri, a tenerle compagnia. Buona permanenza". E se ne andò, chiudendo la porta a chiave. Garcin si appoggiò al comodino, sconsolato. Doveva mantenere la calma. 

Là, in quel posto che i vivi temevano fin dai primi albori dell'umanità, non volevano altro che lui perdesse la calma. Ma lui sarebbe rimasto tranquillo, mantenendo quel briciolo di dignità che ancora gli rimaneva e che aveva perso.
La chiamata al fronte.
I proiettili.
Gli aghi e i fili.
Violet.

Roteò lo sguardo, colpendo ogni direzione della sua prigione. Lo stavano osservando, questo era sicuro. Che osservassero.
Fili, proiettili, Violet.
Non avrebbero visto pianti, richieste di perdono.
Non da Garcin.
Aghi, proiettili, Violet.
Lui era conscio di ciò che aveva fatto, per finire lì. Non chiedeva il perdono. Aveva fatto quello che aveva fatto.
Aghi, fili, Violet.
Quel dannato cameriere, demone, o quel che era, avrebbe dovuto dare il meglio di sé.
Sarebbe rimasto lì, ad aspettare. Innocuo.
L'ospite più tranquillo di tutto l'albergo.
Li avrebbe fregati tutti.
Aveva solo bisogno di un po' di tempo.
Sorrise con i suoi denti da lupo.
"Tanto, il tempo non mi manca" pensò, e fece una risatina nervosa. 

Era appena all'inizio delle sue pene.

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