2 - La libertà del gioiello

439 60 0
                                    

I residenti non si erano resi conto per tempo di ciò che stava accadendo appena sopra le loro teste, al piano superiore. Basim scivolò oltre la finestra, buttandosi nel vuoto ed atterrando su un mucchio di paglia, appositamente posizionato da Jibran. Il ragazzo strinse a sé il sacchetto pieno d'oro e cominciò a correre a perdifiato, mentre la coppia derubata gridava al ladro.

Svoltò non appena vide delle guardie perlustrare la zona, ma non si accorse di aver messo piede in un vicolo cieco. Prima che potesse voltarsi per cambiare strada, gli uomini gli furono addosso. Lo afferrarono in due e cominciarono a trascinarlo mentre opponeva resistenza. Venne letteralmente portato di peso fino a palazzo, dove l'uomo che sembrava essere al comando ordinò di lasciarlo marcire in cella qualche giorno. Senza tante cerimonie, le due guardie lo scaraventarono in un angolino buio dietro le sbarre.

Diversi odori pungenti si mescolavano, e Basim dovette trattenere un conato di vomito quando gli vennero in mente le cause di quegli olezzi. Cercò una posizione comoda nella parte più vicina alle sbarre, dove poteva respirare a pieni polmoni aria viziata, ma comunque più pulita.

Dopo quelle che parvero ore, cominciò ad interrogarsi su dove fosse finito Jibran. Si erano accordati prima che lui entrasse nella casa dei più abbienti della cittadella, ma poi ne aveva perso le tracce.

«Non me ne va mai bene una, ultimamente», sussurrò avvilito. Non capiva dove sbagliasse, utilizzava lo stesso piano da due anni ormai. I proprietari di ciò che rubava si accorgevano sempre un secondo troppo presto, ed avevano il tempo di dare l'allarme.

Chiuse gli occhi, volgendo il naso fuori dalla cella. Quando la finestra smise di illuminarlo, segno che ormai era notte, qualcuno batté contro le sbarre. Basim aprì gli occhi speranzoso di trovarsi il demone, ma di fronte a lui stava un uomo in armatura, che lo fissava duro.

«Non ti è concesso un goccio di alcol per attenuare il dolore», spiegò mentre si chinava a girare la chiave nella serratura, aprendola. Basim annuì, mentre pensava a come uscire da quella situazione con entrambe le mani intatte.

Non appena l'uomo gli afferrò l'avambraccio, il giovane ladro si sentì come staccato dal proprio corpo, mentre un senso di vertigine lo scuoteva dall'interno. Sbatté le palpebre, e si ritrovò nel posto dove aveva trascorso l'ultima notte, la foresta.

Jibran, in forma di cacciatore, se ne stava seduto con la schiena appoggiata ad un tronco, mentre fissava intensamente Basim. «Dovresti stare più attento», lo rimproverò.

«Dove sei stato?», lo interrogò Basim, guardingo. Ultimamente il demone aveva atteggiamenti strani, che mal si accordavano con l'incarico che aveva ricevuto: aiutare il giovane ladro a pagare il debito.

Il ragazzo non ci mise molto a collegare ogni cosa. «Sei tu», lo accusò puntandogli un dito contro. «È colpa tua se ultimamente non riesco più a pagare il mio debito».

«Quante storie», sbuffò l'altro. Allungò le gambe e le intrecciò, assumendo una posa rilassata.

«Come sarebbe?! Sai perfettamente che ho bisogno di togliermi di dosso questo peso!», inveì Basim. Erano stati compagni di avventure per due lunghi anni, avevano condiviso tutto quasi come fratelli, si erano lasciati alle spalle le differenze – umano e demone – ed ora gli stava voltando le spalle nel modo più vile che si potesse immaginare.

«Oh, smettila di pensare solo a te stesso», rispose Jibran, stiracchiandosi le braccia come un pigro gatto. Nonostante il tono di voce fosse sornione, gli occhi viola del demone non lasciavano il suo interlocutore, come a volerne carpire i pensieri prima che fossero espressi in parole. «Voi umani ed il vostro egocentrismo. Non siete gli unici ad abitare questa terra, eppure vi comportate come se lo foste».

Basim era scioccato. Cosa era cambiato da qualche mese prima, quando si erano raccontati l'un l'altro le vicende più assurde, ridendo come amici di vecchia data? Strinse i denti, a disagio. «Sto solo cercando di liberarmi da questa maledizione». Jibran conosceva già ciò che era accaduto, perché tornare su questioni così delicate inutilmente? Ripeterlo altre volte non avrebbe influenzato la realtà.

«Beh, sai una cosa, sapientone? Anche io». Il demone si alzò, abbandonando l'intento di rilassarsi. Aveva le ginocchia piegate ed il busto in avanti, come se si aspettasse di essere attaccato.

«Che cosa significa?», chiese il ragazzo. Non gli piaceva la piega che stava assumendo la conversazione, e soprattutto la posizione che aveva preso Jibran. Avevano passato così tanto tempo insieme, ed ora lo riteneva un nemico?

«Quando tu hai rubato il gioiello al demone Firas, io vi ero imprigionato dentro, ero uno dei tanti servi della sua schiera. Non appena le tue mani hanno toccato la parete dell'oggetto, la mia cella, tutto ha acquistato più colore grazie alla speranza. Non ti lascerò pagare il debito per intero, non ti permetto di condannarmi ad altri secoli lì dentro», spiegò il demone in tono freddo. Aveva scoperto le sue carte, e ciò sembrava averlo messo a disagio.

«Pensi sul serio che mi faccia da parte?». Se l'atteggiamento di Jibran era mutato solo nell'ultimo periodo, significava una sola cosa: mancava poco a risanare il torto inflitto al demone. Aveva speso troppo tempo, troppe energie, troppe lacrime per lasciarsi vedere tutto sfumare a causa del compagno.

Jibran sorrise in modo maligno, e fece quasi accapponare la pelle a Basim. Il ragazzo dimenticava troppo spesso la natura dell'altro, ciò di cui era capace. Attese, ma non accadde nulla. Il silenzio era diventato più opprimente di dozzine di voci, e l'intensità con cui il demone lo guardava lo metteva in soggezione. Resistette all'impulso di abbassare gli occhi.

«Vorrà dire che vincerà il migliore», esordì Jibran, dissolvendosi in spire scure e lasciandolo solo nella foresta.

Firas - Il debitoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora