Le dita del diavolo

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Girò la chiave nella toppa il più lentamente possibile, perché lo schiocco della mandata non facesse troppo rumore, ma non riuscì comunque ad impedire che il suono rintoccasse nel cunicolo per spandersi con la sua eco sinistra. Allo stesso modo, fu costretto a fermarsi al cigolio della porta, quando era ancora appena discosta al cardine.

Dall'esterno una luce molto forte gli ferì gli occhi, in quel chiarore artificiale riconobbe il corridoio che aveva attraversato qualche giorno prima per la sua "udienza" con Aro. Era l'unica via di uscita dai sotterranei, anche se con molte probabilità portava direttamente alla sala del trono, come l'aveva ribattezzata con scherno.

Per quanto si sforzasse, non ricordava eventuali diramazioni: l'ultima volta che lo aveva attraversato aveva il cervello troppo intorpidito dai sedativi che gli avevano tolto la lucidità e la forza del lupo.

Doveva arrangiarsi, affidarsi alla sorte, giacché non aveva più fiuto, né ricordi per uscire da quel labirinto putrido. Ma doveva anche mimetizzarsi più che poteva, poiché quei maledetti il suo odore lo avrebbero riconosciuto a miglia di distanza.

Sbuffò esasperato dall'ennesima falla che rallentava il suo piano e si morse l'interno della guancia, così forte che ne incise la carne, provocando la fuoriuscita di alcune gocce di sangue.

Il suo sapore ferruginoso gli invase la bocca, accendendo nel lavorio del cervello la luce della soluzione.

Risalirono a galla nella sua mente i racconti di Edward e Bella del giorno in cui erano stati entrambi al cospetto di Aro, quando il vampiro aveva cercato la morte, credendo morta la donna che amava più di sé stesso. Gli avevano raccontato che l'odore del sangue umano delle vittime dei Volturi, che entravano come ignari turisti nel Palazzo e divenivano il loro impietoso pasto, impregnava l'aria, le tende, gli arredi insieme a quello paralizzante della paura, dell'orrore della fine, dei denti e delle unghie.

Il sangue, il sangue ancora una volta sarebbe stata la soluzione!

Tornò sui suoi passi, fino all'ingresso della sua cella, dove i corpi dei suoi aguzzini giacevano inerti, si inginocchiò accanto ad uno di loro e immerse le mani nella pozza rossa che impregnava il pavimento.

Se ne cosparse il petto e le guance e poi strofinò i palmi sporchi sulle cosce. L'odore lo nauseò, come l'idea di aver fatto un bagno nella linfa di un uomo morto.

Ma, poiché anche questa sensazione di colpevolezza rischiava di diventare un impedimento pericoloso per la sua fuga, scrollò la testa e quel pensiero schizzò via nell'angolo remoto della coscienza dove ciascuno di noi relega i pensieri scomodi, e ritornò alla porta, la schiuse di nuovo e cominciò a percorrere il corridoio.

Un miscuglio di voci che parlava una lingua straniera, cominciò ad arrivargli alle orecchie, dapprima leggero e lontano, poi sempre più distinguibile.

Erano certamente i turisti di cui gli avevano parlato, il segno che forse era sulla strada giusta per uscire.

Sarebbe bastato ripercorre l'ampio corridoio controcorrente rispetto alla comitiva, sperando che nessuno dei succhia sangue della Guardia fosse nei paraggi a fiutare il suo odore.

Si nascose dietro una delle pesanti tende, drappeggiate davanti alle enormi vetrate ulteriormente schermate dagli scuri. La schiena aderente alla parete e il respiro ridotto allo stretto necessario a evitare l'asfissia.

Una lingua di adrenalina gli serpeggiava sottopelle, come una linfa vitale che raggiunge un centimetro alla volta gli organi, i tessuti, le cellule tutte del corpo e del cervello, accendendoli per lo sforzo finale. La gola era secca, come se avesse scordato di bere da ore, e la pelle tirava sotto la crosta delle scie di sangue di cui l'aveva imbrattata.

Le dita tremarono e la pelle si accapponò, quando le voci furono vicine.

I polmoni fermarono il proprio lavoro, centellinando le molecole d'aria al loro interno per l'apnea necessaria a mimetizzarsi completamente, quando il calore vivo dei corpi dei turisti gli passò davanti, con le voci entusiaste ed eccitate.

I denti strinsero il labbro inferiore con apprensione e impazienza, quando il vociare si allontanò gradualmente dalle sue orecchie, fino a esaurirsi del tutto.

Il respiro fluì lentissimo attraverso le narici, così come il sangue nelle vene che sembrava essersi coagulato nello spasmo dell'attesa, non appena si sentì al sicuro e pronto a riprendere la via di fuga.

Ci fu un solo, unico istante in cui tutto sembrò ricominciare daccapo, il respiro, la possibilità di salvezza, la forza che regala la ritrovata speranza.

Un unico, solo istante perché tutto, allo stesso modo svanisse, come vapore nell'aria.

Perché tutto si dissolvesse con la stessa veloce prepotenza con cui sembrava essere cominciato, quando dita fredde e morte gli strinsero il collo, come ganasce mortali.











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