Capitolo 1

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Questa sera mi ritrovo in stazione ad aspettare il treno per partire. Rimango seduta con le gambe conserte su una panchina poco distante dalla ferrovia; il capo chino, gli auricolari nelle orecchie, la musica in testa, a fissare il vuoto. Le luci della città che iniziano ad accendersi e chi come me aspetta di partire con gli occhi spenti ed una sigaretta fra le dita.
Quando la metropolitana si ferma, mi alzo. Salgo e mi trascino dietro il mio bagaglio che fa un leggero rumore quando le ruote girano sull'asfalto, finché non trovo posto accanto ad un finestrino. Mi siedo, e la metro riparte. Poggio la testa contro il vetro freddo del finestrino e rimango a fissare la città che veloce mi scorre negli occhi, quelle luci che si riflettono nel mio sguardo e lo accendono.

Due mesi fa mi è stata offerta l'opportunità di andare a studiare in un college in America. La bella Londra mi mancherà, così come i miei amici, ma più di tutti e tutto, sentirò la mancanza di mia nonna.
Vivo con lei fin da quando ho sette anni; i miei genitori sono morti una sera d'estate perché sono stati coinvolti in un grave incidente stradale mentre tornavano a casa dopo una serata in compagnia degli amici di vecchia data. L'uomo che si trovava alla giuda del camion non li ha visti, era ubriaco. Ormai conosco nei minimi dettagli le dinamiche dell'accaduto, e se chiudo gli occhi, riesco quasi ad immaginare l'auto che si cappotta fuori strada, ruotando su se stessa.
È stata la nonna stessa a mostrarmi il volantino pubblicitario che mostrava l'apertura della nuova scuola. La nostra è stata una decisione difficile; dico "nostra" perché abbiamo deciso insieme, io sarei rimasta se lei me lo avesse chiesto.
Confesso che non è facile abbandonare le vecchie abitudini: il bacio della buonanotte che mi posa sulla fronte nonostante io sia cresciuta; i pranzi alla domenica, io e lei intorno al tavolo a raccontarci la nostra settimana; i film che vede la sera, sul divano, mentre io studio con i libri e appunti sparsi sul tavolino rettangolare prima di dormire.
Ci siamo salutate prima che lei mi accompagnasse in stazione, mi ha detto che mi avrebbe chiamata almeno due volte alla settimana, che ci saremmo viste presto. Le ho chiesto di non rimanere ad aspettare con me la mia metro, sarebbe stato troppo difficile partire.

Mi ci vogliono sette fermate prima di raggiungere l'aeroporto, poi devo prendere l'aereo delle 8.35 p.m. ed il giorno seguente mi ritroverò in California. Devo ammettere che nonostante gli affetti che sto lasciando, l'idea di andarmene in un posto in cui non conosco nessuno ed in cui nessuno conosce me, così che io abbia l'opportunità di scegliere da chi farmi conoscere, mi fa stare un po' meglio. E mentre sono immersa nei miei pensieri, la metro si ferma, e se non avessi alzato lo sguardo per controllare quante fermate mancano, non mi sarei mai accorta che questa è proprio la mia, di fermata.

Le porte si aprono ed io scendo tirandomi appresso il bagaglio. Mi avvicino alla strada, sempre comunque rimanendo sul marciapiede, cercando con lo sguardo un taxi. I primi tre passano veloci senza neanche notarmi; vedo che il sedile anteriore è già occupato, il quarto, invece, è quello che si ferma e che mi fa gentilmente salire, percorrendo il piccolo pezzo di strada rimanente per raggiungere l'aeroporto. Effettivamente, avrei anche potuto farmelo a piedi, ma il freddo mi crea qualche problema, nonostante questa sia la mia stagione preferita. Scesa dal taxi, entro in aeroporto e mi dirigo verso la coda che già c'è per eseguire il check-in.
«Nome?», mi chiede la ragazza che sta eseguendo la registrazione dei miei dati.
«Cleo», rispondo io.
«Cognome?»
«Harvey.»
«Età?»
«Diciannove anni.»

Quando finisco di registrarmi, devo lasciare il mio bagaglio al controllore che si occupa di caricarlo sull'aereo, ed io rimango seduta su una poltroncina color nero ad aspettare che chiamino i passeggeri per l'imbarco diretto in California.
Passano diciassette minuti, ed io li conto uno ad uno impaziente; continuo a controllare l'ora dal telefono, e poi anche dall'orologio che porto al polso perché il tempo mi sembra passasse così lentamente, che inizio a credere che l'orologio sia sbagliato. Poi, finalmente, si sente in tutto l'aeroporto una voce femminile che annuncia la partenza del mio aereo ed invita i passeggeri a non perdere tempo ed a salire per prender posto. E così faccio.
Mi siedo in seconda fila, contro il finestrino. Accanto a me si siede un bambino, avrà dai sei ai dieci anni; è iperattivo, ma simpatico. Porta delle cuffie alle orecchie e la musica è veramente alta poiché riesco a sentirla, mentre fra le mani tiene un aggeggio... credo sia un Nintendo, assomiglia molto a quello rosa che avevo io all'età di dieci anni. E dire che ora il rosa mi fa schifo.
Accanto al bambino c'è una signora anziana, penso sia la nonna del bambino.
Poi sento annunciare la partenza dell'aereo, chiedendo prima di allacciare le cinture di sicurezza. Io giro lo sguardo verso il finestrino, e rimango a guardare la bella Londra farsi sempre più piccola sotto i miei occhi. I palazzi illuminati ed alti diventano piccoli punti fermi che sono nulla in confronto a quando li vedo dal basso.

Sentirsi leggeri eppure essere così pieni del vuoto, come le nuvole.

Io torno con gli auricolari alle orecchie e chiudo gli occhi, nel frattempo una lacrima mi riga la guancia. Il sapore del salato che riesco a percepire sulla pelle pallida e fredda; il tremolio della mia mano; il mio cuore che accelera fino a bloccarsi, per poi riprendere a battere a ritmo della musica che mi suona nelle orecchie.

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{ Capitolo revisionato. }

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