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Il giorno dopo, dopo un'ulteriore lunga dormita durante le otto ore di volo, atterrai a Londra.

L'aria londinese, il verde che si vedeva dall'aereo, la simpatia delle persone, era qualcosa che mi era mancato più di quanto pensassi o dessi a vedere.

Mi si formarono anche le lacrime agli occhi e in un attimo mi sembrò di tornare bambino, quando mia mamma e il mio patrigno mi portavano a visitare i musei e a fotografare i monumenti.

Mi riscossi dal fissare il vuoto solo quando un turista mi urtò e mi disse qualcosa in un'altra lingua che sembrava molto offensivo.

Mi affrettai in stazione, lontana solo un paio di metri e mostrai il mio biglietto per Doncaster. Entrai in un vagone e mi sedetti, guardando fuori e distinguendo i tipici palazzetti inglesi. Mi si strinse il cuore a pensare a quanto quel posto significasse casa per me.

Nel treno mi immaginai le facce sorprese dei miei cari nel vedermi arrivare dopo sei anni senza aver avvisato. Almeno li avevo sentiti e avevo esorto loro informazioni in modo subdolo: erano a casa per le festività natalizie e di inizio anno nuovo, quindi tutto tranquillo, e sarei rimasto lì due settimane.

Appena il treno due ore dopo si fermò e uscii dalla ferrovia sentii un calore familiare espandersi per tutto il mio stomaco, mi si formarono le lacrime agli occhi e sorrisi.

Casa.

La mia città.

Trascinai le mie due valigie, sentendo la neve cadere dal cielo. Mi meravigliai che non fosse già tutta imbiancata, come New York, poi mi resi conto che temperature lì erano leggermente più miti.

Sorrisi ancora, osservai la città come se mi aspettassi che diventasse dieci volte più grande e apparisse Time Square e altre diecimila persone sulla stessa stradina sulla quale mi ero fermato come un idiota, senza parole.

Eppure quella non era New York, quella era Doncaster. Sulla strada di fronte non c'erano mille persone che correvano frenetiche, ma due vecchiette che si tenevano a braccetto.

Dopo essermi preso due minuti, mi resi conto di aver bisogno di qualcosa da bere. Entrai nel primo squallido piccolo bar a sinistra, intento a prendere qualcosa velocemente e mi trascinai dietro le valigie pesanti.

Mi sedetti al primo tavolino sentendomi stanco morto dal viaggio e aspettai che un cameriere dai capelli unti mi chiedesse cosa prendevo.

"Un bicchierino di Aperol, per favore." ebbi appena il tempo di dire, prima di sentire un rumore di infrangimento.

Cos'è successo?

Mi voltai verso quel rumore notando prima i tre bicchieri di vetro frantumati per terra e poi chi li aveva fatti cadere, ed era lui.

Era magrissimo rispetto all'ultima volta, con fossi scuri scavati sotto gli occhi blu, le labbra screpolate, i capelli più lunghi tirati indietro e la barbetta incolta. Indossava lo stesso completo del cameriere che aveva appena preso il mio ordine, lavorava lì, e mi guardava, scioccato, sconvolto. Se mi fossi visto probabilmente avrei notato che lo guardavo allo stesso modo.

"Ha-Harry?" spezzò il silenzio che il bar aveva creato. Mi accorsi che la sua voce era più roca e rovinata di sei anni prima.

Boccheggiai, non riuscii nemmeno a pronunciare il suo nome.

È proprio lui.

È veramente lui.

Nel frattempo probabilmente aveva anche lui notato i cambiamenti che avevo apportato al mio look: i miei capelli si erano allungati fino a sfiorare le spalle ed ero diventato ancora più alto, vestivo meglio e sembravo più elegante.

† Since we were 18 † -Larry StylinsonWhere stories live. Discover now