Scripted.

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Gli avevano sempre insegnato a fare piano.
In teatro, era così. Bisognava camminare sul palco senza fare rumore, muoversi in silenzio dietro le quinte per non farsi sentire dal pubblico. Obbedire a comandi silenziosi, osservare volti silenziosi dai lineamenti fatti in legno e raggiungervi una sorta d'intesa.
Era sempre stato bravo in questo. Le poche persone con cui era stato in buoni rapporti - prima della maschera, s'intende - erano rimasti stupiti dalla sua abilità nel non farsi notare se non quando era strettamente necessario.
Quello che non sapevano è che non era un'abilità. Non solo, almeno. Il silenzio era la sua compagna di vita, e interagirvi era come salutare un vecchio amico, o un prezioso alleato, nel suo caso.
L'uomo lo sapeva, questo. Ne era consapevole in ogni momento della sua esistenza, dalla prima volta in cui apriva gli occhi la mattina a quando li richiudeva la sera, durante i pasti e nei momenti di riposo, davanti ai suoi specchi coperti e la televisione scollegata, immerso in quella bolla perfetta di silenzio. Apriva le labbra, e non ne usciva suono alcuno. Perfetto.
Ne era consapevole persino in quel momento, mentre camminava per le strade della sua città, inoltrandosi tra i vicoli bui che si estendevano come venature in una foglia. Passava muri ricoperti di scritte, sfiorava l'occasionale passante, ignorava l'occhiataccia che gli veniva rivolta, andava avanti. Come un automa.
Quella volta, però, era diversa. Se la sentiva stretta addosso, come un costume troppo aderente. L'ultima volta.
Era cosciente anche di questo, quando svolto l'angolo e si trovò davanti l'insegna che cercava. La scritta di luci a neon che lampeggiava franticamente nel buio, spegnendosi e riaccendendosi con scatti meccanici, recitava "Destiny Club". Il club del destino. All'uomo venne quasi da ridere.
La maschera gli pesava sul volto, la luce rossa si rifletteva sul naso ligneo e le rughe incise sulla maschera, tingeva col suo colore la veste bianca che portava e balzava via dal mantello nero. Tornò con la mente alla sensazione che provava prima di salire sul palco, quella che poteva essere descritta solo come l'attimo prima di un'esplosione, quella piccola frazione di tempo in cui persino il silenzio pare fermarsi, sospeso nel vuoto.
Il coltellino al sicuro nella sua tasca, l'uomo sorrise.
Che la commedia abbia inizio.

*
Portava quella maschera da così tanto che alle volte si ritrovava a immaginare com'era fatto il suo volto. Ne tastava i contorni, sfregava i polpastrelli sulla pelle senza mai osare avventurarsi sotto il legno. La trovava ruvida in certe parti, laddove sapeva fosse il solco delle cicatrici che dal viso si avventuravano sul collo e su parte del petto, diramandosi come i rami di un albero. Tastava il pomo d'Adamo, la parte rialzata della gola che non vibrava più di suono, e poi le sue dita risalivano lungo i solchi e tornavano sempre alla maschera, fasciata stretta sul retro della sua testa.
Talvolta credeva di sfiorare la pelle di un mostro, di una creatura terrificante e certamente non umana. Immaginava di togliersi la maschera e di trovarsi davanti ad un demone dagli occhi di fuoco e i denti affilati e velenosi come quelli di una vipera, immaginava di crescere artigli al posto delle unghie e di sputare magma dalla bocca come i draghi nelle tragedie che scriveva.
Ma le sue mani erano totalmente normali. Portavano cibo alle sue labbra, pulivano casa, impugnavano una penna e imbrattavano il foglio con tutte le idee che partorivano. Anche le sue labbra avevano una forma normale, pur non vibrando più di suono.
L'uomo sedeva nella sua casa normale, nel suo corpo normale, con un foglio normale davanti e una sensazione scavata nel suo stomaco di non essere affatto normale.
Accanto al foglio, la pistola scintillava nel buio.

*
Aveva ricevuto la maschera come parte di un costume per uno spettacolo, adagiata sopra i vestiti con aria innocente.
Avrebbe dovuto mettere in scena delle commedie di Goldoni, e il ruolo che gli era stato assegnato quella volta era Pulcinella, la sua maschera preferita. Aveva letto in passato alcuni copioni in cui era presente, ed era rimasto visceralmente attratto dal personaggio, dalla sua inguaribile ironia che, a detta del suo agente, era tipica della sua figura, quella del "servo sciocco" che tanto piaceva al pubblico.
Ma Pulcinella non era uno sciocco, questo l'uomo l'aveva capito. E infatti l'ironia non era l'unico dei suoi tratti. C'era l'incredibile voracità, certo. La sfrontatezza.
Ma soprattutto, l'opportunismo. La capacità di sfruttare ogni occasione a proprio vantaggio. O, come l'uomo amava chiamarlo, il tempismo.
Aveva accettato subito l'incarico. L'agente gli aveva stretto la mano con un gran sorriso, passandogli il contratto e una penna.
Era uscito dall'ufficio col telefono già in mano, i copioni ficcati sotto il braccio e la borsa precariamente posizionata sulla spalla. Le sue dita si muovevano veloci sullo schermo, digitavano il numero del suo fidanzato.
I piedi, meno rapidi, erano già finiti sulla strada.
"Mi hanno dato la parte-" aveva urlato, prima che la macchina lo travolgesse in pieno.
"Giorgio? Giorgio?" chiamava la voce dal telefono. E il mondo si era immerso nel silenzio davanti ai suoi occhi.

Scripted. [OS- Codice Svelato]Where stories live. Discover now