Min-Seo's pov
Le luci soffuse del club facevano sembrare tutto più irreale, quasi un sogno. O forse un incubo. Il profumo dolciastro di alcol e sudore mi dava la nausea, ma ormai ci ero abituata. Era il mio rifugio, il mio inferno personale.
Mi guardai nello specchio del camerino, asciugando con un fazzoletto i residui di trucco che il sudore aveva sciolto. Le guance arrossate, le occhiaie coperte dal fondotinta, il trucco che mi trasformava in qualcosa che non ero: tutto gridava disperazione. Ero stanca. Dentro e fuori.
"Min-Seo, c'è qualcuno alla porta," disse il barista, sporgendosi dalla porta.
Franzai la fronte, sbuffando. "Un cliente? Digli che il turno è finito."
"Non è un cliente," rispose, scrollando le spalle. "Dice che vuole parlarti."
Rimasi immobile per un istante, sentendo un brivido lungo la schiena. Non sapevo perché, ma quelle parole mi fecero sentire inquieta.
Infilai la mia giacca, stringendola al corpo mentre uscivo dal camerino. Attraversai il corridoio strettissimo del club, ignorando i pochi clienti rimasti che bevevano e ridevano al bancone. Alla porta d'ingresso, un uomo mi aspettava.
Era elegante, quasi fuori luogo in un posto come quello. Il suo abito era perfetto, la sua postura rilassata ma autoritaria. Quando mi avvicinai, mi sorrise.
"Buonasera, Min-Seo," disse, il suo tono calmo e amichevole.
Il mio cuore saltò un battito. "Chi sei?" chiesi, incrociando le braccia per proteggermi.
"Qualcuno che può darti l'opportunità di cambiare tutto," rispose, senza perdere il sorriso.
Alzai un sopracciglio, scettica. "Guarda, non ho tempo per i tuoi giochetti. Se vuoi qualcosa, parla chiaro."
L'uomo fece un passo indietro, come per rassicurarmi. "Va bene. Ti propongo un gioco," disse, aprendo una valigetta che teneva in mano. Dentro c'era una pila di banconote perfettamente ordinate. "Se vinci, ti darò 100.000 won. Se perdi, non dovrai fare altro che accettare una piccola punizione."
Le sue parole mi lasciarono confusa. "Punizione?" chiesi, sospettosa.
Lui sorrise, tirando fuori due pezzi colorati di carta piegata, simili a tessere. "Uno schiaffo. Niente di più."
Mi fermai a riflettere. Era assurdo. Uno sconosciuto appariva dal nulla e mi proponeva un gioco da bambini in cambio di soldi? Ma 100.000 won non erano pochi. E io... io avevo bisogno di ogni singolo won.
"Va bene," dissi, con un mezzo sorriso. "Vediamo quanto sei bravo."
Prendemmo posto sul pavimento del corridoio. L'uomo mi spiegò le regole del ddakji, e iniziammo a giocare. La prima mossa fu sua, e con un colpo preciso ribaltò il mio pezzo. Schioccò le dita, soddisfatto.
"Credo che tu sappia cosa succede ora," disse.
Prima che potessi rispondere, mi colpì con uno schiaffo. Non era forte, ma abbastanza da far bruciare la pelle della mia guancia. Lo guardai incredula, sentendo la rabbia salire dentro di me.
"Un'altra," dissi, stringendo i denti.
Continuammo a giocare, ma ogni volta che perdevo, il suo schiaffo sembrava più pesante. La mia guancia pulsava di dolore, ma non potevo fermarmi. Non ancora. Quando finalmente riuscì a ribaltare il suo pezzo, esultai.
Lui rise e mi porse i soldi. "Hai vinto. Brava."
Stavo per girarmi e andarmene, ma lui estrasse un biglietto rettangolare dalla tasca e me lo porse. Sul retro c'erano tre simboli geometrici: un cerchio, un triangolo e un quadrato.
"Se vuoi vincere molto di più," disse, "chiama questo numero."
Fissai il biglietto, il dolore sulla guancia che sembrava pulsare ancora di più. "Che cosa significa?" chiesi.
Lui non rispose subito. Mi guardò per un lungo momento, come se stesse valutando la mia determinazione. Poi sorrise di nuovo. "Significa che puoi avere tutto ciò che hai sempre desiderato. Ma solo se hai il coraggio di giocare."
Se ne andò senza aggiungere altro, lasciandomi sola nel corridoio. Stringevo il biglietto tra le dita, il cuore che batteva forte.
Avevo una scelta. O restare ferma, continuando a vivere una vita fatta di miseria e sacrifici, oppure chiamare quel numero.
Non sapevo cosa aspettarmi, ma una cosa era certa: non avevo niente da perdere.

Ji-Min's pov
Il rumore della macchina da cucire era monotono, quasi ipnotico. L'ago andava su e giù senza sosta, creando un ritmo che conoscevo troppo bene. I miei occhi erano fissi sul tessuto che scorreva sotto le mie mani, ma la mia mente era lontana.
La fabbrica era fredda, nonostante le luci al neon illuminassero l'intera stanza. L'aria sapeva di polvere e sudore, un mix nauseante che mi faceva girare la testa ogni volta che respiravo troppo profondamente.
"Ji-Min!"
La voce del mio capo ruppe il ritmo delle mie mani. Sobbalzai, girandomi verso di lui. Mr. Kang era un uomo robusto, con occhi piccoli e astiosi che mi facevano sentire come se fossi sempre sotto osservazione.
"Quanti vestiti hai finito oggi?" mi chiese, incrociando le braccia sul petto.
"Quindici," risposi a bassa voce, evitando il suo sguardo.
"Non abbastanza," ringhiò. "Devi fare di più. Se vuoi mantenere il tuo lavoro, non puoi continuare con questo ritmo da lumaca."
Mi morsi il labbro inferiore, trattenendo le lacrime. "Farò meglio, signore."
Lui rise, un suono secco e privo di umanità. "Non è solo una questione di impegno, Ji-Min. Sei qui per fare soldi, no? Per aiutare la tua famiglia. Beh, io posso aiutarti. Ma devi fare qualcosa per me."
Le sue parole mi fecero irrigidire. Sapevo cosa stava per dire. Lo sapevo perché non era la prima volta che lasciava intendere qualcosa del genere.
"Signore, io..."
"Non interrompermi," disse, avvicinandosi a me. Sentii il suo odore - una miscela di sudore e sigarette - e mi venne la nausea. "So che sei disperata. So che non hai nessuno su cui contare. Ma io posso essere generoso. Posso aumentarti lo stipendio, darti un bonus."
Fece una pausa, i suoi occhi che si abbassavano su di me con un'intensità disgustosa. "Ma voglio qualcosa in cambio."
Il mio cuore sembrava sul punto di esplodere. Mi allontanai di un passo, cercando di nascondere il tremito nelle mie mani. "Non posso," mormorai.
"Non puoi?" ripeté, con un sorriso freddo. "Allora non posso nemmeno aiutarti."
Il peso delle sue parole mi schiacciò. Avevo bisogno di soldi. Avevo bisogno di un miracolo per portare la mia famiglia fuori da quell'inferno. Ma non potevo abbassarmi a tanto. Non potevo permettergli di togliermi quel poco che mi restava: la mia dignità.
"Se cambi idea," disse, aggiustandosi la giacca, "sai dove trovarmi. Ma ricordati che la tua situazione non migliorerà da sola."
Restai lì, immobile, mentre lui usciva dalla stanza. Le lacrime iniziarono a scendere silenziose, bagnando le mie guance. Mi sentivo intrappolata, senza via d'uscita.
Più tardi, mentre camminavo verso casa, notai qualcosa sul marciapiede davanti a me. Era un biglietto rettangolare, apparentemente caduto da qualche parte. Mi chinai per raccoglierlo, curiosa.
C'erano tre simboli geometrici stampati sopra: un cerchio, un triangolo e un quadrato. Sul retro, un numero di telefono.
Lo fissai per un lungo momento, il cuore che batteva forte nel petto.
Un gioco, pensai. Che tipo di gioco?
Non sapevo chi avesse lasciato quel biglietto, ma qualcosa mi diceva che non era una coincidenza. Sembrava una possibilità, una via d'uscita, per quanto rischiosa potesse essere.
Stringendo il biglietto tra le dita, continuai a camminare, cercando di convincermi che non l'avrei mai chiamato. Ma una parte di me sapeva già la verità.
Non avevo altra scelta.

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