One Shot - Il Lucchetto Nebbioso

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Passarono circa tre ore, prima che Mikh incominciasse a segnalare i primi sintomi di affaticamento. Attorno a lui, la foresta ottenebrava ogni zolla di terreno e gli animali che calpestavano le foglie che cadevano su di esse. Il tempo si era stabilizzato, seppur altre scurissime nubi si delineavano all'orizzonte. Sibili, fruscii e altri rumori s'avvicendavano serpeggiando ovunque come invisibili saette; imprimevano la loro impronta nelle orecchie altrui e suscitavano timore.
Appresso alla Foresta Ombrosa c'era il villaggio della sua Tribù, Yuxhun, famoso per la produzione d'opalescenti tessuti pregiati. Da dove era lui, se si fosse camminato un poco verso Ovest, si sarebbe potuto raggiungere uno strapiombo che dava appunto su Yuxhun, alle pendici di un monte mediamente alto denominato Sefer. Era un ammasso di capanne e tende che s'inoltravano nella gola della caverna accanto alla quale era stato dislocato il fulcro del borgo: lo Enmayar, il caseggiato protetto da recinzione che racchiudeva al suo interno i membri politicamente e militarmente più altolocati della Tribù. Davanti ad esso era stata edificata una fontana con un statua raffigurante il fondatore, Ushrapur, con una spada stretta nella gelida morsa della pietra.
Mikh non volle nemmeno rimirarla per l'ultima volta: i ricordi non gli avrebbero consentito d'infischiarsene di quel posto, sebbene proprio lì avessero tentato di trasformarlo nell'incarnazione del cinismo; così tirò dritto. Continuò a camminare a passo sostenuto, sperando che Fanya e il Mietitore non si fossero già risvegliati. Era una sfida contro il tempo: era consapevole che le opportunità di sconfiggere un Mietitore erano esigue persino per uno sciamano come suo padre; quel che era successo prima era già da ritenersi una fortuna sfacciata.
Ad un certo punto arrivò ad un fiume molto basso e lo guadò con disinvoltura. Allorché fu giunto sull'altra riva, qualcosa lo indusse a fermarsi: il silenzio era sovrano. La Foresta Ombrosa era famosa essenzialmente per due ragioni: l'ombra che l'ammantava da mattina a sera e i frequenti versi di bestie e cinguettii di uccelli. Per questo Mikh si era fermato, nulla più si palesava tra i funerei tronchi. Poi, dei passi. Due piedi che sbattevano contro il terreno in rapida successione, che correvano. Si girò. Dietro di lui, due figure stavano sfrecciando verso di lui. Una delle due era sua madre, l'altra era incappucciata e sembrava che il copricapo non potesse essere smosso nemmeno dal vento che veniva creato dallo spostamento d'aria.
Mikh si voltò di nuovo, in preda al panico. Non sapeva cosa fare. Era sicuro che l'avrebbero catturato in poco tempo. Fu allora che ci fu l'illuminazione. Scattò. Veloce come una folgore si protrasse fino ad una massa informe di nebbia che aleggiava lì vicino durante quella stagione: la Corona di Thomps, un anello mistico di nebbia che possedeva particolari proprietà. Ancestrali miti raccontavano di sortilegi avvenuti al suo interno agli albori delle Epoche, di abominevoli creature che scorrazzavano liberamente per tutta la sua estensione, di malefici commessi sul suo terreno. Era il luogo peggiore nel quale compiere un incantesimo col Lucchetto, dato che millenni prima nel sottosuolo era stato impiantato un seme di Magia Bianca, una sorgente che era in grado di provocare gravissimi danni, se entrava in collisione con della Magia Buia come quella del Lucchetto.
«Fermati, Mikh! Te lo ripeto per un'ultima volta: non costringermi a fare ciò che non voglio!» urlava la madre da dietro.
«Smettila, puttana! E vergognati dei tuoi misfatti!» disse Mikh, torcendo per un attimo il busto.
Gli occhi della donna furono pervasi da un fuoco inumano, e utilizzando le tecniche alle quali i Genghaart venivano iniziati fin da piccoli, accelerò incredibilmente, guadando il fiume in pochi battiti di ciglia. Persino il Mietitore delle Ombre faticava a starle dietro.
Mikh prese un bel po' di fiato e rotolò dietro una siepe finendo in un piccolo fosso. Ci si posizionò e attese che i suoi rivali entrassero a loro volta nella Corona di Thomps.
«Attento» disse Fanya, rivolgendosi al Mietitore, «mio figlio non è stupido, e anche se inesperto rimane pur sempre uno sciamano. Ne hai avuto la prova tempo fa. Se prima eravamo nel tuo regno, qui siamo nel suo. Dobbiamo essere furbi e prevedere le sue mosse.»
Da dove si trovava, Mikh aveva lo scorcio per osservare i movimenti e ascoltare i discorsi dei due. Il cuore gli pulsava tanto che pareva volesse lacerargli il petto ed uscire, le tempie gocciolavano sudore freddo, il respiro era trattenuto per evitare di produrre alcun rumore.
«Mikh» esordì Fanya, e lui si mise in allerta, «ascoltami con attenzione. Non volevo fare nulla a tua sorella, così come non volevo fare nulla a tuo padre, con il quale ho convissuto per tutti i tuoi diciotto anni.»
Mikh rifletté: allora anche il padre era morto, proprio come aveva immaginato.
«Esci fuori da dovunque tu sia e ti prometto che sarai partecipe della conquista del mondo da parte dei Genghaart.»
Mikh chiuse gli occhi. Era l'ora propizia, il momento della verità. Tutto o niente: non c'erano alternative. Per quel che si profilava innanzi a lui non ci dovevano essere remore: sacrificarsi per la salvezza del mondo in cui viveva era il compito di un eroe. Ripensò agli innumerevoli momenti felici e tristi che avevano marchiato il suo passato, a Primula, ai suoi lunghi capelli biondi, ai progetti di Orghul, alle sporadiche premure di Fanya; anche se aveva sempre pensato che, davanti ad una scelta, avrebbe rifiutato un'altra vita del genere, ora sarebbe stata il premio più bello. Si alzò in piedi spaventando leggermente i due. Aveva il Lucchetto in mano e altre lacrime gli solcavano le guance. Non avrebbe avuto scampo, ma almeno avrebbe portato con sé gli unici a conoscenza della reale ubicazione del Lucchetto. Il Mietitore si preparò a saltargli addosso, ma Fanya gli ordinò di rimanere immobile.
«Cosa vuoi fare, Mikh?»
Lui sorrise mestamente.
«Prima hai detto bene, mamma: questo è il mio regno. Nonostante non sia uno sciamano provetto, so comunque qualcosa circa il Lucchetto. So come intrappolarvi qui dentro.»
La madre fece qualche passo nella sua direzione, sinceramente angosciata.
«Sai che in un posto simile l'incantesimo sarebbe perpetuo? Sai che resteresti imprigionato assieme a noi? Ma soprattutto, conosci la leggenda della Corona di Thomps?»
«Sì.»
«Ma potresti essere dilaniato dal potere della sorgente magica! Potresti essere perfino disintegrato...»
Mikh sbatté le palpebre. Diede uno sguardo al suolo. Lì sotto si celava la causa della sua dipartita.
«Non cambia nulla» affermò.
Una scintilla di terrore balenò nelle pupille di Fanya.
«Non puoi rischiare tanto...»
«Posso eccome, se dall'altro lato c'è l'annientamento del mondo che conosco.»
Iniziò a recitare la formula dell'Oblio e un muro di tenebra rovente s'innalzò intorno a lui.
«Scappa!» urlò Fanya, parlando al Mietitore.
L'essere fuggì verso destra, ma non fu abbastanza lesto. Un'esplosione di gocce tenebrose modellò una catena che si legò alle caviglie dei due e li atterrò. All'esterno, il fitto strato di nebbia si era compattato non permettendo più a niente e a nessuno di accedervi. Era una giusta prigionia eterna, quella che li aspettava. Ma non per Mikh. Lui, che aveva risparmiato al pianeta uno dei più disastrosi conflitti che ci sarebbero mai stati, doveva condividere la cella con gli abietti per poi morire di stenti.
«Sei contento ora, moccioso? Diventeremo scheletri in neanche un anno.»
Nessuna risposta. Il mito si era avverato: Mikh era svanito nel nulla.
Con il trascorrere degli anni, Fanya e il Mietitore si spensero lentamente, affammati, schiavizzati e soffocati dall'onere che trasportavano. Di Mikh non si ebbero più notizie. Né quando Ilmya cadde, né quando le loro Terre furono bruciate e angariate, né quando la Luce tornò alla carica e si riappropriò di ciò che era suo. Forse era stato il vento a farlo volatilizzare. Magari aveva pressato sulle sue ceneri e l'aveva condotto fino a un luogo sacro nel quale avrebbe potuto riposare fino alla fine dei tempi. O magari no.

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