La Gloria della Sventura

72 3 0
                                    

Un giorno, un'ora, un attimo. E' questo quello che s'intende per indefinitezza: per quei momenti nei quali il tempo passa ma sembra non passare; trascorre talvolta velocemente e talvolta con una lentezza che si può quasi definire letargica. Era questo che Yates provava negli inquieti momenti di prigionia che viveva da ben due anni, rinchiuso nei sotterranei di Olbetia, intento ad attendere una provvidenza che mai si sarebbe palesata. Le guardie, certe volte, passavano lì vicino e sghignazzavano quando lo vedevano con in mano un libro, assorto nella lettura, con degli occhiali dai quali non si era mai voluto separare. Yates, ogni volta che ciò accadeva, sentiva crescere all'interno di sé una repulsione per quegli uomini al contempo perfetti ed impuri, progenie di uno Stato dal quale erano stati generati mostri aberranti dalle manie di grandezza. Sembra che il potere non dia alla testa solo a chi non l'hai mai posseduto: anche gli altri non ne sono immuni. Quando qualcuno è potente, e intravede l'opportunità di accrescere il proprio potere, esso lo pervade come un virulento morbo inestirpabile, come un ereditario tumore che s'insinua tra i suoi organi e nasconde la sua presenza per poi colpire ad uno stadio più avanzato. E quindi? E quindi, per impedire ai virtuosi di opporsi al volere sanguinario, li ingabbiavano come bestie circensi, li seviziavano, e nei casi più gravi li impiccavano. Dico li impiccavano perché, durante quegli anni, l'impiccagione era la pratica di uccisione più in voga: nient'altro appassionava le demoniache folle come un giustiziato che veniva impiccato nella piazza centrale di città come Laimpur. A Yates, tutto ciò disgustava immensamente, come se tutti i comignoli di un sobborgo emettessero effluvi nauseabondi in sincrono e ognuno di essi confluisse verso le sue narici.
«Siamo pensosi, oggi?» chiese una guardia, nel passare, vedendo Yates che, le palpebre leggermente calate, aveva i gomiti appoggiati nei pressi delle ginocchia.
«Vattene. Non sai far altro che insultare prigionieri e tentare di molestarli» gli rispose Yates. «Peccato che, con me, tu non ci sia mai riuscito» aggiunse, come era solito fare.
Infatti, Yates aveva ricevuto tante di quelle botte da tumefare anche una statua di marmo, ma le aveva tollerate con grande pazienza. Si era difeso, aveva lottato con i denti, e non aveva mai permesso che qualcuno si approfittasse di lui, lo utilizzasse come passatempo per strani desideri perversi indotti da una solitudine maschile.
«Zittisciti, cane!» sbraitò la guardia.
«Il cane, intanto, ha mandato dai medici più di sette guardie» disse Yates.
«E per questo, un giorno te la faremo pagare, verme...»
Detto questo, la guardia, un ragazzo alto, muscoloso, con gli occhi neri e il cranio lucido, si allontanò adirata.

Yates rise sotto i baffi, anche se non possedeva solo quelli. Il tempo in prigione, tutti i due anni trascorsi tra le sofferenze della solitudine, non gli avevano consentito di mantenere un aspetto decente, e così adoperava al meglio i momenti nei quali le guardie gli permettevano di darsi una ripulita; però, una cosa che lo aveva sempre affascinato dell'uomo era la barba, che poteva arricchire incredibilmente qualcuno che la possedeva. Tra i suoi effetti, primo fra tutti, bisogna annoverare l'incremento esponenziale di virilità che travolge chiunque; secondo, l'aumento di misteriosità, che nel caso fosse uscito di galera sarebbe servito assai, per confondersi tra la massa isterica di cittadini. Prese da sotto l'indecente letto che gli avevano assegnato una specie di lunga e larga scheggia di vetro, solcata da alcuni graffi rimediati col tempo. Anche a lei costui aveva lasciato tracce indelebili, e quindi anche il suo riflesso era stato compromesso, ma Yates la utilizzava ancora per specchiarsi di tanto in tanto, per ricordare a se stesso che, sebbene tutto il mondo fosse contro di lui, sebbene ogni individuo che lo scrutasse lo reputasse l'aborto di un troll ripugnante solo perché era in prigione; per ricordarsi che, nonostante tutto, restava sempre un essere umano. E questo è uno di quei pensieri che ti tiene legato alla fondatezza del tuo "io", che serve per non scordarsi le proprie origini, che contribuisce al mantenimento di una condizione di non-follia.
La raccolse e, dopo aver controllato che nessuno stesse passando per di là, osservò il suo volto sfigurato dalle ignominie umane. I capelli, neri, lunghi, lisci e al contempo disordinati, arrivavano laddove il collo si congiunge con la testa; la bocca, con le labbra screpolate, era circondata da un'incolta barba nera; gli occhi, che non erano più due identici ma due diseguali, attestavano ognuna delle ingiustizie che aveva subito. Ironico come giustizia ed ingiustizia abbiano significati opposti ma in molti frangenti coincidano drammaticamente.
Yates proseguì nella visione di sé in funzione di ricordo. Ci voleva sempre un'incommensurabile forza di volontà nel volgere lo sguardo all'occhio destro, quello colpito nello scontro che, due anni prima, l'aveva irrimediabilmente condotto alla prigione e aveva annientato ogni scorcio di felicità futura. Ché aveva brutalmente separato lui ed Ipazia, l'amore della sua vita. Quando intravide l'innaturale e smorto azzurrino che caratterizza le pupille dei ciechi, però propagato per tutto l'occhio, ritrasse il volto per qualche istante, per poi farsi coraggio e guardare la tremenda cicatrice che gli aveva disabilitato, esteticamente, l'occhio destro. Non era cieco, tuttavia aveva un globo cadaverico, che sembrava essere composto da immondi fluidi corporei, da acide e velenose secrezioni di qualche albero infetto. Quel globo, per giunta, era attraversato dalla testimonianza della sua fine, poiché un uomo non muore quando muore, ma quando non ha più ragione di vivere.

Concorso Fantasy: La Fantasia non ha LimitiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora