IV

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Diventammo amici venticinque giorni dopo. Durante quelle tre settimane e mezzo non la vidi mai, e non successe nient'altro di particolarmente significativo: continuai a non studiare, tranne che per recuperare l'orribile verifica di matematica, e a uscire con Sam, poi passai cinque giorni in gita a Parigi con la mia classe, tra giochi demenziali ai quali partecipai mio malgrado, costringendo il mio cervello a regredire all'epoca del me quindicenne (perverso, incapace di formulare periodi complessi e con un sorriso strafottente stampato in faccia), e notti insonni trascorse a dire cavolate con i miei compagni di avventure, che erano Francesco, un giocatore di pallavolo che sfiorava i due metri di altezza e aveva una tartaruga che faceva venire le palpitazioni a qualsiasi ragazza, e Andrea, l'opposto di Francesco, bassino, magrolino, felpe inguardabili e jeans perennemente strappati, ma un senso dell'umorismo davvero notevole. Con loro mi divertivo parecchio e senza di loro le lezioni erano una tortura. Mi chiamavano Gioele – o Giò, con approvazione del sottoscritto – e volevano bene a Sam. Mi prendevano in giro per non riuscire a stare con una ragazza per più di un mese e, di conseguenza, per non avere mai niente da raccontare su quel fronte, e sapevano che ero allergico alle fragole. Potrei anche definirli "amici" se, finito il Liceo, non avessero tagliato ogni ponte con me. In fin dei conti, però, non posso biasimarli: l'Università monta la testa un po' a tutti. Soprattutto a coloro che la frequentano.

Insomma, fino a quel giovedì non cambiò nulla. Poi, per destino o coincidenza (all'epoca non credevo né all'uno né all'altra) ci rincontrammo, anche se in un modo un po' particolare.

Era la seconda ora. Il professore era assente e il supplente ci aveva lasciato carta bianca. Nel vero senso della parola: ci aveva assegnato un tema da svolgere. Un tema breve, da completare entro la fine dell'ora, che avrebbe poi mostrato e fatto correggere ai suoi alunni del Linguistico. La spocchia dell'alunno medio dell'ultimo anno di Liceo, che si sente invincibile e superiore a qualunque altro bipede implume – a maggior ragione se del corso Scientifico – si fece largo tra i banchi della mia classe, facendo partire a razzo le penne di tredici ragazze e nove ragazzi. Ma non la mia. Io non avevo alcuna voglia di riflettere sul modo in cui la scienza avrebbe potuto aiutare l'uomo nella ricerca del senso dell'esistenza, né tantomeno sul senso dell'esistenza in sé. Così, decisi di scrivere perché non avrei scritto nulla riguardo l'argomento, sperando che il mio testo capitasse tra le mani di una ragazza che, leggendo il mio nome, di certo non si sarebbe sognata di informare il professore circa la mia mancanza di serietà.

Sì, okay, hai capito. Ma soltanto perché ci sto girando intorno da mezza pagina. Io, invece, quando l'ultima ora mi vidi riconsegnare il mio "tema" con la scritta "corretto da: Silvia Andersen", ci rimasi di stucco, perché a) mi vedevo costretto a riconoscere alle mie compagne di classe che La sirenetta era davvero un soprannome azzeccato, e b) nessun altro aveva firmato la correzione.

Ti starai chiedendo come riuscii a capire che si trattava proprio di quella Silvia e non di un'altra persona. Beh, successe come la prima volta che la vidi. Quella prima volta. Lo sentii e basta.

Aprii il foglio protocollo e osservai la mezza pagina che avevo riempito svogliatamente d'inchiostro. Era come l'avevo consegnata, perfettamente pulita.

Ai fini di una maggiore comprensione degli eventi che accaddero in seguito, ti riporto il mio eccellente testo.

"Ho deciso di non scrivere le mie riflessioni sul senso dell'esistenza perché l'esistenza è un concetto astratto che racchiude tutti i sette miliardi di vite presenti sulla Terra e io, benché sia tra queste, non sono tanto presuntuoso da affermare che le mie stupide teorie possano valere per tutte e quante le restanti sei miliardi e novecentonovantanove milioni e novecentonovantanove mila e novecentonovantanove vite. Certo, pensarci mi affascina, ma, così come affascina me, affascina anche dozzine di monaci orientali, eremiti, filosofi... Insomma, tutta gente che ha molto più cervello del mio. Se riflettere sul senso dell'esistenza avesse un senso, tutti potrebbero facilmente trovare il loro, di senso. Ma questa ricerca non ha senso, dunque tanto vale che ognuno getti la spugna e smetta di pensare. Perché pensando e basta non si fa altro che esistere senza riuscire mai a trovare un senso a una tale esistenza, mentre agendo si vive, e alla propria vita, prima o poi, un senso lo si trova."

Rimasi a fissare la mia scrittura disordinata per un intero minuto. La campanella era suonata da un pezzo quando alzai la testa dal foglio e mi accorsi di essere rimasto solo. Per qualche attimo mi sentii molto stupido. Poi, d'improvviso, l'istinto prese il sopravvento sulla ragione e, dopo aver gettato alla bell'e meglio tutte le mie cose nello zaino, eccetto il mio "tema", mi precipitai fuori dalla scuola, temendo fosse troppo tardi.

Invece la vidi. Per prima cosa le sbarrai la strada. Per tutta risposta, lei sbarrò gli occhi, contraendo la faccia in un'espressione talmente buffa che fui tentato di ridere. Poi le sventolai davanti al naso il foglio: «Cosa significa?»

«Cosa significa cosa?»

«Non mi hai corretto nulla.»

«E allora?»

«E allora perché ti sei firmata?»

A quella domanda non rispose subito. Si limitò ad aggrottare le sopracciglia, e io, tronfio di quella piccola vittoria, decisi di fare il pavone e dissi la cosa più scema che mi venne in mente con il sorriso più arrogante che avessi mai fatto: «Se vuoi chiedermi qualche "lezione privata" sul senso della vita, basta dirlo.»

E fu così che... Mi beccai uno schiaffo sulla guancia.

Oh, non credere che ti abbia mentito: diventammo davvero amici quel giorno.

Ci vollero solamente più parole del previsto e un'azione concreta che le scatenasse. 

EllipsisWhere stories live. Discover now