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E pagheresti tutti i tuoi giorni di sole

Per un singolo giorno di pioggia

[Pinguini Tattici Nucleari, Antartide]

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La prima volta che l'ho vista...

Te la descriverei molto volentieri, ma non me la ricordo. Sono quasi certo che accadde in aprile, però potrei sbagliarmi.

La seconda volta, invece, successe a novembre e su questo non ci piove – metaforicamente parlando, perché quel giorno pioveva che Dio la mandava.

Quando la guardai, fui certo di averla già vista quella prima e misteriosa volta perché mi resi immediatamente conto di aver già percepito la sua presenza. Come quando leggi un libro e, pur non potendo fare a meno di notare la frase chiave di tutta la storia, che risalta fra le mille altre lettere quasi fosse evidenziata, alla fine ti ritrovi sempre a dover tornare indietro a cercarla per cogliere le sue esatte parole e capire così il senso ultimo di tutto il romanzo. Con lei fu lo stesso. Tornai indietro a cercarla, mi persi tra le righe della sua storia, tentai di capirla con tutte le mie forze.

Mi sono chiesto spesso cosa sarebbe successo se quella prima volta non fosse mai esistita. L'avrei conosciuta ugualmente? E, se sì, le cose tra di noi sarebbero andate meglio?

In fondo, comunque, so che si tratta di domande sprecate. Se quella prima volta non fosse mai esistita, questa sarebbe semplicemente un'altra storia. Così come nessuno cercherebbe di trovare e capire la frase chiave di un libro se questa si trovasse esattamente in fondo al suo ultimo capitolo, io non avrei cercato lei allo stesso modo di come ho fatto.

Di quella famosa prima volta ricordo soltanto la sua presenza, e non lei nella sua persona, perché non la vidi in faccia. Era di schiena. E io ero probabilmente altrove con la testa, troppo impegnato a cercare di adattarmi alla ragazza che avevo all'epoca e al nostro gruppo di amici.

La ragazza in questione si chiamava Elisa. Il gruppo di amici era formato da persone di cui non ricordo più nemmeno il nome. Cambiavo spesso amici e ragazze; tuttavia, mentre ero io a decidere quando allontanarmi dai primi, non accadeva lo stesso con le seconde. Il fatto è che ero piacevole da guardare, ma non altrettanto piacevole da "approcciare": con me gonne corte, vestiti scollati, lucidalabbra al gusto del frutto della passione o profumi dolciastri e seducenti non attaccavano. Eppure, non so perché, quasi tutto il genere femminile mi considerava il classico esempio di ragazzo "con cui mettersi".

Non ero bello al punto da avere le scie di ragazze alle spalle, né vanitoso o strafottente da indurle a sbavare di nascosto dietro alla mia aura di fascino e mistero tipica del sì tanto idolatrato "bad boy". Quando camminavo per i corridoi della scuola mi beccavo parecchie sgomitate da parte dei "cattivi ragazzi" e incappavo puntualmente negli harem degli adoni greci, proprio come accadeva a tutti gli altri studenti. Ma ci voleva un niente perché le ragazze si considerassero mie amiche e un altro niente perché etichettassero il mio sorriso come il "fattore x": l'imprescindibile presupposto per la relazione amorosa della loro vita liceale.

Per quanto poco coinvolto, la maggior parte delle volte ci stavo, o almeno, cercavo di starci. Ma ecco che, al primo appuntamento, dopo un bacio o due di riscaldamento, tutto si perdeva in occhiate languide, mani nelle mani, frasi a effetto e Leitmotiv di cuoricini rossi, gialli e blu nelle chat da loro aperte quattro minuti dopo esserci salutati. Mi sentivo sempre già alla fine della storia.

Al secondo appuntamento partivano le sfilate di moda, il che annientava definitivamente ogni mio interesse. Nel giro di qualche settimana finiva tutto, con la lei di turno che si congedava gentilmente dicendomi cose originalissime, del tipo: «Non sei il mio tipo», e il medesimo me stesso che si scusava e diceva cose originalissime, del tipo: «Mi dispiace che non abbia funzionato».

Con Elisa le cose erano andate diversamente. Per cominciare, mi aveva dato buca al primo appuntamento, inaugurando la nostra chat per dirmi che qualcuno dei suoi parenti – qualcuno di cui avevo rimosso subitamente l'identità – aveva avuto un malore per cui era dovuta correre in ospedale. In secondo luogo, quando al nostro secondo incontro le avevo chiesto come stava sua nonna, lei si era infuriata a morte perché a star male non era stata sua nonna, bensì suo zio, e la leggerezza con cui avevo toccato l'argomento l'aveva a dir poco oltraggiata (testuali parole). Non mi aveva corretto con un mesto sorriso, utilizzando l'arma della gentilezza e manifestando il suo tormento interiore con espressioni cupe e sguardi vaghi per far breccia nel mio compassionevole cuore e poter così trovare conforto alla sua spiacevole situazione familiare fra le mie braccia. Al contrario: mi aveva piantato in asso e se n'era andata senza degnarmi di uno sguardo. Il che – mi trovo costretto ad ammetterlo per non sembrare del tutto ipocrita – lì per lì mi aveva lasciato un po' con l'amaro in bocca.

L'amaro si era trasformato in dolce durante il nostro terzo incontro. Le aspettative che mi ero costruito dopo i nostri due primi, originali e promettenti appuntamenti si erano trasformate in cocenti delusioni al quarto. Probabilmente avevo creduto di vederci qualcosa di speciale, in quei due primi incontri, perché non lo erano stati per nulla. Erano stati una buca e uno scontro, non due incontri.

Che vuoi farci, ero un tipo così.

La mattina dopo quel quarto incontro, Elisa mi aveva proposto di fare un giro con "la compagnia", e io, senza troppa enfasi, avevo accettato.

Successe quel giorno.

Una di quelle domeniche primaverili che si confondono tra loro. Eravamo al porto. O al parco vicino al porto. Dovunque fossimo, c'era molta gente in giro. A un certo punto, Elisa mi trascinò fuori dal gruppo per portarmi non so dove. Qualunque fosse la meta, sembrava cocciutamente decisa a volerci andare, così mi lasciai sballottare in mezzo a quella marea di persone per un po', finché, non so come e non so perché, non sentii più le sue dita fra le mie. A quel punto girai semplicemente i tacchi e me ne tornai indietro, senza guardarmi attorno, risoluto, rivolto altrove, vedendomi già risalire lungo una strada costeggiata da alte siepi, che non era nemmeno la stessa strada che avevamo fatto per arrivare nel luogo dal quale stavo scappando, ma era soltanto la strada che percorrevo ogni mattina per andare a scuola, quella strada che l'abitudine aveva ormai impresso così a fondo nella mia memoria da impedirmi di immaginare un'altra via lungo la quale camminare. Quella strada che amalgamava e riduceva a un tutt'uno confuso e irreale molti dei miei ricordi da liceale compreso questo ricordo... A esclusione di un unico, piccolo dettaglio.

Una figura ferma, immobile in mezzo a tutto quel via vai di gente all'affannosa ricerca di un bar, di un bagno, di un bar per andare in bagno, del cellulare, del figlio, della figlia, di una breccia di cielo libera da chiome fluenti, code, trecce e chignon attraverso la quale scattare una bella foto. Una figura diversa, un punto di fuga dal quale, per un attimo, pensai traesse origine tutto il movimento circostante.

So che può sembrare leggermente smielato. Vien da chiedersi: allora se un vecchio barbone fosse stato fermo come lei ti avrebbe fatto lo stesso effetto, no? Allora se avesse mosso un piede non avrebbe contato più un fico secco, giusto? Ecco, non so come dirlo, ma: no.

Si annebbiò tutto di quella soleggiata e anonima domenica mattina nella mia memoria. Tutto, tranne quella presenza. Tranne quella fotografia di un attimo, impregnata di chiome fluenti, code, trecce e chignon, di un caos indicibile, e tuttavia bella, e chiave di un'intera storia. Quella del nostro secondo, e vero, incontro.

EllipsisWhere stories live. Discover now