Capitolo 28

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Clara

Rovereto, 16 Febbraio 1943

Sono passati quasi due anni da quel 17 Maggio. Non ho più rivisto Alexander, ma per fortuna ci siamo scritti in questi anni facendoci forza l'un l'altra nonostante i chilometri di distanza. Infondo due anime destinate a stare insieme troveranno sempre il modo per farlo. Continuo a fare l'infermiera in ospedale, la guerra continua a spargere distruzione e morte, non si vede la fine di tutto questo. Io e la mia famiglia stiamo bene, si va a vanti come si può, come la guerra permette. Ormai ho il terrore profondo dei bombardamenti, tanto da scambiare dei semplici uccelli per dei caccia nemici, ma forse Rovereto ha un'aura che lo protegge, infatti in tre anni di guerra nessuna bomba è stata ancora sganciata, così come in tutto il Trentino. Ma la paura c'è, è sempre lì, ho paura e vorrei solo lui vicino a me. Mi manca come l'aria, è come se un pezzo di me si fosse staccato e se ne sia andato in Polonia con lui. In questi anni Alexander si è spostato, non è sempre stato in Polonia infatti nelle sue lettere mi aveva informata che sarebbe andato in Norvegia, precisamente in Lapponia. In tutto quel lasso di tempo che ha impiegato per spostarsi le sue lettere non mi sono mai arrivate, tanto da iniziare a temere il peggio. Ma per fortuna alcuni mesi dopo a casa mi arrivò una lettera sgualcita con l'intestazione in norvegese, e quando lessi il nome Alexander Krumme per poco non svenni. Insieme alla lettera ho trovato dentro anche una foto nella quale ritraeva un soldato, un giovane soldato intento a lavarsi le mani in una bacinella, fuori al freddo e al gelo. Dietro alla foto in questione c'era scritto: Ich wurde Fotograf und entdeckte, dass es mir gefällt. Sono diventato un fotografo e ho scoperto che mi piace. Ho sorriso a quelle parole, quindi quella foto l'aveva scattata lui! Chissà se ne aveva fatte altre. In quella lettera mi ha raccontato di quanto era freddo lì, anche se nulla superava il gelo della Polonia. Mentre leggevo le sue parole mi sono sentita un'egoista nel stare vicino al camino, al caldo, tanto da spostarmi fuori in giardino per sentire quello che lui stava sentendo in quel momento. Finito di leggere ho rimesso la lettera e foto nella busta per poi baciarla e portarmela al cuore. In quel momento ho sperato solamente che lui sentisse il calore di quel bacio. I giorni sono passati, a volte lenti altre volte veloci, e mi ritrovo qui ad arrancare per non affogare nella disperazione. Tra poco compirò 19 anni, mi sento più adulta e più responsabile rispetto agli anni passati, ma credo sia anche per via del conflitto mondiale. L'infanzia e la spensieratezza ci sono state tolte quando Mussolini pronunciò quel discorso in Piazza Venezia, il 10 Giugno 1940. Quattro giorni dopo, però, avrei conosciuto il tenente Alexander Krumme, che mi avrebbe aiutata a ritrovare quei sentimenti perduti; ma adesso lui è via, lontano da me, e ho paura che non lo rivedrò mai più.

Sto camminando dopo aver preso il pane, questa abitudine è rimasta invariata in questi anni. Fa freddo e mi stringo il cappotto cercando di proteggermi dal freddo di Febbraio, la neve scricchiola sotto i miei piedi. Arrivo davanti alla panchina dove tre anni fa io e Alexander abbiamo parlato, quella panchina testimone di dichiarazioni d'amore, occhiate furtive, testimone del primo appuntamento ma anche di momenti da dimenticare. Inizia a mancarmi l'aria e mi trattengo dal non scoppiare in lacrime, mi appoggio alla ringhiera per guardare il fiume Leno e le mie montagne facendo dei respiri profondi, cercando di calmarmi. "Amore mio, mi manchi" penso io chiudendo gli occhi. Mi dirigo verso la panchina e cado sopra di essa, guardo alla mia destra vedendo il posto vuoto e chiudo gli occhi immaginando Alexander vicino a me, come nel lontano 25 Giungo 1940. Dio, quanto abbiamo parlato quel pomeriggio! "Quanto tempo è passato" mormoro. È come se stessi parlando con lui, in questi anni l'ho fatto spesso, mi mettevo a parlare con lui come se fosse stato vicino a me. Questa cosa mi aiutava quando la sua mancanza diventava opprimente, e quindi lo sto facendo anche adesso, solo che il mio sussurro rivolto a lui riceve risposta. "Ha proprio ragione Fräulein." Io al suono di quella voce mi ridesto, non è possibile, sarà stata un'allucinazione. Tante volte me lo immaginavo lì, che mi parlava, prima di dormire, appena sveglia, mentre passeggiavo, lui che rispondeva ai miei monologhi... ma adesso sembra così reale! Giro gli occhi da tutte le parti alzandomi in piedi, poi guardo dietro la panchina e lo vedo lì, davanti ai miei occhi. Metto la mano tremante davanti alla mia bocca mentre lui si avvicina, e io scoppio in lacrime accasciandomi al suolo. Lui si avvicina e mi prende fra le sue braccia. Ho paura di stare sognando, in questi anni che lui è stato via non l'ho mai visto in sogno, come se avesse voluto dirmi che stava andava tutto bene, che lui stava bene. Ma se questo fosse un sogno? Vuol dire che gli è successo qualcosa? Ma mi sembra così reale! "Non puoi essere tu" sussurro toccandogli la schiena per capire se sia vero o solo frutto della mia immaginazione. La sua schiena ampia, la accarezzo, la stringo e le mie dite non stanno toccando un fantasma, lui è qui. "Sono io amore mio. Quanto è cresciuta la mia bambina" risponde lui con la voce rotta, quella voce che non ho sentito per due anni interi. Ci guardiamo negli occhi cercando di capire se tutto questo è reale. Anche lui sembra incredulo nel vedere me, sta guardando ogni singolo centimetro del mio viso per assicurarsi che sia veramente io. "Alexander sei davvero tu?" richiedo prendendogli il viso e guardando quegli occhi verdi che tanto mi erano mancati. È bellissimo, proprio come me lo ricordavo, forse è solo più magro e quella consapevolezza mi fa male al cuore. Avrà avuto poco da mangiare. Ma adesso è ritornato da me e mi prenderò cura io di lui. "Sì sono io. Sono venuto a sposarti." Ci abbracciamo forte mentre le mie lacrime continuano a uscire. Mi perdo fra le sue braccia, quelle braccia che tante volte mi hanno stretto, quando ero triste, quando ero felice e soprattutto quando stavo cadendo in quel giorno d'estate. "Quanto mi sei mancata." Ci baciamo, un bacio bisognoso e disperato, dopo che le nostre labbra non si erano toccate per anni. "Sei bellissimo" gli dico accarezzandogli la guancia. "Anche tu piccola, sei cresciuta" dice guardandomi con orgoglio. "Ovvio sono passati due anni" dico ridendo fra le lacrime, non posso crede che è veramente ritornato da me. Mi aiuta a rialzarmi, sollevandomi come faceva sempre. "Sei ancora uno scricciolo però" dice ridendo e io gli tiro un pugnetto sul braccio. Poi lo abbraccio poggiando la testa sul suo petto, e gli assesto un piccolo bacio sul cappotto. Se potessi non lo lascerei più andare e non ho intenzione di farlo più. "Tu non hai idea di quello che ho visto – dice baciandomi i capelli – tu sei la persona, la cosa più bella che mi sia capitata dopo quel 17 Maggio del '41." Il suo tono di voce è rauco e molto triste, capisco che sta trattenendo le lacrime ma lo sa che con me può lasciarsi andare. "Piangi soldato, piangi" gli dico e così lui lascia scorrere le lacrime tanto represse mentre rimaniamo così, abbracciati e in lacrime in mezzo al marciapiede, incuranti delle persone che ci stanno guardando dall'alto al basso. "Vieni, andiamo a casa." Adesso sì che è veramente casa penso prendendogli la mano mentre lui raccoglie la borsa del pane che era caduta. "Ma è Alexander... è il soldato" sento sussurrare alle persone intorno a noi vedendoci così emozionati, io sorrido a loro incapace di trattenere la mia felicità. Nessuno può rovinare questo momento, nessuno. Siamo appiccicati, fianco a fianco, e dopo aver trascorso tutto il tragitto in silenzio arriviamo nel vialetto di casa mia. "Fa più freddo qui o in Polonia?" chiedo ingenuamente rompendo il silenzio. "Ma secondo te?" ride lui e io scrollo le spalle. "Tu vai avanti. Tieni, prendi questa e portala in casa, mi allaccio la scarpa" dico porgendogli la borsa. "Va bene" dice e così lui si avvia. Mi abbasso, ma invece di allacciarmi la scarpa prendo la neve, faccio una pallina e gliela tiro ridendo. Lui si blocca, si gira e mi lancia un'occhiataccia. Forse non è il momento più adatto, o forse è proprio il momento giusto, ma voglio solo vederlo sorridere come un tempo. "Vuoi la guerra?" mi chiede e io mi faccio seria per un secondo. "Scusa piccola" dice abbassando lo sguardo il soldato che è appena tornato dalla guerra. Si guarda gli anfibi con lo sguardo velato dalla tristezza, vederlo così mi provoca un magone che mi impedisce di respirare, così mi disegno un sorriso sulle labbra e mi preparo alla battaglia. "Voglio la guerra. Fatti sotto soldato." Sorridendo appoggia il cappello vicino alle scale e mentre inizio a correre lui prepara una palla di neve, la lancia addosso a me centrandomi in pieno. Io ne lancio un'altra fino a quando non scivolo all'indietro cadendo sulla neve fresca. Lui ridendo si sdraia su di me baciandomi con foga e bisogno. Un desiderio disperato si fa strada nel mio corpo, sento Alexander spingere il suo corpo addosso al mio. Vogliamo entrambi essere ancora più vicini di così, nell'unico modo che ci è concesso. Sento un bisogno così forte di stringerlo, amarlo e farlo sentire al sicuro che vorrei cedergli qui, sulla neve, ma il buonsenso mi fa ragionare. "Amore, non possiamo fare l'amore qui" mormoro sospirando. "E perché no? Noi possiamo, possiamo tutto insieme" dice affannosamente baciandomi il collo. "Dai andiamo in casa, ho bisogno di te. Aiutami ad alzarmi." Così, ascoltando le mie parole, mi solleva prendendomi in braccio mentre le nostre labbra non si staccano neanche per un secondo. "Che bella che sei Clara." "Pensavo che non saresti tornato mai più" confesso con gli occhi lucidi guardando il suo bel volto. "Sono qui Clara. Sono qui." Sì, lui è qui e non se ne sarebbe più andato.

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Ricordo che era AprileWhere stories live. Discover now