Ferite ai Fianchi

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«Wanax, Wanax… ho un messaggio… è dal governo… è importante, mi è permesso?»
Al di fuori di una tenda, in un accampamento spartano, un giovane gridava queste parole in modo disperato, intervallate da attimi di affanno. Leonida era all'uscio, poggiato sul suo scudo con il braccio destro, stanco, finito, mentre si faceva medicare il suo arto superiore a manca dal chirurgo. Non sapeva che dopo aver sentito queste voci ovattate, affannate, la sua stanchezza si sarebbe trasformata in collera divina…
Il portatore di voce era un certo Theleukos, che aveva viaggiato instancabili notti da Sparta fino alla Porte Ardenti, per portare una lettera. Questa lettera aveva una così alta potenza psicologica e fisica, infinita, che avrebbe portato al disastro della più valorosa schiera di mantelli rossi che avesse preso in mano spada e scudo.
In quei due giorni di afa estiva non si erano tirati indietro da alcuna cosa che gli si fosse posta davanti alle iridi, sudati, esausti, avevano combattuto contro un esercito grande migliaia di volte il loro, i famosi 300 spartani, dei quali sopravvissero solo due... I persiani saranno sempre spaventati dai mantelli rossi, come il gran re Artaserse che ottant'anni dopo era ancora quasi intimidito a combattere l'esercito di suo fratello Ciro composto a “a malapena” da 10000 uomini, quando lui aveva una potenza che poteva arrivare a centinaia di migliaia di soldati. Erano diecimila, ma combattevano con quei sanguinari mantelli rossi, e questo bastava ai Persiani a far recidere loro l’esofago dalla paura. La battaglia delle Termopili faceva ardere di paura il cuore dei Persiani fino a bruciarlo. 
Leonida fece entrare Theleukos e licenziò il chirurgo. Dopo la prima battaglia, insieme ai suoi consiglieri e strateghi, capirono che la schiera nemica era immensa, soltanto Zeus poteva sapere quanti fossero, il Dio onnisciente, mentre loro erano soltanto 300. Ordunque, aveva mandato un messaggio al suo governo chiedendo altri uomini poiché erano inferiori in numero, anche se la loro forza era massiva in confronto a quella dei barbari.
Theleukos, però, portava questo messaggio: niente da fare, il governo era rigido sulle proprie decisioni, troppo pericoloso perdere uomini che potevano difendere la città. Erano rimasti in soli 300 contro forse centomila. Leonida, alla vista di questo messaggio, implose per poi esplodere.
Su tutte le furie decise di inviare il più valoroso dei suoi giovani soldati e il suo più grande amico a portare in patria la risposta a quel messaggio, ovvero che la società di Sparta era spietata, un nugolo di traditori per non dire codardi! Avevano abbandonato i loro compagni sul campo di battaglia! Non esisteva insulto più grande per uno Spartiate; il messaggio letto dai Geronti però era vuoto, era il nulla, vuoto come i loro cuori, ancora non si sa se fosse stata colpa della spietatezza dell’Anassandride o se fosse stato scambiato da qualcuno. I due morirono entrambi comunque; uno per vergogna si gettò sulla propria spada, dell’altro invece non si seppe più nulla. Forse morì sul campo di battaglia cercando di riportare a sé il proprio valore, altri dicono abbia seguito il  suo amico nel Tartaro, facendo la sua stessa fine. Fatto sta che Leonida non ordinò ritirata, non tentò di trovare accordo con i nemici, voleva il sangue e mandare alla tomba quanti più barbari possibile e… ci riuscì.
Convocò a sé tutti i suoi soldati, disse che il suo cuore chiamava alla battaglia; e per i soldati la determinazione e il coraggio erano il loro pane.
Combatterono fino all'ultimo sospiro, Leonida sembrava il Dio Ares sceso in terra, seminava cadaveri come una una gigantesca falce meccanica recide innumerevoli spighe in maniera così semplice da incarnare il racconto delle gesta dei più grandi Eroi tramandato da centinaia di anni, e che sei abituato ad ascoltare fin da quando tua madre ha smesso di patirti dall'interno.
Era indemoniato, un macellaio, andava avanti con la sua spada e mozzava qualsiasi cosa gli venisse incontro, arti, teste, cavalli. I persiani però non finivano, come se tutte le mosche esistenti nel creato avessero deciso di attaccare l'umanità. Erano nettamente inferiori in forza ma superiori in numero, e combatterli in uno spazio così complicato, soprattutto dopo i tradimenti da parte del governo e di quel bastardo di Efialte che aveva suggerito al nemico il punto da dove cogliere gli Spartiati e lasciarli senza via di fuga, era impossibile.
Anche i mantelli rossi pativano la stanchezza, e dopo un giorno di continua guerra, dopo essersi ritirati su un colle nelle vicinanze, vennero schiacciati. Le perdite dei Persiani erano spaventose, ma ne rimanevano ancora migliaia.
I 300 perirono, trecento uomini e ragazzi così valorosi da non essere mai più eguagliati da nessuno; altre centinaia di mogli e madri avrebbero bagnato il viso con lacrime assai salate, donne forse ancora più determinate degli uomini nello sperare di rivederli per ancora tanti anni a venire! Ma quanti amori troncati! Afrodite non perdonerà mai il suo amante per essere il Dio di questa tragedia.
Si narra che di questi 300 ne siano sopravvissuti solo due alla battaglia, ed è effettivamente così, ma nessuno conosce l'evento che porterà alla caduta dell'Olimpo e degli Dei, formatori del Mondo e delle sue maestose bellezze.
Il figlio del Leone non era morto, o meglio, lo era stato solo per pochi attimi, perché per volontà dei propri Dei aveva potuto attraversare le porte della casa di Ade senza neanche riuscire a vedere l'Erebo.
Forse alla fine avrà provato anche una sorta di imbarazzo per essere stato l’unico dei 300 a non vedere le limpide acque dell’Elisio, che fanno assaporare la bellezza della vita con la loro dolcezza, anche in un posto che è esclusivamente morte. Non sfidò Cerbero, che con le sue tre spaventose teste giudica e tramortisce l’anima al solo sguardo; e neanche i quattro giudici, che al contrario erano tutti d’accordo a non lasciare i 300 nei Campi Asfodelici per mandarli ai Campi Elisi, viste le loro enormi prodezze.
Riuscì anche a scampare alla sfida delle correnti dei fiumi infernali. Le onde infuocate del Piriflegentonte, le acque flagellanti dello Stige, l’obliterazione del Lete e il liquido velenoso dell’Acheronte. Probabilmente un uomo della sua stazza mitica sarebbe stato anche autorizzato dalla Regina rapita Persefone a navigare tra gli odori, le bellezze, le meraviglie del suo Divino giardino.
Zeus però aveva idee completamente diverse sul suo destino, così tanto determinato anche da sfidare le tre Moire che tessevano, svolgevano e recidevano il destino di ogni uomo, delle tessitrici che trovavano ilarità nel rendere complicate o anche ammirevoli le vite degli Eroi, delle donne, di qualsiasi essere umano uscisse dal grembo materno; così spietate, malvagie, ma incredibilmente magiche.
Il suo corpo, la sua mente, tutto sé stesso fremeva alla voglia di avere un potere sempre più vasto; non gli bastava affatto essere amato, predicato ed essere il Re di tutti gli Dei limitatamente in quella piccola parte di Mondo che veniva chiamata Ellade, patria di Eroi, di creature fantastiche, di storia, di cultura, e dove egli impose il suo potere nella mente degli Elleni.
Dopo la Tirannia di suo padre Crono aveva dato una faccia completamente nuova alla Terra che noi conosciamo. Appena nato, sua madre Rea, la regina dei Titani e moglie di Crono, voleva evitargli la fine che gli altri suoi figli avevano fatto. Dopo che Crono uccise suo padre Urano, sotto quella voglia spaventosa di sua madre Gea, la Madre Terra ebbe una visione, la profezia che uno dei suoi futuri nipoti avrebbe sconfitto e spodestato dal trono il controllore del Tempo, armato di falce. Questi decise quindi che, appena nati, i suoi figli dovevano essere inghiottiti per intero da egli stesso. Dalla sua unità con Rea vennero al mondo: Demetra, dea dell’agricoltura; Era, dea del matrimonio e futura Regina; Estia, divinità dei falò e della casa; Ade, il dio degli Inferi; e Poseidone, dio del mare e dei terremoti.
Questi ultimi vennero tutti divorati dall’insaziabile appetito di Crono, ma erano immortali, e questo il loro fratello minore lo sapeva. Appena Rea fece uscire dal suo grembo Zeus, il Dio omnisciente della folgore e di tutti gli eventi atmosferici, lo rese nascosto a Crono, che si mangiò un enorme masso al suo posto; scappò dal regno dei Cieli e arrivò fino al Monte Ida, nella splendida isola di Creta. Ivi venne dato ad Adamantea, una meravigliosa e intelligentissima ninfa, che lo curò fino alla maggiore età e completò lo sviluppo dei poteri del Dio degli Dei. Crono, il Titano dei regni di terra, mare e cielo, aveva il completo controllo e dominio su di essi, cosicché la Ninfa tutrice ebbe l’illuminante idea di tenerlo appeso nella sua culla a un ramo di un faggio e in questo modo il Cronide non faceva parte di nessuno dei regni sotto il controllo del Re dei Titani. Divenuto il dio che tutti conosciamo e ammiriamo, con la folgore più tremenda, luminosa e potente di sempre, egli  spedì nel Tartaro il suo acerrimo padre, facendo uscire dal suo  stomaco, quelli che sarebbero stati  i suoi compagni nella trasformazione del Mondo e nelle guerre  successive.
Per dare concretezza alla folle idea di avere il controllo religioso su più territori possibili,  gli serviva un condottiero, potente, determinato, coraggioso, mitico e incurante del sangue da spargere. Dopo aver assistito alla guerra dei 300 spartiati, un lampo di fulmine attraversò la sua mente, e si fermò lì, quel giorno non tirò nessuna folgore.
Moltissimi Dei erano contrari a questa pazza idea, su tutti Ade e Poseidone, che avevano provato in ogni modo ad arginare le ambizioni di Zeus.
L’anima di Leonida ancora non si era resa conto del  distaccamento dalla  sua parte materiale, che subito fu ricongiunta ad essa. Gli apparve allora sotto le vesti di un mortale stupendo il Re degli Dei. Sembrava una statua di Policleto, aveva una muscolatura così perfetta sotto quel suo chitone bianco candido, rifinito da ornamenti dorati. I sandali che portava ai piedi, anch’essi stupefacenti per la loro perfezione, erano di un pregio straordinario, cuoio e oro si mescolavano in un manufatto degno del solo grande Efesto, dio di fabbri e artigiani, marito della più antica Dea Olimpica. Con quei capelli e la barba nerissimi, così curati, impeccabili, era uno spettacolo quasi impossibile da immaginare.
Leonida rimase senza fiato, per lunghi minuti non ebbe la capacità polmonare di aspirare aria. Si ritrovava davanti a questa meraviglia quando il suo ultimo ricordo erano solamente grida, terrore, sangue, morte. Pensava  di vivere un sogno, il più bello della sua vita, ma quando il Cronide lo toccò venne riportato alla realtà.
Si ritrovarono entrami, Zeus sempre sotto sembianze splendide, sulla cima del monte Taigeto.  Il dio aveva pensato che Leonida avrebbe gradito dare l’ultimo saluto al suo regno, la sua città, dove nacque da famiglia divina, discendente di Eracle e dove divenne Re. Però Leonida, alla vista dell’Acropoli, fece esplodere il rancore che portava dentro di sé, urlando maledizione all’intera città giurando di non metterci più piede, nemmeno sotto obbligo degli Dei; a quel punto quindi, Zeus si rivelò a lui.
«Salve Leonida, figlio del Leone, successore di Anassandrida II, discendente del mio Divino figlio Eracle; colui che ti parla è il Re degli Dei,  colui che pose fine ai Titani uccidendo il proprio terribile padre,  e che ora controlla il cielo. Ho una proposta per te, il più prode dei Re di Sparta e dei guerrieri dell’intera Ellade. Se non accetterai, considerati già a vagare nei Campi Asfodelici di mio fratello, tormentato per sempre dai ricordi  della vita meravigliosa  che ti è stata data da noi Dei, e destinato a patire dolori immensi fino alla fine  del Mondo, senza corpo, solo il tuo spirito.»
L’Anassandride stette a lungo senza avere la possibilità di muoversi, non si sa se dallo stupore o se fosse stata una magia dell’Onnisciente…
        Ebbe tutto il tempo di realizzare, di iniziare a credere, di pensare a quelle parole divine. Immobile, davanti alla più potente delle entità che gli si parava davanti, lo fissava con quegli occhi circondati da capillari dorati dall’icore che il suo cuore pompava in tutto il suo statuario corpo. Alla fine, il Figlio del Leone parlò: «Oh mio Divino Zeus, sempre, in tutta la mia vita, il mio carattere e i miei modi di agire sono stati plasmati dalla tua grandezza e da quella dei tuoi fratelli, degno io non mi sento di poter accettare una tua proposta. Ma se il più potente dei creatori del Mondo è venuto proprio da me, Leonida, figlio di Anassandride, discendente di Eracle, mi ritrovo costretto ad accettarla, qualunque essa sia  e quali che siano le sfide estreme che dovrò  affrontare.»
Zeus iniziò a sorridere all’udire quelle parole,  sempre più appagato dalla voce del suo prescelto. Quei denti d’avorio circondati da carne dorata, quel viso  così vicino al suo spaventavano Leonida e allo stesso momento lo riempivano di tutto ciò che un umano possa desiderare. Motivazione, coraggio, voglia, piacere, determinazione, il corpo del Leone ne era pieno fino a scoppiare.
Il Cronide quindi radunò a sé tutti gli Dei che erano a suo favore, dopo che secoli orsono  furono chiamati a consiglio nelle  camere dell’Acropoli del monte Olimpo; l’occasione fu questa idea perversa, pulsante nella sua testa, e  forse l’unica volta che provò simile fastidio fu alla nascita dal proprio cervello della Dea della Sapienza, la protettrice della più potente città Greca  mai  fondata.
Gli Dei pare fossero nascosti tra i pini larici del bosco antistante, ma  arrivarono in fretta grazie alla  incredibile capacità di poter essere in diversi posti contemporaneamente, quando e come vogliono.  D’altronde sono Dei.
Giunse Persefone, che portava nel grembo ancora il rancore del suo rapimento quando Ade si disse contrario, la Dea del Melograno colse all’amo l’occasione di vendetta; poi c’era sua madre Demetra, da sempre dalla parte della figlia,  quali che fossero le sue decisioni; Efesto, che si dimostrò dal principio fedele al Re, dicendosi pronto a forgiare tutte le armi più potenti, spaventose e pregiate di cui la schiera degli Dei avesse bisogno. Poi viene Afrodite, le cui ragioni del mancato schieramento dalla parte di Zeus erano ancora ignote, e che più avanti  avrebbe compiuto azioni che definire piene di stupore è davvero molto, molto  riduttivo. Atena anche si dimostrò a favore del Dio che la partorì dal cranio, e Zeus contava sulle strategie che  questa avrebbe potuto concepire.
I gemelli Apollo e Artemide, Sole e Luna. Dì e Notte. Entrambi armati di arco godevano di poca rilevanza, al contrario dei figli di Crono, tra gli Dei dell’Olimpo, e volevano sfoggiare le loro infinite capacità. Apollo contava sulle sue doti da guaritore e Artemide aveva dalla sua parte l’esercito delle Vergini Amazzoni. Ultimo, ma non per importanza, c’era l’inarrestabile Dio della Guerra Ares: dove ci sono clangore di spade che si scontrano, arti mozzati, sangue, fatica, dardi assordanti e scudi spezzati, lui c’è sempre. Gli altri Dei si dissero contrari e ritennero pazze e pericolose le parole del loro Re, come succedeva spesso.
Leonida è lì, al cospetto di questo consesso. Si ritrovò schiena contro schiena con Zeus, circondato da entità divine, uno più splendido dell’altro, gli Dei sorridevano al Re Spartano, incoraggiandolo, instillandogli emozioni che mai aveva provato e che mai in futuro avrebbe più provato, era inebriato da tutto ciò e pensava di stare nel punto più alto del cielo, anche al di sopra del Re.
A questo punto si formò un’assemblea, Leonida apparve nel naos del  Pantheon Olimpico, così piccolo davanti agli altri, insignificante. Quello che lui vedeva erano gli Dei disposti a cerchio, seduti sopra i loro massivi troni, alti circa otto interi metri.  Gli scranni degli Dei contrari erano vuoti, ovviamente, uno più splendido dell’altro, decorati dai metalli preziosi più belli che la nostra Terra possa generare, dai colori  vivaci e mai visti. Ogni trono aveva una tonalità diversa in base al carattere Divino degli Dei che lo sedevano e sopra di essi i loro padroni erano immensi.
Intorno a tutti vorticavano altri spiriti, e la struttura era piena dalle arti delle nove muse;  su  tutte ovviamente spiccava Euterpe, la musa della musica, che con le sue melodie rendeva qualsiasi cosa meravigliosa. Le orecchie dell’Anassandride non riuscivano ad assorbire tutta la bontà di questa sinfonia, nessun mortale può, ma gli sembrava comunque di essere una delle corde di un’arpa, che veniva pizzicata o percossa, creando una nenia degna solo del Dio Apollo. Mentre Leonida ancora non riusciva a comprendere tutta questa meraviglia, sentendosi perso come un bimbo che toglie la vita alla madre nascendo, sentendosi senza corpo e senza alcun pensiero, Zeus parlò.
La sua voce era più tonante delle sue folgori, roca e pesante,  faceva sentire sottomessi a ogni suono che i suoi polmoni producevano. Iniziò spiegando di nuovo a tutti il suo piano. Voleva viaggiare in lungo e in largo, fino ai confini del mondo, per espandere il suo dominio, e gli serviva una mente che già possedeva la conoscenza delle divinità che a lui appartengono.
Mise ai voti Leonida, chiedendo se potesse essere realmente l’uomo giusto per guidare gli Dei in questa impresa. Tutti approvarono, portando il loro pollice grande come una bestia da soma verso l’alto, tranne uno, la Dea Afrodite, l’unica a tenerlo riverso. La maggioranza aveva raggiunto comunque l’obiettivo, e Leonida venne festeggiato.
Zeus era incuriosito, ma anche spaventato, della scelta della Dea più arcaica, Afrodite, e provò in tutti i modi a capire cosa la sua mente  concepisse. Non  approvava la spedizione, e continuava a comportarsi in maniera pericolosa.
«Oh Estia, ho un presentimento ...» disse la Dea dell’Amore «potrebbe essere la storia d’amore più bella che io abbia concepito, aiutami tu ... sto immaginando qualcosa di straordinario o sarà la “leggerezza” più grande di sempre, ciò che sto per compiere?» «Divina Afrodite, questa cosa la possono sapere solo le moire, io non verrò, assicurati solo che non fallirete.»
Questo pronunciavano le due Dee, sole, in un posto totalmente ignorato dalle altre Divinità…
A questo punto Zeus e Atena si misero in un tavolo, segnando su delle pergamene in lino egiziano tutto il percorso che avrebbero potuto fare. Puntavano ad andare al nord, nessuno degli elleni si era spinto mai in quelle terre, a loro servivano spazi nuovi e a est il potere persiano era troppo elevato, mentre altrove c’erano già civiltà influenzate dalla loro religione. Il sud era sotto il controllo degli Egizi, e le due religioni erano già sul punto di congiungersi, tra le aule Olimpiche era già ascesa qualche divinità nuova, una mescolanza tra le due culture,  come Arpocrate, nome  greco di un essere  rappresentato dagli Egizi con una lunga treccia e l’indice messo davanti alla bocca, il simbolo e allo stesso tempo il Dio del Silenzio. Si sarebbero ritrovati in una sorta di limo se avessero provato a scontrarsi col pantheon capitanato da Amon-Ra.
Dopo  quei momenti straordinari, il prode Leonida venne privato, come per magia, di quelle visioni Divine, e si ritrovò solo sul monte Taigeto, imponente nella Laconia; qui un popolo aveva dichiarato guerra a Sparta, qui gli Iloti vennero sterminati dentro al tempio di Poseidone; qui un grande terremoto avrebbe distrutto la maggior parte della città degli Spartiati, proprio a seguito di questa profanazione. Poseidone ha sempre fatto pesare la sua autorità pur essendo all’ombra del fratello, sempre bramoso di potere come il Cronide … Ahimé, non ci riuscirà!
Quando gli Dei fedeli a Zeus si spingeranno fuori dai loro domini di competenza, piena di infamie sarà l’Ellade, e gli dei rimasti saranno del tutto cambiati, e di nuovi se ne formeranno al posto degli erranti…
Il lutto materializzato all’interno del suo tempio ha le sue radici in una storia che ha del nauseabondo, gli Iloti sono quella parte di popolazione di Sparta che vive nelle campagne, gente molto umile che lavora la terra per garantirsi la cena, e che produce grano (soprattutto) per gli abitanti della città. Gli uomini venivano scelti anche per essere loro schiavi durante le spedizioni militari. Divennero sottomessi dopo che cercarono di opporsi alla città di Sparta che aveva preso il sopravvento sui loro territori, ma Sparta combatteva coi mantelli rossi.  Dopo secoli di schiavitù, la popolazione ilota cercò di nuovo di  ribellarsi, arrivarono in centinaia alle porte, armati come potevano, con pezze in cuoio e  calzari del medesimo semplice materiale, con spade in rame di bassa fattura. Penetrarono all’interno e vistisi in netta inferiorità numerica i rimasti si ritirarono all’interno del tempio del Dio dei Mari, sperando così di poter scampare ai pericoli. Gli Spartiati  si ritirarono, ma il nuovo Re Plistarco aveva idee diverse. Comandò all’esercito di uccidere gli invasori,  inclusi coloro che si trovavano all’interno di un luogo sacro, così profanarono il tempio rendendo il naos una piscina di sangue e carne umana. Poseidone perciò generò uno spaventoso terremoto, crollarono mura, case, palazzi reali ma il suo tempio rimase intatto. Gli Iloti approfittarono  del sisma e della confusione che si creò all’interno della città,  liberandosi dalla servitù e fondando un proprio villaggio al di là del Taigeto.
Queste storie sono solo marginali, ma  ci fanno capire quanto effettivamente forti possano essere gli Dei, e ci mostrano anche il loro grande lato oscuro che li porta senza alcuno scrupolo a uccidere gli umani   considerati solo piccole creature di passaggio nella loro vita infinita -  una esistenza di valore veramente infimo, tranne quella di alcuni,  con la quale giocano per una sorta di sollazzo o forse per la loro fama, come avvenne proprio con Leonida.
Tornando a quella che è la sua storia, gli Dei riempirono la sua umana testa di qualsiasi tipo di consiglio, incoraggiamento, gli spiegarono come doveva agire per rendere le Divinità fiere della scelta del grande Re. Gli dissero che doveva essere pronto a patire fame e sete, freddo congelante e caldo afoso, indolenzimento delle membra e rottura di ossa - che durante il suo lungo viaggio sarebbero state inevitabili - soprattutto attraversando un così lungo tratto di strada  privo di segni di civiltà, pieno di paludi, senza strade e sentieri per il transito di persone, e colmo di pericoli assurdi.
Leonida doveva andare verso il nord, la parte fredda del mondo, dove ogni uomo fino ad allora aveva rifiutato di andare a vivere per le difficoltà a rendere abitabile tali territori, e per la bassa predisposizione al grande freddo, trattandosi per la maggior parte di popolazioni di mare.
Zeus e Atena hanno pensato che andando verso nord probabilmente avrebbero incontrato un altro grande mare, come l’Egeo, al termine del quale fosse localizzata una parte di mondo inesplorata, che potevano sfruttare come regione pilota per poi conquistare il resto della parte settentrionale del creato. Dovevano fare un viaggio da un estremo all’altro del mondo, per poi conquistare progressivamente anche l’interno, espandendo sempre più il loro potere.
La spedizione ebbe inizio all’arrivo dell’estate, che quell’anno sarebbe stata soffocante, nell’anno  470, prima della venuta del profeta di una religione potente, forse la più potente nel futuro. Erano passati quasi dieci anni dalla battaglia delle Termopili, e dalla brevissima morte del Re che capitanava l’esercito in quella luttuosa guerra.
Era un giorno molto caldo, il Leone grondava  sudore senza reazione, era stato abituato fin da piccolo a dover sopportare tutto l’equipaggiamento da guerra, il corsetto di cuoio con sopra i pettorali di bronzo e la veste da mettere sotto.  Il carro di Apollo si trova nel punto più alto del cielo, il Sole scalfisce le pietre, dovresti provare caldo, e un sudore appiccicoso generante fastidio. Ma Leone no! Si trova sempre tra le alture del Taigeto a osservare la sua vecchia patria, che lo aveva tradito nel momento del bisogno. Una vista stupenda; nel più lontano orizzonte si riusciva comunque a scorgere il mare, che anche da così lontano faceva sentire la sua brezza, quasi magica. Le rovine di alcune case a Sparta ancora non erano state demolite e abbellivano la veduta, davano a tutto un senso di  suggestivo, con alle spalle vallate e boschi completamente verdi e ancora rigogliosi dalla recente primavera.
Si sentì toccare alle spalle, e la sua vista si spostò da quella meraviglia agli occhi di una fanciulla dai capelli castani come la corteccia di un platano, che con i raggi del sole  al tramonto diventavano steli d’oro; gli occhi dal taglio non comune facevano dimenticare qualsiasi preoccupazione, neri come il cielo dopo il tramonto,  le iridi come stelle, erano dorati. Il corpo di una delicatezza infinita, che mostrava le sue forme aggraziate sotto al chitone bianco come le nuvole, decorata  dall’oro dei girasoli. Emanava un profumo inebriante, non come i fiori, nemmeno come i frutti, ma come una prateria completamente ricoperta da verde, dove gli insetti vivono senza preoccupazione alcuna perché si sentono protetti da steli forti. Era un odore antico, arcaico, originale. Era Afrodite.
Si spostò alla destra di Leonida con movimenti lenti, semplici ma complicati allo stesso tempo, così dolci da richiamare la polpa di un cachi  perfettamente maturo,  movimenti degni della migliore mènade dionisiaca, forse  paragonabili solo a Tersicore, la stupenda Musa della Danza.
Leonida provò la stessa sensazione che ebbe alla vista di Zeus, sarà stata una cosa comune agli Dei togliere il sospiro agli uomini alla loro vista, come quando scambi gli occhi con la persona per cui provi agàpe, un amore senza confini che ti toglie aria dai polmoni come a seguito di un pugno nello stomaco. Vedere un Dio però moltiplica la sensazione, soprattutto se si tratta della Dea dell’Amore e della Bellezza.
Quando lei cominciò a parlare, Leonida pensava di star assistendo alla più magnifica delle melodie,  una voce così calda che penetra interamente le orecchie, il cervello, il cranio, e riempie di bontà i cuori. Non ti fa più pensare, come nel momento del tuo primo bacio ... stai lì, immobile, a goderti il momento, mentre il cuore pulsa all’impazzata, rendendoti il viso paonazzo.
«Salve, nostro prode condottiero, sono io, Afrodite, la più antica degli Dei Olimpici, nata dalla spuma biancastra del meraviglioso mare e dal sangue di Urano. Sei davvero sicuro di poter vivere una sola esperienza, una sola missione?... O hai mai pensato di poter andare incontro alla felicità?...»
«Mia Dea, lieto sono io di vederti così chiaramente nella la tua infinita bellezza ... tu, che mi riempi l’animo di gioia, troppo enigmatiche sono le tue parole cosicché io sia in grado di rispondere. Dimmelo tu, portatrice dell’Amore»
Ma la Dea si dissolse appena l’Anassandride pronunciò l’ultima sillaba delle sue parole, riempiendo di pensieri ansiosi il suo cervello.
A questo punto una luce accecante  prese forma intorno, e Leonida si dovette parare gli occhi con scudo. Lui aveva solamente un chitone color rosso, colore di Sparta, legato al livello dello stomaco da una corda, ma aveva tutto l’equipaggiamento necessario a una guerra. Spada, lancia, bipenne, scudo, arco e faretra. La luce cominciò a crescere , emanando un bagliore bianco come la schiuma delle onde che si abbattono sugli scogli, ma opaco come il latte di capra appena munto. Cresceva, e cresceva,  saturando la vallata di odore di cenere, come dopo un incendio. Leonida cominciò a pensare a quei racconti che gli arrivavano da viaggiatori, mercanti, che provenivano dalla più ricca delle isole della Magna Grecia, la Trinacria, dove sorgeva una montagna diversa dall’usuale, aveva un foro al posto della punta, e quando Efesto si arrabbiava faceva fuoriuscire fiamme mortali, e pietre incandescenti, alla vista tanto stupende quanto spaventose. Nessuno poteva sopravvivere al calore e la paura che si provava dinanzi a questi eventi era  indescrivibile.  Sembrava di poter essere lì ad assistere all’ira del Dio, all’odore acre che provocava. Ma tutto questo non c’entrava con l’inferno dell’Aitna, era tutt’altro, erano gli Dei che si approcciavano al loro condottiero, per cominciare finalmente il loro viaggio.
Il primo a palesarsi fu ovviamente il possente Zeus, che con un ghigno salutò il Leone, facendogli provare la stessa voglia di vendetta che provò la prima volta che gli si mostrò;  di seguito gli altri. Era come se un masso grande come un’abitazione piovesse dal cielo ogni volta che ognuno di loro si faceva vedere, la terra tremava, l’aria visibilmente spostata, e le piante prostrate, come per effetto di un’esplosione. Tutto quasi inenarrabile nella sua magnificenza, quasi gli Dei non volessero essere descritti a parole nella loro interezza.
Come la prima volta, si ritrovò al centro, a fianco del Cronide, circondato dalle altre divinità, e si sentì insignificante.
Comparve una tenda, con all’interno le maggiori ricchezze a cui un Re possa ambire: collane, anelli, gioielli di tutti i tipi e colori, vestiti, armi, armature, tutte forgiate da Efesto e impenetrabili, fatte di un materiale bello come l’oro e resistente come l’acciaio ... era bronzo celeste. C’era anche cibo, orzo, focacce, grano, pane ancora fumante che emanava un odore buonissimo; c’era carne secca e ancora cruda, pellicce e un’anfora maestosa, alta quasi quanto Leonida, completamente piena d’olio d’oliva, l’oro liquido sacro ad Atena. Il vaso era meraviglioso, la famosa anfora del Dipylon, costruita ormai quasi trecento anni prima, ed ora era in possesso degli Dei. Ornata da molteplici decorazioni geometriche, meandri, greche, denti di leone, losanghe, antilopi stilizzate, e con al centro la scena del lamento funebre: una donna che giace morta sul suo letto, pianta da persone che provano enorme tristezza, che si strappano i capelli dalla disperazione. Uomini in ginocchio ad implorarla e il suo bambino, che si sta chiedendo perché le Moire abbiano dovuto dare alla sua amata madre una fine così.
Fuori dalla tenda c’erano due cavalli bianchissimi, con i muscoli che parevano sul punto di scoppiare, la criniera lunghissima, sembrava fatta di seta, non avevano nemmeno bisogno di armatura. Trainavano una carrozza assieme ad altri animali da soma per aiutare Leonida nella sua impresa, i quali avrebbero trasportato il necessario. Non restava altro che preparare tutto e mettersi in marcia, a rischiare la vita per la perversione del più grande degli Dei, andando incontro all’ignoto. L’ignoto… una cosa che fa sempre paura a tutti, come al figlio della donna morta rappresentata sull’anfora ... come farà senza madre? E come farà Leonida a sopportare le calamità che gli si presenteranno davanti al cammino…
Tutto pronto per iniziare l’itinerario, Zeus e Leonida incrociarono di nuovo gli sguardi. Quest’ultimo continuava a pensare alla particolarità degli occhi degli Dei; avevano le pupille nere e le iridi dorate,  incutevano timore, non riuscivi a guardarli per più di qualche breve attimo, ma allo stesso tempo erano così belli che potevano essere un quadro a sé. Questo scambio di sguardi terminò quando il Cronide chiuse l’occhio destro, a mo’ di occhiolino, accennando un ghigno verso il Leone, poi gli Dei scomparvero, e Leonida rimase solo con i doni a lui datigli dai Governatori del Mondo. Subito dopo una nuova stella si palesò nell’empireo, volgeva verso nord, ad indicare la strada che l’Anassandride avrebbe dovuto compiere. Doveva seguirla. Era così luminosa da rimanere visibile anche di giorno.
Anche se la Dea Nyx aveva preso il posto del carro trainato da Apollo, Leonida iniziò il viaggio. Tirò giù la tenda e caricò tutto sul carro, si sedette  e spronò i cavalli giù per il sentiero che portava dalle alture del monte Taigeto fino a valle, da lì avrebbe potuto continuare verso nord fino ad uscire dalla Laconia e giungere in Argolide, dove sperava di trovare riposo presso qualche locanda nella grande città di Argo, senza dover svelare però la sua identità, essendo oramai lui stesso, per l’intera Ellade, nei regni d’Ade.
Nella strada per arrivare ad Argo non ci furono pericoli, non incontrò quasi nessuno, tranne qualche pastore che portava gli animali al pascolo o qualche mercante, che si spostava di città in città per provare a vendere quante più cose possibili. Arrivò in città in un paio di giorni, fermandosi una sola volta a dormire.
Giunto a destinazione riscontrò i primi problemi, nulla di grave, ma  il solo entrare gli fu difficile. Portava con se tante armi, oggetti di alto valore,  e i guardiani della pòlis erano un po' insospettiti, ma Leonida si improvvisò un mercante che vagava da molto tempo, diventato ricchissimo scambiando e comprando le migliori mercanzie che trovava nelle più grandi città in cui avesse messo piede, dalla Magna Grecia alla Macedonia, alla Ionia fino a Bisanzio, e chiese soltanto un piccolo locale dove potersi ristorare e dove poter passare la notte, fingendosi impaurito dalla minaccia dei lupi dei boschi circondanti la città. Le guardie lo fecero passare malvolentieri, e gli trovarono un piccolo quadrato di casa dove poter fare ciò che avesse preferito, ma gli permisero di restare una sola notte. La mattina dopo si rimise in cammino già all’alba, attraverso tutta l’Argolide giunse fino a Corinto, una città meravigliosa, soprattutto d’estate, dove i ciliegi sono ormai pieni di rossi frutti grandi quasi come un pugno,  città  famosa anche per le belle prostitute che frequentavano le vie per guadagnarsi da vivere. Quivi Leonida si invaghì di una di esse, chissà se sotto  l’influenza della Divina Afrodite che osservava il suo errare, comunque l’eroe decise di prolungare la sua sosta in Corinto, stando insieme alla donna e regalandole molti gioielli che gli erano stati donati dagli Dei. Ci rimase circa una settimana, e giacque con lei tutte le notti, passando la maggior parte delle giornate facendo l’amore, al chiarore della luna e delle stelle, allo splendere dell’alba, e all’aria nostalgica che crea il rossore del tramonto. La casa di lei infatti aveva un letto fatto apposta in un balconcino da cui si poteva vedere il cielo nella sua interezza, e usufruirono ogni volta di esso, sperimentando sempre cose nuove. A malincuore dunque lasciò la città dopo sei o sette giorni e si incamminò verso Megara, la città marittima sotto il controllo di Atene, che era la sua prossima meta.
Qui, al contrario di ciò che si aspettava, venne accolto con clamore, i Megaresi non erano sospettosi sul suo conto, anzi. Pensavano fosse un privilegio avere a che fare con un saggio, potente e ricco signore come la persona che si trovarono alle porte in un pomeriggio inoltrato d’estate. Venne portato anche al cospetto del governatore della città, che gli diede un pasto abbondante, una delle sue figlie per passare la notte, e una delle stanze più  accoglienti del suo palazzo.
La ragazza, appena arrivata nella sua maturità, si era innamorata dello sguardo dell’Anassandride, ed era già pronta a sposarlo, per così diventare la Regina di Megara al fianco di un uomo possente e bellissimo. Aveva sui sedici anni, mentre Leonida ne aveva compiuti settanta quell’esatto anno, ma  l’incontro con gli Dei lo aveva cambiato, rinvigorito. Sembrava ne avesse trenta, e anche lui si sentiva un giovane nel pieno delle forze, quindi le stesse cose viaggiavano nei pensieri della fanciulla. Quella notte fecero l’amore ininterrottamente, e la ragazza non provò neanche il minimo dolore, pur essendo la prima volta  che veniva posseduta da un uomo e dal suo amore, oltre che dal suo corpo. La mattina dopo Leonida si svegliò con lei abbracciata al suo muscoloso busto,  non aveva chiuso occhio. Parlarono a lungo, facendosi continue lodi reciproche sulla loro bellezza, ma Leonida dovette  rinunciare a quella promessa di felicità. Le spiegò che non sarebbe potuto restare, già aveva perduto tempo tra le bianche case di Argo, e temeva l’ira degli Dei in caso avesse prolungato nuovamente le sue soste - ma questo lo tenne per sé. Doveva continuare per arrivare il prima possibile alla meta prestabilita, doveva raggiungere la nuova stella. Lei però era perdutamente innamorata, quindi anche contro la volontà del Leone era disposta a partire insieme a  lui. Sfortunatamente  il Re non lo permise, e per evitare di farla scappare la richiuse in una cella nelle profondità delle sue torri. Qui lei morì di  stenti perché il suo corpo non le aveva permesso di continuare a vivere dopo una settimana di rifiuto di acqua e cibo.
Leonida avrebbe rimpianto entrambe le donne - ma Afrodite lo sorprenderà ancora una volta, al culmine della sua impresa…
Rimpiangerà  sempre le forme meravigliose della prostituta corinzia e il viso, stupendo nella sua giovinezza, della principessa di Megara, di cui non saprà mai la fine orribile che le toccò in sorte.
Leonida  aveva una determinazione  fuori dal comune, sentiva che questo viaggio era importante anche per il destino degli uomini; era stato scelto, proprio lui, dagli Dei in persona, dagli Dei, i creatori del mondo… Quindi continuò imperterrito, nulla poteva scalfirlo, neanche una spada affilatissima del più potente bronzo sulla faccia della Terra.
Da Megara giunse in poco tempo ad Atene, già la città più importante della Grecia, politicamente piuttosto caotica e confusionaria. Della sua sosta ad Atene c’è poco da dire, Leonida scelse di restare senza donne, per non martoriare più né il suo cuore, né quello altrui. Comunque tra le strade di Atene  si alimentarono dei dubbi su questa figura che non si era mai vista,  un pettegolezzo infinito tra le vie della città  fino a diventare l’argomento principe di qualche diverbio all’interno dell’agorà, dove qualcuno pensò addirittura che si trattasse del Dio Apollo, sceso in terra per controllare i  comportamenti degli ateniesi.
Dopo esser passato per Atene attraversò tutta la Beozia, senza fermarsi in nessuna città importante, sperando di  alleggerire i dubbi  sul suo conto, quindi passò le notti allestendo la tenda fornitagli dagli Dei, e mangiando il pane che ormai era diventato secco, la carne essiccata,  l’olio d’oliva che aveva a disposizione.
Attraversò tutta la Beozia in un paio di settimane, aggirando Tebe, e giungendo nella Focide, fino alla famosa città di Delfi, sede dell’omonimo oracolo gestito da Apollo. Durante la notte che precedeva il suo arrivo nella città, venne svegliato da un bagliore, rivelandosi poi proprio il Dio del Sole.
Esso gli consigliò solamente di far visita alla Pizia per chiederle consigli e sperando in una profezia, possibilmente l’anticipazione di un successo piuttosto che una disfatta.
Quindi si incamminò su per la collina che porta all’Acropoli, dove è posto il tempio di Apollo e dove opera la Pizia; dopo un tempo di attesa, venne chiamato davanti all’oracolo.
La sacerdotessa si trovava nel naos, davanti a un’imponente statua rappresentate il Dio delle tante arti, in un posto meraviglioso, ricoperte erano le pareti da disegni rappresentati la battaglia tra Apollo e il mostruoso Pitone per il possesso della voce oracolare, la sfida più difficile mai compiuta dal Dio che lo porterà sempre ad essere spaventato da draghi e vipere. Tutto era illuminato da poche fiaccole, tranne per lo scintillio dei doni dati ad Apollo e alla Pizia, che emanavano un fioco bagliore anche nella più completa tenebra.
Leonida allora parlò, chiedendo una profezia sul viaggio da compiere. Nel frattempo gli dei erano con lui, non si mostravano ma si poteva percepire un’aria strana nel tempio, diversa dall’ordinario, erano tutti lì ad aspettare il verdetto. La pizia si piegò su sé stessa, in ginocchio, iniziò a tossire e un fumo verdastro fuoriuscì dai fori delle orecchie, dagli occhi e dalla bocca, emanando un odore acre che fece tossire anche Leonida. Essa si sollevò, sostenuta dal vento, sembrava uno spirito, e una voce roca, che non proveniva da lei, iniziò a recitare le seguenti parole:

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